«Geometrizzare la vita… cosa lagrimevole, impossibile… l’imperio della ragione è quello del dispotismo per mille capi» annotava Leopardi nello Zibaldone. Ma non era, il proposito illuministico di geometrizzare la vita, che un riflesso della vita che si andava geometrizzando. La macchina non è un mero mezzo e non come mero mezzo si insedia non solo nel paesaggio ma nella mente dell’uomo, anzi la dicotomia di fine e mezzo è già un prodotto dell’assetto sociale che si subordina all’imperio della macchina e del principio dello scambio, per cui nulla è in sé e per sé, ma è in funzione di un equivalente. L’uomo interiore ridotto a funzionalità assoluta diventa una conformità allo scopo senza scopo, disponibile a qualsiasi scopo. L’uomo macchina non fu un sogno inumano isolato, bensì l’autocoscienza di un ideale che andava prendendo possesso dell’uomo che mirava non solo a coartare la natura esterna ma la propria interna, oggettivando ogni impulso o sentire, disponendo con calcolo apatico dell’animo ac si
quaestio esset de lineis aut de corporibus. L’assoluta oggettivazione della realtà si ribalta in ritorno al dispotismo
del mito, l’utilitarismo che vagheggia la felicità umana, astraendola, la converte in assoluta infelicità, in benessere senza vita o socialità senza spirito.
Lo storicismo fu la reazione al programma illuministico, ma la sua reazione si risolse in collaborazione alla dialettica autodistruttrice dell’illuminismo: in sacrificio della ragione e non in autocritica della ragione, in adorazione di un ente qualsiasi trasformato in feticcio. È a tale dialettica che Carlo Antoni ha consacrato il suo ultimo libro, Lo storicismo. Già la storiografia ottocentesca chiaramente soggiaceva alla regressione che s’è detta; di fronte all’idea della ragione esaltava l’idea della pluralità organica, con ciò frantumando l’unità: «Ma una pluralità di individualità isolate resta una pluralità di enti separati che sono fuori della storia e sono preclusi all’intelligenza storica. Un passo più in là, ed ecco che la storiografia deve cedere il passo alla biologia del razzismo».
Così lo storicismo liberale che nasce in Inghilterra, esaltando la spontaneità creativa contro la ragione intellettuale non riesce se non ad un’adorazione del feticcio della spontaneità: «Un libertino tedesco della metà del Settecento, entusiasta dell’Inghilterra, Justus Moser, così esprimeva questa antitesi delle due culture: Voltaire trova assurdo che ciò che è lecito in un villaggio sia vietato nel villaggio vicino, ma per noi è assurdo che la stessa legge valga per due villaggi diversi. Questo concetto nuovo della spontaneità della storia… porta a guardare in modo nuovo anche la natura. Nulla di più caratteristico… della moda del giardino inglese, che pretende di offrire la natura nella sua spontaneità in contrapposto al geometrico giardino francese, quale Le Nôtre ha costruito a Versailles. Ma più in là del giardino, il gusto nuovo cerca la incolta natura della landa sterminata». La spontaneità storica si riduce via via a voghe, a manìe, quando non si trasformi in miti esiziali: il medievalismo, il primitivismo, l’esotismo sono le oggettivazioni della «spontaneità» cui si appellava lo Shaftesbury. Non diversamente, nella versione francese dello storicismo liberale, si crea il mito della libera società di pari che avrebbe dato all’uomo la sua spontaneità conculcando la massa dei borghesi, oppure si esalta l’equilibrio dei disordini che sarebbe l’unico ordine e quindi l’ordine borghese contro quello feudale, innalzando a mito il privilegio del denaro contro il privilegio del sangue.
Lo storicismo nazionale è ancor più prono alla riduzione al suo contrario, con la sua esaltazione delle forme di vita schiette e semplici, che per il fatto stesso di essere poste come ideale non potevano essere naturali; esso nasce quando «gli svizzeri scoprono… la poesia della montagna, come gli inglesi la poesia della landa sterminata e selvaggia», mentre i tedeschi, che non hanno la base etica degli svizzeri a reggere un tale culto, ne forniscono una versione filistea. Lo stesso Herder, che mirava a svincolarsi dal limite nazionalistico non poteva non cadere in ultima analisi nel vagheggiamento di essenze nazionali concepite al modo di organismi vegetali. La sua reazione all’idea di un «gregge filosoficamente governato» non sfuggiva alla degradazione, al culto della vitalità delle nazioni. E in Hegel ritorna l’idea medievale della translatio imperii tra gli Stati via via depositari dello spirito. Lo storicismo romantico non esce dai limiti dello storicismo nazionale.
