Con l’avanzare dell’industria l’uomo si trova nella posizione oggettiva di chi sceglie la propria fede: non si può più ammettere la possibilità di una vita tradizionale spontanea e cieca e sorge, in chi si ritiene credente per tradizione, il fenomeno della falsa coscienza religiosa. Il primo quaderno della rivista Sociologia religiosa (a cura di S. S. Acquaviva, Padova, 1957) offre una conferma statistica della situazione che in Francia si compendia così: «Le zone di minore pratica coincidono con i territori che gravitano verso centri industriali, o con quelli dove la popolazione è maggiormente soggetta a spostamenti continui per ragioni di lavoro; negativa è anche la situazione religiosa delle zone che sono o sono state vicine a grandi arterie di traffico».
L’Acquaviva esamina la situazione nell’Alessandrino (dove l’affluenza al precetto pasquale corrisponde al quarantotto per cento degli obbligati) e propone come fattori del distacco dalla vita religiosa: l’incremento demografico, la presenza di presìdi militari, l’emigrazione temporanea, l’immigrazione di veneti, la diffusione del socialismo. Ogni rottura dell’equilibrio delle comunità naturali fa affievolire lo spirito di gregge. Parimenti Giuseppe Brunetta S. J., esaminando il decrescere del rapporto tra ecclesiastici e popolazione nelle varie parti d’Italia a mano a mano che si passa dal Nord al Sud, conclude: «Il Nord gode complessivamente di un maggiore benessere sia rispetto al Centro che al Sud; questa situazione dovrebbe farci riflettere».
Ma è soprattutto l’articolo di Silvano Burgalassi, «La vocazione in rapporto all’ambiente socio-religioso», a offrire motivo di ripensamenti. Già sconcerta la costante per cui «mentre le vocazioni in alcuni paesi o zone sortiscono quasi tutte effetto positivo, in altri paesi, per decenni interi, quasi nessuna vocazione giunge in porto… Ambienti di tiepida religiosità o di religiosità tradizionale e ambienti di forte anticristianizzazione sono il terreno più favorevole al fallimento delle vocazioni». Con candore lo studioso stupisce, non dell’ultimo caso, bensì di quello degli ambienti tradizionalisti, e aggiunge: «Chi avrebbe potuto pensare che l’ambiente più favorevole è dato proprio da quei paesi dove vi è una forte lotta tra una massa di militanti nella religione e una massa talvolta più numerosa di militanti contro di essa?»
Gli ambienti tradizionalisti sono isole innaturali, non ancora lambite dalla secolarizzazione, ovvero esentate dalla situazione nella quale l’uomo è proiettato nella scelta, e che l’Acquaviva sa riconoscere come «scetticismo ideologico che si diffonde come fuoco distruggitore con lo sviluppo dell’industria». Chi crede di avere una vocazione nel tepore di un’isola tradizionalista dovrà abituarsi a una freddezza calcolatrice che è intimamente smascheratrice e corrodente: la stessa «sociologia religiosa» è deleteria per un tradizionalista; come pensare di registrare con obbiettività neutralizzante e congelante ciò che viene offerto dalla natura stessa delle cose, la propria religiosità? Come pensare di poterla trattare statisticamente e con calcoli di costanti e mettendola in rapporto a
fattori ambientali e cause sociali, come pensare cioè a relativizzarla? Tali operazioni dovrebbero destare in lui lo
stesso imbarazzo che suscita un linguaggio freddamente scientifico in una coppia di candidi innamorati.
Non c’è da stupire se la religiosità diventa oggettivamente spettacolo, e quella folcloristica delle isole tradizionali crolla con facilità non appena tratta fuori dall’aria di serra e costretta a stare al gioco della vita dell’èra
industriale. La tiepidezza è la maschera che soggettivamente può nascondere la totale indifferenza durante la fase di transizione dalla civiltà artigiana o contadina a quella industriale. Resiste ancor meglio delle altre fedi la cattolica, osserva l’Acquaviva; ma, si aggiunga, a patto di perdere la consistenza spirituale quando si adegui al ruolo di una fra le tante istituzioni che si occupano di manovrare il tempo libero dell’uomo-massa. L’unico modo di tenersi in vita per le fedi religiose è il riconoscimento della propria mise en question: gruppi come quello di Esprit possono esprimere quei valori che tuttora la fede religiosa custodisce.
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Anno III, n.ro 2, febbraio 1958, pp. 135-139.
Cinque tesi sul «Dottor Zivago»
1 – La critica del reale diventa natura
PASTERNAK, in quanto lirico, proclama il messaggio latente di ogni lirico: «Come io sto (di casa) nel linguaggio, che non è mio strumento ma mia voce, così si stia con la natura e con il prossimo». La lirica è sempre implicito rifiuto d’una società oppressiva (ancorché la societas in interiore homine) attraverso la purezza della parola. Pasternak ha sentito il bisogno di rendere da implicito esplicito questo messaggio: il Dottor Zivago, oltre ad essere un romanzo, è quindi un commento narrativo-saggistico ad un serto di poemi.
