Qual è la condizione umana nell’Italia di oggi? Meglio che a inchieste sociologiche o a notazioni di costume, raccomanderei a chi si ponesse tale problema tre romanzi recenti: Gymkana – cross di Luigi Davì, Un matrimonio
del dopoguerra di Carlo Cassola, Le piccole vacanze di Alberto Arbasino (usciti da Einaudi nel corso di
quest’anno). Sono romanzi schiettamente naturalistici, nei quali l’intervento dell’autore è limitato al minimo: si potrebbe parlare di una rozzezza stilistica piemontese in Davì, di una tersa atonia toscana in Cassola, di una disinvoltura spiccia e precisa di Arbasino; ma sono note, più che personali, proprie del ceto rappresentato dai tre autori: il proletariato torinese, la piccola borghesia e il ceto operaio toscano o l’alta borghesia milanese, rispettivamente. Sono romanzi di una classe sociale nel senso più pieno, poiché la classe nei suoi limiti condiziona non solo i personaggi ma anche il narratore.
Comunque ai tre romanzi è infatti l’assoluta eliminazione del Pathos der Distanz: non esistono più distanze tra gli uomini, tutti sono livellati, il narratore non pretende più di differenziarsi dai personaggi; e anche nell’Arbasino, pur tutto lievitante d’ironia, l’ironia non è mai disprezzo, ma oggettiva registrazione di un tono doverosamente ironico che è proprio dell’alta borghesia. Col Pathos der Distanz sono stati liquidati il tatto, la curiosità intellettuale, la fiducia nella critica della realtà. Tutt’e tre i romanzieri possono affermare: «I am a
camera». Citati ha parlato, a proposito di Cassola, di affinità con Mondrian: Cassola sarebbe appunto un piccolo
Mondrian che opera le sue riduzioni fra Cecina e Grosseto. Riduzioni della vita, che non sono però ascesi, bensì adattamenti dell’autore alla realtà com’è. La disumanizzazione dell’arte ci pare fatto necessario e funebre, e non osiamo accostarci all’arte disumanizzata serenamente, usando le categorie del giudizio estetico. Ciò confessato, possiamo volgerci alla considerazione dei tre romanzi sotto la sola specie di documento; operazione, se si vuole, barbara, come studiare dei quadri per ricavarne la foggia degli abiti di un’epoca.
Massima comune ai tre romanzieri è: «Tutto ciò che esiste ha (o non ha) il diritto di esistere». Distinguere fra forme di vita è per loro impossibile: manca lo sforzo di denunciare lo squallore, manca la coltivazione della personalità; e dunque l’idea di élite è sostituita dalla nozione del ceto, anzi del censo. Non esiste una vera diversità umana tra gli operai di Davì, il popolo grasso di Arbasino o il popolo minuto di Cassola. Tutt’al più i loro mezzi di locomozione e i loro tic linguistici sono differenti. Forse una maggior scioltezza mondana dei personaggi di Arbasino sta a denotare una diversa umanità? Non si direbbe, poiché comune a tutti è un carattere fondamentale: la timidezza di fronte ai sentimenti che si risolve in una eliminazione dei sentimenti. Mai entra nella vita di costoro l’amore come crescita simultanea, come rinnovamento dell’attenzione e della sensibilità, come conoscenza ed esaltazione, come sublime ipocrisia. Esso è sostituito da una caccia squallida all’astrazione dell’amore: la «ragazza» anonima degli operai di Davì, la «ragazza» o il «ragazzo» dei personaggi di Arbasino, o «la brava ragazza» dei personaggi di Cassola. Goffo è il corteggiamento degli operai e dei piccoli borghesi, tetramente abile come i patteggiamenti contrattuali fra business executives quello dei grossi borghesi di Arbasino. Segue la conquista, ma come l’inizio era caccia ad un’astrazione, la conclusione è adattamento a una solitudine in promiscuità. I luoghi comuni bene stivati nella mente, la morale macabra della riuscita con la ragazza: ecco quel che è l’ideale equipaggiamento etico dei personaggi-automi di Davì, quel che intendono per «aver stile». Basti un dialogo, appunto del Davì, che poi è un momento di abbandono dei personaggi (e non ci vorrà molto a vedere come di abbandono non si tratti affatto, ma di una laboriosa intesa sul non intendersi, una chiusura che, se riesce bene, sarà un restare del tutto atoni, indifferenti, coprendo il silenzio, che di fatto regna, con discorsi che abbiano l’anonimità di una prosa di rotocalco, o di dialogo cinematografico o di canzonetta):
«A Geppe fumando gli veniva di parlare; gli tornava spontaneo: – Sulle spiagge chic è alla moda il bagno di notte: forse è una stupidaggine, ma intanto sarebbe bello provare. Sai, per una volta, vedere come sembra.
