I mezzi della cultura di massa sono di per se stessi nocivi? La televisione, ad esempio, è necessariamente un mezzo destinato a imbarbarire la sensibilità, o non potrebbe anche avere una sua funzione artistica?
In un intervento di Umberto Eco al congresso veneziano di estetica (raccolto negli Atti del III congresso di
estetica, Torino, 1957) il problema viene posto nei suoi termini esatti: essenza di una specifica arte televisiva
sarebbe semmai la ripresa diretta, «narrazione all’impromptu che offre allo studioso di estetica problemi analoghi a quelli sollevati dalla forma tipica della composizione jazz, la jam session… sui binari di una congenialità che permette (ai musicanti) una creazione collettiva, simultanea, estemporanea e tuttavia organica». È in quel «tuttavia» il segno di una incongruenza, e l’esempio opportunissimo della jam session sembra invero controproducente (si
ricordino le parole di Adorno: «Le cosiddette improvvisazioni si riducono a circonlocuzioni attorno a formule fondamentali e sotto il loro velo riappare ad ogni momento lo schema; anche le improvvisazioni sono in prevalenza regolamentate e le novità che possano mai apparire nel jazz sono limitate quanto le variazioni nel taglio degli abiti»). Ma, a parte il paragone che Umberto Eco stabilisce col jazz , vediamo come egli prospetti la figura del nuovissimo tipo di artista: «Ci accorgiamo che il regista televisivo è nella sconcertante situazione di dover scegliere e comporre i prima e i dopo logici di una esperienza (e quindi di una forma) nel momento in cui sono prima e dopo cronologici… Il suo atteggiamento artistico appare degno di nota perché si pone come una particolare forma di sensibilità agli eventi, che gli permette di crescere e di divenire con essi. Una forma di fiuto». Ora queste sono le caratteristiche proprie della trovata, piuttosto che dell’invenzione, della servitù di fronte alla realtà grezza, non già della sua elaborazione umana.
Sul secondo numero del Verri Luciano Gramigna affronta lo stesso tema, pigliando a partito le affermazioni di Mario Apollonio che, come Umberto Eco, ravvisa nella registrazione di cronaca il carattere proprio dell’arte televisiva, e addirittura la prospetta come momento in cui «l’io prende consapevolezza di sé nello spazio-tempo… anticipo di resurrezione». Il Gramigna riduce tali prospettive addirittura escatologiche alla realtà: lo spettatore della televisione non si inserisce deliberatamente in un coro, come lo spettatore teatrale, che assiste e partecipa alla creazione dello spazio e del tempo dello spettacolo: «Il tele-spettatore è, per così dire, colto sempre di sorpresa, di contropiede; non sceglie di entrare in un’altra realtà ordinata; è questa realtà spesso confusa, gregaria, che penetra attraverso il riquadro dello schermo, nella sua vita singola, con una violenza perfino fisica» creando un «barbaro incanto d’ombre cinesi», cui egli soggiace «per quanto tediato e riluttante (anzi forse proprio per questo)».
Sono i primi tentativi italiani di prendere coscienza riflessa di un male sociale di virulenza assai maggiore degli altri mezzi di corruzione del gusto e della sensibilità. In genere i mezzi dell’industria culturale sono ricercati per sfuggire alla noia, ma proprio per aver soggiaciuto ad essi la noia cresce e chiede altro alimento: la noia si placa nutrendola e nutrendola si accresce. Le ignare vittime volontarie potrebbero vincere il loro tedio soltanto rinunciando ai mezzi con cui lo combattono (nella Londra ottocentesca infestata dai briganti si riuscì a riportare l’ordine quando la polizia venne disarmata, allora disarmarono anche i briganti e furono facilmente debellati; l’ansia di sconfiggere la noia aggredisce invece con armi sempre più massicce la sua interna nemica, che diventa vieppiù anch’essa armata: questa corsa psicologica agli armamenti distrugge lentamente la vita interiore).