La radice sociale di tali idee viene alla luce chiaramente nel sogno del Droysen di un’alleanza del ceto dei professori e degli ufficiali, sul metro del corpo degli ufficiali macedoni. L’avvento dei terribles simplificateurs era apparentemente osteggiato, sostanzialmente favoreggiato dai vagheggiamenti di epoche passate, che potevano andare dal medioevo del De Maistre al rinascimento di Burkhardt, nonché all’esaltazione di forme di vita organiche, che nel novecento doveva risolversi nel mito di bande di sodali che affrontano il destino (acutamente, in tale società, l’Antoni proietta lo heideggerismo).
Contro la soluzione di Marx l’Antoni ripiglia i motivi della sua polemica: il primato dell’economico era già la molla degli studi storici di Moser, Niebuhr e Boekh; il mammonismo industriale era già stato diagnosticato dai critici reazionari. La contraddittoria convivenza nel marxismo dello storicismo e del giusnaturalismo è ancor esso un altro spunto già elaborato dall’Antoni, fedele al filone storicistico che va dallo storicismo umanistico del Vico a quello assoluto del Croce, che pone non la felicità come fine dell’azione umana, bensì l’emancipazione della personalità. E a conclusione della sua storia dello storicismo l’Antoni pone la rivendicazione dell’individuo, nel quale soltanto può attuarsi lo Spirito, contro i feticci dello Stato, della Nazione, della Società, della Storia stessa.
Ma se il salvataggio dell’idea illuministica e della reazione storicistica non si può porre oggi altrimenti che come esaltazione dell’individualità che si riconosce nella storia e vi opera (e che è in rapporto con strutture sociali liberali in senso lato, senza le quali naufraga), il problema filosofico sta pur sempre nello sceverare il vivo di Hegel, e conviene vedere come lo storicismo di T. W. Adorno ha impostato questo recupero (Aspekte der hegelschen
Philosophie). Lebensnerv dello hegelismo è la sintesi a priori, ovvero il rifiuto di concepire un’oggettività non
mediata dal soggettivo e una soggettività non mediata dall’oggettivo, non però nel senso di un’armonia necessitata (anche se Hegel cadde nel culto dell’armonia). Forma e contenuto, natura e spirito, teoria e prassi, libertà e necessità sono momenti della riflessione.
La ricettività spontanea di Husserl, osserva Adorno, è hegeliana, ma Hegel non abbisognava della teoria del residuo non soggettivo, poiché non abbisognava della identità irrazionale di oggetto e soggetto, tenendo egli fermi i due momenti come mediati l’uno dall’altro. Così viene scansato il pericolo di cadere nello scientismo, nella mera registrazione dei fatti avulsa dalla loro interpretazione (dal momento soggettivo), come pure la concezione della dialettica che domina nel Blocco orientale, come mero riflesso dell’oggetto.
La verità oggettiva non è l’essere, che si riduce al puro soggettivo che pone nominalisticamente i suoi concetti: nessuna soggettività può essere vera ma deve volerlo essere. Né si può tornare indietro rispetto a Hegel che ha distrutto l’illusione che l’individuo sia in sé capace di bene (ciò che l’individuo pensa di sé è mera razionalizzazione). Ciò non significa che esso debba essere sacrificato al sogno satanico del sistema, ovvero della sua socializzazione: il pensiero che avesse del tutto estirpato il suo momento mimetico, la sorta di illuminismo che non abbia portato a termine la sua autoriflessione, conduce all’annientamento, con l’individuo, del pensiero, alla degradazione dell’uomo a uomo-massa, ovvero ad atomo senza legame con la realtà, che perde la realtà, e quindi alla perdita della realtà stessa che vive soltanto nella sua interpretazione e nella sua critica.