– Il mare non è freddo come il fiume, e poi quando escono dall’acqua hanno asciugamani, accappatoi, pellicce. – Anche gli uomini?
– Anche gli uomini cosa? Le pellicce? – disse lei divertita. …..
– Sarebbe romantico noi due soli nell’isola, come nei film.
– Spesso teniamo di più a parere dei personaggi che a essere noi stessi».
Si sente uno strano fastidio, come per un’intrusione indebita, per aver sogguardato un amore tra deformi; ma l’autore pare non sospetti che si possa essere diversi. Registra con l’impassibilità di una macchina da presa l’orrore, che non è più grottesco, comico, disperante, ma soltanto ovvio.
Quanto poi a Cassola, pochi come lui sanno registrare questo agghiacciante orrore quotidiano senza un moto di disgusto o di sarcasmo. Si veda come nel suo stile senza colore, senza ondulazioni formali, venga a nudo l’adattamento – a qualsiasi prezzo – alla realtà, la rinuncia a giudicarla e distanziarla. Il protagonista va a letto con la moglie:
«A volte era ripugnante. Particolarmente dopo aver dormito emanava da lei un odore acuto, assai sgradevole; e infatti Pepo la mattina, se indugiava a letto, si voltava sempre dall’altra parte. Si era ormai d’inverno, e faceva piacere di restare al calduccio».
L’adattamento a qualsiasi patto è tutto denunciato da quel «calduccio», da quel vezzeggiare bonariamente la condizione inumana, abietta. In codesti scrittori, la condizione umiliata dell’uomo è ridicolizzata oggettivamente, ma non soggettivamente. All’angoscia del vivere quotidiano il soggetto non reagisce più: registra opacamente. Le «ragazze semplici» sono il sogno dei personaggi di Davì e Cassola, e che cosa esse siano non è dato di capire: probabilmente le meno personali, le più sanamente atone e banali che sia dato di concepire. Le evasioni nella fantasticheria sono modellate sul mondo immaginario dell’industria culturale, sono un chinare il capo agli stereotipi più squallidi. Non è l’antico Giobbe al centro di codesti romanzi, ma un Giobbe che dà ragione agli amici ipocriti. Non a caso con questa scena mostruosa senza vibrazioni di disgusto, tutta oggettiva, finisce il romanzo di Cassola:
«Senza più parlare si avviarono attraverso il piazzale. Facevano attenzione a non mettere il piede in qualche pozzanghera. Qua e là c’era ancora un po’ di neve, pesticciata e sporca. Pepo alzò gli occhi. Un sole pallido illuminava il muro di cinta, il cancello, la torretta con la meridiana. Per la prima volta, guardava la fabbrica con un senso di contentezza».
Il prigioniero non sa più dove fuggire, decide che la cella è tutto ciò che vale la pena di conoscere al mondo. Con confusi gesti di ciechi i protagonisti accettano la sorte, non piegandosi tragicamente ma riducendo tutto alla banalità. Al più bestiale balbettìo, alla più spenta vita, alla più vile resa è riconosciuta una dignità. Ma dove tutto è «umano», nulla lo è più.
Nell’Arbasino (fuor di dubbio il più importante degli autori svelati nell’annata), s’è detto, altro mondo; in apparenza, non in sostanza. Evasioni esistono (gli stupefacenti o le avventure sessuali più o meno singolari), ma senza alcuna drammaticità, senza alcuna disperazione o gioia. L’ironia diffusa, come un profumo discreto, l’abilissimo raccontare sono come prodotti sintetici: oggettivi.
La borghesia italiana aveva un tempo dei culti, squallidissimi e posticci, orrende truccature, al tempo della voga di D’Annunzio. I figli di tali padri mostruosi sono senza truccatura, ma il loro volto è spento, affaticato dalle maschere portate dai padri. Nemmeno sono percorsi dai tic, dalle smorfie dell’angoscia disperata, come i personaggi del romanzo che segnò il distacco della narrativa italiana dalla borghesia italiana, Gli indifferenti. Ormai l’orrore è ovvio, non angoscia, ma paralizza ogni moto di umano entusiasmo o ribrezzo. Un tempo si facevano esercizi spirituali per attingere l’assoluta indifferenza, l’apatia, la morte vivente. Ora vi si è immersi per nascita. Si dovranno escogitare altri esercizi, per attingere la vita vivente? I padri responsabili, i dannunzianeggianti, ne escogitarono di archeologici, e non riuscirono che a imbellettare il cadavere della vita.
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Anno II, n.ro 11, dicembre 1957, pp. 986-987.