Quanto più i mezzi di massa offrono spettacoli lontani dall’umano, dal dialogo, tanto più essi fingono l’intimità del conversare, della gioviale cordialità, come si può vedere (se l’animo basti) assistendo ai loro spettacoli, che obbediscono a un precetto segreto: «Interessare l’uomo a ciò che non ha per lui alcun interesse, né economico, né estetico, né morale»; la televisione è indotta a obbedirvi per la sua stessa natura e, alleandosi con gli sports di massa e col cinematografo commerciale, riesce a far sì che l’uomo, sopraffatto, sia bene allenato a vedere come spettacolo alienato da lui, cui egli debba passivamente assistere, anche ciò che lo colpisce nei suoi veri interessi. [15]
Anno II, n.ro 8, agosto 1957, pp. 664-665.
[Rassegna delle riviste] Inghilterra
LA PREOCCUPAZIONE di trovare un criterio di comportamento sociale continua a essere il tema evidente o segreto dell’intellettuale inglese d’oggi, e non solo dell’intellettuale. Il persistente interesse verso Jane Austen ne è un riflesso, e alle considerazioni di Trilling ospitate su Encounter (accennate nella passata rassegna) ora si aggiunge anche l’indagine di Geoffrey Gorer sul London Magazine di agosto. La situazione sociale che genera questi interessi letterari è ben delineata nell’articolo apparso sul Times Literary Supplement (28 giugno) con il titolo Loyalties: «Fra noi in Occidente, incerti di noi stessi e timorosi del futuro, il pensiero indipendente è bloccato, l’originalità è rara, e i vecchi avversari, minacciati l’uno e l’altro da quanto viene nascendo di poco familiare, serrano i ranghi e appaiono difficilmente distinguibili. Di qui le strane identità di posizione nell’Inghilterra odierna fra conservatori e socialisti, l’oppressivo conformismo dell’establishment, la preoccupazione delle autorità che cercano ansiosamente i loro ‘privilegi’ e l’aggrapparsi dell’uomo comune al conforto della posizione sociale, del protocollo, dell’etichetta. Vecchi e giovani, governanti e governati tendono ansiosamente a vedere garantita la loro sicurezza, e sicurezza significa soltanto la perpetuazione del familiare».
Ma è uno stato di fatto universale la perdita di senso, lo svuotarsi d’ogni contenuto della «lealtà» e la nascita di una nuovissima specie di «traditori»: «Non molti nel senso proprio e reale, ma un vasto numero di non-cittadini, cittadini di nulla, che non danno alcun valore positivo alla loro società e al suo Stato amministrativo, legati da nessun vincolo affettivo civile, atomi nel seno della società, che obbediscono al minimo numero di precetti da essa emanati. I nostri antenati anglosassoni, uomini di lealtà incarnata, li avrebbero chiamati Nithings».
Ancora la stessa analisi delle radici del male, che in questo articolo era limitata all’indicazione dei danni dell’educazione specialistica, viene ripresa nel numero del 26 luglio, a proposito dell’offensiva di cui è stato fatto oggetto di recente il Toynbee (con migliori ragioni di quelle indicate dall’anonimo difensore). Vi si legge: «I nemici
oggi sono mutati. Fra i nemici di una società tradizionale occidentale oggi figurano un pragmatismo nudo e senza pudore che subordina la ricerca della conoscenza a fini missionari, e una insistenza latente sul bisogno di conformarsi, che talvolta con crudezza, talvolta con metodi più subdoli, mette fuori legge l’oppositore. Non furono questi i dragoni che il San Giorgio del secolo scorso dovette affrontare: sono i particolari incubi di oggi. Tali argomenti sono all’ordine del giorno nel dibattito che incessantemente si accende da una sponda all’altra dell’Atlantico; e giustamente si prova una certa ansietà, e non da una sola delle due sponde, dinanzi a un sintomo come questo, di una situazione in cui la difesa delle libertà civili è demandata a una Corte suprema che difende un’antica tradizione storica, e deve esser condotta contro le istituzioni rappresentative che dovrebbero riflettere la pubblica opinione».