Ma la rivendicazione dello hegelismo compiuta dall’Adorno non ribadisce il momento della distinzione, che pure egli aveva chiaramente riconosciuto in altri scritti (come nel Rapporto odierno fra la musica e la filosofia). La distinzione del pensiero dall’arte e dalla prassi è l’organo della verità, che nelle costellazioni dei fatti storici pone rapporti di distinzione e quindi si salva dalla feticizzazione. Distinguendo il pensiero dalla prassi si evita di cadere nel pensiero come avallo della prassi, nella giustificazione dell’esistente in base alla sua esistenza, così pure si evita di dover consolare praticamente con conclusioni «positive»: l’autonomia del pensare coincide con la sua funzione critica (secondo quel che dice l’Antoni della scienza vichiana). Distinguendo l’arte dal pensiero si evita la sua fine nel mero simbolo e distinguendola dalla prassi si evita la sua fine come merce funzionale ed utile, così salvaguardando la spontaneità individuale come poesia. Né è necessario scambiare la distinzione che consente di «pensare» l’individualità e la spontaneità per un ritorno ad una struttura astorica, poiché è un momento del pensiero che si impone dall’interno stesso del problema storico attuale, come critica di una certa condizione della società e dell’uomo dove la prassi è sempre più attività del sistema sociale in sé, che esclude l’opera critica del soggetto. CARLO ANTONI: Lo storicismo – Edizioni ERI, Torino, 1957 – Pagine 221, lire 1.000.
THEODOR WIESENGRUND ADORNO: Aspekte der hegelschen Philosophie – Edizioni Suhrkamp, Francoforte, 1957 – Pagine 60.
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Anno II, n.ro 9, settembre-ottobre 1957, pp. 806-807.
[Libri] Justine
Lawrence Durrell affronta ancora la prova del romanzo dopo i suoi vari volumi di poesia, e non a caso
Justine è un serto di poemetti, accentrati via via su una battuta, un volto, un colore, una revulsione viscerale o un
estatico trasalimento.
Tema centrale è la città di Alessandria d’Egitto, polverosa, macerata dal sole, mèta di una diaspora di mercanti o di viziosi, dove la ricchezza estrosa e l’abietta miseria conoscono un solo mediatore, il lenone. Il Durrell traccia giri attorno al centro che vorrebbe raggiungere, attorno al mistero che lo ossessiona: il genius loci in se stesso, eterna presenza che tiene tanto le fila dei suoi personaggi come determinò la sorte delle sacerdotesse gnostiche o degli eresiarchi dei primi secoli (gli si può trovare un precorritore fra i decadenti romanzieri inglesi, nel Kingsley di Hypathia, che pure ebbe a tema Alessandria, quella romana tarda, ma soltanto per analogia di motivi e di luoghi; se si vuole davvero scoprire un’affinità si dovrà uscir d’Inghilterra, e trovarla nei numeri della prosa e nell’adorazione per Kavafis che accomunano il Durrell a Marguerite Yourcenar).
Il protagonista: un letterato inglese, arenato in Egitto, che ha ammorbidito la sua fibra morale puritana e sa guardare con occhio mansueto la torbida vita alessandrina; egli vive con una ballerina greca, Melissa, amandola riamato, ma viene sedotto con durezza e freddezza da Justine, la dark lady del racconto (ma la sua darkness è compresa e riverita: il giovane letterato, s’è detto, ha imparato a guardare con occhio limpido e senza lampi di condanna). Più avanti s’intreccerà l’amore anche fra Melissa e il marito di Justine. Ciò che è nuovo è che un amore
in questi personaggi non spegne l’altro: tale il nucleo nevralgico del romanzo o, se si vuole, la sua tesi. L’amore contemporaneo per due persone suonava forse ingegnosa trovata nei nostri barocchismi (il secentista Guidobaldo Bonarelli ne difese la verosimiglianza in un suo soggetto dopo averlo fatto oggetto del suo dramma pastorale, Filli
di Sciro, ed in altra epoca di decadenza era stato questo il tema della XI lettera del tardo ellenista Aristeneto, che
faceva lanciare al suo protagonista l’esclamazione: «Volesse il cielo che, come nell’animo due passioni si ravvolgono, ambedue queste donne senza geloso rancore stare potessero insieme»), ma le prospettive psicologiche aperte dalla lucidità e debolezza moderne tolgono ogni sospetto di gioco ingegnoso all’intreccio di interiori concomitanti amori, che non sono riducibili alla lotta fra dovere e piacere, lealtà e tentazione, secondo gli schemi moralistici del passato, oppure alla borghese distinzione fra vari tipi e settori dell’amore, corrispondenti a diversi piani della vita. A epigrafe, il Durrell pone un passo dell’epistolario di Freud: «Mi sto abituando all’idea di considerare ogni rapporto amoroso come un avvenimento cui partecipano quattro persone». La stessa essenza dell’amore diventa in tale temperie problematica (ecco l’intraducibile dichiarazione di Justine: «Damn the word, I
would like to spell it backwards as you say the Elisabethans did God. Call it evol and make it a part of evolution or
revolt. Never use the word to me») anche se sovente se ne hanno percezioni assai fini (come: «simultaneo accendersi di due spiriti impegnati nell’atto autonomo del crescere»), ma la esasperata chiusura in sé incendia la fantasia o
delectatio morosa dei personaggi a segno che l’apparenza diventa il reale ed essi esauriscono l’amore
immaginandolo e, se mai giungono a consumarlo, sarà non per la solita sensualità che affligge gli amanti, ma come se il contatto fisico potesse attenuare il dolore dell’esplorazione di se stessi. Situazione davvero di squisita deliquescenza della vita e del suo nativo impulso, che fa esclamare ad un personaggio: «Baudelaire dice che il coito è la lirica della folla. Non più, ahimè! Il sesso va morendo. Ancora un secolo e giaceremo l’uno con la lingua dentro la bocca dell’altro, silenziosi e senza passione come frutti di mare».