Su Encounter (agosto 1957) è apparso un articolo di Peter Gay, Three Stages on Love’s Way, che analizza l’amore quale appare in Rousseau, Laclos e Diderot. L’assalto alle repressioni cristiane condotto dai philosophes illuministi era lo sbocco di una situazione di lotta cominciata fin dal Rinascimento, ma appunto al momento dell’assalto che doveva essere finale «la morale cristiana trovò dei possenti alleati: il puritanesimo e la borghesia»; quindi essa si mantenne quasi intatta, mentre crollava la cosmologia che la reggeva. «L’etica sociale cattolica aveva sempre lasciato uno spazio libero per il vecchio Adamo: aveva tollerato le canzoni oscene, i raccontini erotici, le ingiurie a sfondo sessuale..., ma il cattolicesimo aveva sempre considerato queste evasioni dalla denigrazione della sessualità come concessioni all’umanità peccaminosa, evasioni tollerate ancorché non accettate... L’età cavalleresca aveva cantato l’amore e l’orgoglio, ma l’orgoglio era umiliato e l’amore raramente coronato dal successo…: la sensualità, come ha dimostrato Huizinga, fu trasformata in volontà di sacrificio».
La mentalità della Riforma non fu certamente liberatrice, anzi i teologi protestanti condannarono la carne con la stessa acredine con cui condannarono le immagini o i vestiti sontuosi. Diverso l’atteggiamento dei borghesi, che non avevano ragioni immediate di reprimere la gioia, ma dovevano dividere il sesso dall’amore, secondo il Gay a cagione della necessità di «risparmiare energie per l’accumulazione e l’investimento». Forse la ragione non è così diretta: meglio si avvicina a coglierla il Gay quando analizza un tipico esempio di amore borghese, quello fra Saint- Preux e Julie nella Nouvelle Héloïse, del quale egli fornisce un’analisi assai acuta. Saint-Preux «vuole violare il codice esistente veleggiando in un’aura di approvazione sociale» e Julie lo aiuta, entrambi si concedono l’amore soltanto parandosi di strazi interiori, e di fatto giungendo alla soddisfazione dei loro desideri attraverso compromessi col buon senso borghese (Julie consente a far l’amore con Saint-Preux ma non a scappare con lui a Parigi, e soprattutto indulge in lunghissime prediche). A questo punto Gay individua il motivo del loro comportamento: «Il ribelle Rousseau non ha voluto distruggere il tessuto dei rapporti di classe».
Si potrebbe aggiungere che, mentre l’amore di Don Giovanni si distingue «naturalmente» da quello di Masetto, l’amore borghese raffigurato da Rousseau è in una falsa posizione, deve raggiungere attraverso il dolore più o meno simulato la distinzione sociale, la diversità: «Il primo romanzo romantico diventa un sistema di cautele contro l’amore, la passione e la rivolta». Le confessioni romantiche sono mezzi che consentono di amare senza assumere responsabilità per la libertà delle passioni, sono riflessi di un desiderio di soddisfare le proprie passioni, e del bisogno di veder santificate le ‘basse’ soddisfazioni. Il culto della sincerità è la veste cosciente di un impulso coatto che spinge a evitare le circonlocuzioni, a disprezzare la compitezza. Nel campo delle relazioni sociali ne risulta il fanatismo, cioè il senso di superiorità unito al bisogno di costringere gli altri a conformarsi ai propri criteri di purezza. La più vera emozione della Nouvelle Héloïse è la paura: si aggiunga, la paura della promessa di libertà assoluta racchiusa nell’amore, che sta in contrasto con la repressione richiesta dalla vita borghese.
Il diverso atteggiamento di Laclos non è nemmeno esso libero, perché «l’atto sessuale diventa distruttivo, segno di ostilità»: i personaggi di Laclos debbono dare a se stessi la prova di qualcosa, la prova della propria libertà, e questo non è che un ulteriore aspetto della dialettica repressiva. Il solo vero atteggiamento illuminato resta quello del Supplément au Voyage de Bougainville di Diderot, che rifugge dalla predicazione e dal sorriso sinistro: la sua descrizione dei costumi tahitiani configura un’idea di libera grazia e responsabilità che è un rovesciamento dell’atteggiamento cristiano, il quale trovò la sua formulazione nella Città di Dio di Sant’Agostino, secondo il quale l’amore non poteva che essere accompagnato dalla vergogna e nel paradiso terrestre i primi progenitori dovettero essere perfettamente padroni dei loro organi sessuali, sottomessi alla volontà come le stesse mani.
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Anno II, n.ro 8, agosto 1957, pp. 668-669.