I rapporti umani fra i personaggi di Justine sono estenuati al punto dell’evanescenza, onde tanto più diventa sconvolgente e non padroneggiabile l’irruzione della violenza. Dell’atmosfera squisita che regna pur nella torbidezza degli ambienti e delle situazioni basti un esempio. Due amici sono seduti da un barbiere ruffiano: «‛Ho qualcosa di speciale per lei’. Pombal scorse il mio occhio nello specchio e deviò rapido lo sguardo per evitare che ci contagiassimo con un sorriso».
In tale raffinato disordine i personaggi pure nutrono la nostalgia di un criterio morale, e tentano di scovarne la possibilità in un curioso ripensamento della Cabala, la Cabala «che insegna l’arte della giusta attenzione… che ha per missione, se pure ha una missione, di nobilitare ogni funzione, sì che anche il mangiare e il defecare siano elevati al rango di arti».
LAWRENCE DURRELL: Justine – Editore Faber and Faber, Londra, 1957 – Pagine 253, sh. 15.
[24]
Anno II, n.ro 10, novembre 1957, pp. 877-878.
[Rassegna delle riviste] Inghilterra
LE POLEMICHE di John Osborne sulla monarchia apparse nell’ultimo numero di Encounter sono state divulgate anche dai quotidiani, e non a caso, essendo triti luoghi comuni e denunce dell’ovvio. Su un livello non molto superiore, anche nei migliori casi, si sono tenuti gl’interventi sulla nuova legge riguardante i delitti sessuali. Piuttosto è d’interesse (sul London Magazine) la reazione di T. S. Eliot alle riduzioni del «terzo programma» della
BBC, riduzioni motivate dal desiderio di contemperare le esigenze delle varie «minoranze», secondo la definizione
brutale di Sir Alexander Cadogan.
I programmi radiofonici partono sempre più dall’idea che il pubblico sia incapace di attenzione vera e propria. La cultura è considerata «interesse» di una minoranza e null’altro, e la sopravvivenza di tale minoranza è affidata ormai soltanto alla decrescente condiscendenza delle istituzioni ufficiali. Ma, a parte tali polemiche d’occasione, si può segnalare un articolo di F. H. George nella Quarterly Review: «Brain-washing and the Control
of the Individual», in cui si descrivono gli esperimenti del laboratorio di psicologia dell’università canadese Mc Gill.
Alcuni individui vennero isolati dal mondo entro scatoloni forniti d’un letto e impermeabili ai rumori, bendati e privati d’ogni stimolo esterno. Frattanto venivano indottrinati da dischi che predicavano teorie spiritistiche. Pare che dopo due mesi essi assorbissero le teorie, si convertissero in esseri influenzabili ed emotivi, privi di controlli critici, disposti all’allucinazione e al delirio di persecuzione. F. H. George invita a riflettere sul generale effetto che può avere l’assenza di stimoli veramente efficaci e umanamente sentiti nella vita quotidiana e sulla conseguente solitudine: la folla solitaria invero sviluppa appunto i caratteri delle cavie umane del laboratorio della Mc Gill
University, la stessa tetra assenza di critica, la stessa disponibilità all’emozione isterica incontrollabile, la stessa
Sul New Statesman del 31 agosto H. R. Trevor-Roper recensisce il libro, variamente discusso, di Norman Cohn sui movimenti millenaristici, The Pursuit of the Millennium, che è la storia delle fiammate rivoluzionarie che vanno dai Renani del secolo XI a Gioacchino da Fiore, dai Pastoureaux fiamminghi del XII secolo, ai Taboriti boemi del XV, agli Anabattisti del XVI. Il millenarismo è un fenomeno urbano e industriale e nasce in seguito a una crisi economica; esso reagisce alle forze economiche oggettive rovesciando i criteri di decenza oltre che le forme di servitù operaia. Non si può però seguire Trevor-Roper quand’egli collega tali movimenti al nazismo, soltanto per le somiglianze nell’origine economica e per certi tratti comuni dell’ideologia (il terzo impero profetato da Gioacchino, l’impero millenario fondato sul sangue vaticinato dai Renani del XVI secolo, la conquista militare del mondo vagheggiata dai Taboriti o dai millenaristi inglesi della «quinta monarchia»). Invero le forze tradizionali dell’Europa anche allora tentarono di assorbire il fenomeno prima di rendersi conto della sua radicale inassimilabilità, ma la differenza sostanziale sta nell’essere il nazismo un apparato che si valeva a freddo dell’ideologia di tipo millenario e non un movimento spontaneo.
Un articolo di Lionel Trilling, nell’ultimo numero di Encounter, esamina il libro di Sir Kenneth Clark, The
Nude Reconsidered. Trilling ne trae spunto per dichiarare la sua adesione alla posizione di Ortega y Gasset riguardo
all’arte «disumanizzata» e difende l’umanità dell’arte tradizionale, in particolare la forma d’arte del nudo, che soltanto una tradizione di pudibonderia nascosta potè fingere staccata e indifferente all’eccitazione, sia pure mediata, che ne forma il fascino. Il desiderio amoroso è non soppresso dalla rappresentazione del nudo, bensì mediato dalla geometria delle forme. Trilling sottolinea il significato erotico dei nudi di Rubens, che «mai calcolano o covano un desiderio non attuato».
Il Times Literary Supplement del 30 agosto è dedicato in gran parte all’engagement nelle varie letterature. Esso ha una strana aria di macchina invecchiata, da museo surrealista, tanto riporta all’atmosfera di discussioni postbelliche (faut-il s’engager?). Si nota con interesse la parte dedicata alla Russia, dove è riportata1 una
dichiarazione assai confortante del critico sovietico A. Kron: «Anche il culto del popolo ha il suo aspetto negativo, perché degrada l’individuo», confortante nella misura in cui può esserlo la constatazione dell’ovvio.
Si vorrebbe contrapporre ai metodi critici del numero del Times un’ottima rassegna di narrativa francese di V. S. Pritchett, apparsa sul numero del 7 settembre del New Statesman: «La vita internazionale – piuttosto che cosmopolita – è oggi la prevalente evasione dei francesi, e la tradizionale disciplina francese ne risente, come era dato di scorgere nei capitoli americani dei Mandarins». La passione per le idee è il movente maggiore dello scrittore francese, e guai a colui che si avventuri in un mondo che sfida il suo rigore. Così male incoglie Gary, nelle Racines
du Ciel, che tuttavia è una favola gentile sull’uomo deciso a salvare l’elefante che viene sterminato inesorabilmente,
con grave danno all’umanità che con esso perde una fonte di ilarità, meraviglia e tenerezza. Di Robbe-Grillet, Pritchett dà una ammirevole sintetica formula: «La gelosia è la passione che magnetizza e fissa le immagini per sempre come un’istantanea ferma nel corso d’una pellicola». Pritchett possiede infatti l’arte di concentrare in aforismo l’impressione di un’opera. Ancora viene da lui segnalato il romanzo d’ambiente meridionale italiano di Vailland, La loi, e il Portrait d’inconnu di Nathalie Sarraute, un romanzo sull’opacità della vita sotto la coltre dei luoghi comuni, che hanno usurpato il posto un tempo tenuto dai proverbi.
[25]
Anno II, n.ro 10, novembre 1957, pp. 878-880.
[Rassegna delle riviste] Stati Uniti
NEL NUMERO ESTIVO della Partisan Review Herbert Gold traccia le linee di una teoria del personaggio nel