Per ottenere questa trasformazione, questa crescita della sua lirica su se stessa, Pasternak ha dovuto doppiare la punta di Finisterre dell’arte moderna, superare l’avanguardia senza sacrificarla. Se l’avanguardia era la coscienza dell’angoscia espressa attraverso la distruzione dei mezzi espressivi, l’asserragliarsi del soggetto nella nevrosi e nell’arbitrio (questo dramma dell’avanguardia ancora non degenerata in sistema accademico fu il tema del
Doktor Faustus), con il Dottor Zivago si trapassa in un momento superiore, nel quale la coscienza dell’orrore e la
critica della società diventano abito, natura: non più elementi di distruzione della forma, bensì elementi del contenuto. La forma viene ripresa là dove era stata abbandonata, al punto dove l’avevano lasciata Cechov e Tolstoi.
Ma meglio che a tali autori si può accostare Pasternak ad Alessandro Scriabin. Nei suoi Ricordi (pubblicati sulla rivista uruguayana La licorne) Pasternak individua i caratteri dello stile di Scriabin e, insieme, del proprio: «Andrea Belyi, Chlebnikov e altri andarono alla ricerca di nuovi mezzi espressivi, mirarono al sogno d’una lingua nuova, lustrando e sondando le sillabe, le vocali, le consonanti. Mai potei capire tali ricerche. Le scoperte più soprendenti si producono quando, colmo del suo contenuto, l’artista, senza aver tempo di troppo riflettere, dice precipitosamente la sua parola nuova nella vecchia lingua, senza sapere se è nuova o vecchia. Così parlò Chopin nel vecchio linguaggio mozartiano-beethoveniano, tanto stranamente nuovo da sembrare un secondo inizio. Così fece Scriabin, quasi soltanto con i mezzi dei suoi predecessori, rinnovando la sensazione musicale fino alle radici negli studi dell’opera otto o nei preludi dell’opera undici…»
Per poter rendere natura la critica del reale Pasternak ha scelto la strada non del sottinteso, ma della semplicità.
2 – Il massimamente differenziato è espresso attraverso il massimamente semplice
IL «DOTTOR ZIVAGO» è costruito secondo le norme di attica trasparenza, della determinazione chiara e distinta ma non analitica degli oggetti e dei sentimenti: sta al semplice, equidistante dal semplicistico e dall’arrovellato, sta al limpido senza cadere nell’ovvio; rappresenta l’uomo senza mutilarlo né del gesto oggettivo né del pensiero e del sentimento interiori; raffigura la società senza parare nell’unanimismo e senza spappolarsi nel caos. E tuttavia non fornisce un’immagine «consolante», idillica del reale, quasi che questo fosse oggi quel che era in passato, non ancora corroso dalla «malattia» denunciata dall’avanguardia. Pasternak continua la festa del narrare fin dove gli è consentito, ovvero fino all’inesprimibile, all’orrore della illibertà assoluta del soggetto; in concreto: fino alla soglia dei campi di sterminio e fino al momento in cui l’uomo a furia di persecuzioni cede, si dà per morto come l’opossum braccato. Quest’ultimo è il caso del personaggio di Vasjia, il giovane bellissimo simile agli scudieri che i pittori dipingevano a fianco degli zar, il discepolo di Zivago; Pasternak lo segue fino al momento in cui «si adatta», abbandonando Zivago. Quanto alla fase dei campi staliniani, Pasternak si limita a osservare per bocca d’uno dei personaggi che la guerra era una benedizione al confronto, accolta con gioia suicida, e a far intravedere la soglia d’un campo. Il dolore, la crudeltà, la sofferenza possono essere placati dal canto di Orfeo, l’assenza di vita non si può esorcizzare. Fin dove può, la metafora gareggia con il factum brutum atque nefastum. Ma fin dove può la metafora gareggiare con il reale? Karl Kraus rispose: fin dove la realtà non diventi metafora.
Quale rivelazione, per colui che si è accostato al linguaggio, sarebbe più sorprendente, quale visione più fulminante di quella di un involucro verbale che si riempia di nuovo del sangue che era, un tempo, il suo contenuto? Mirabile visione, se questo sangue fosse soltanto metaforico: il sangue del pensiero che attesta la genuinità della parola. Visione gorgonica poiché è invece l’erompere del sangue fisico, che comincia a sgorgare dalla crosta del linguaggio. Nessuna variante, per raffinata che fosse si è potuta sottrarre a questo processo; nemmeno il terribile «versar sale sulle ferite aperte». Una volta deve essere accaduto, ma si era dimenticato, fino a rinunciare a ogni rappresentazione di alcunché di effettivo, fino all’assoluta incapacità di rendersene conto. L’espressione era usata per designare il ricordo crudele di una perdita, la manomissione di un dolore psichico: questo esiste sempre, mentre l’azione da cui si attingeva rimaneva impensata. Eccola…
E Kraus narra di un vecchio costretto in un campo nazista a immergere una mano ferita dentro un sacco di sale, e soggiunge:
Rimane irrappresentabile: ma, siccome è accaduto, la locuzione non si può più utilizzare.
Ecco la stessa osservazione tornare nel Dottor Zivago:
Quello che era stato concepito in modo nobile e alto è diventato rozza materia. Così la Grecia diventò Roma, così l’illuminismo russo divenne la rivoluzione russa. Se pensi all’espressione di Blok: «Noi i figli degli anni terribili della Russia» vedrai subito la differenza delle epoche. Quando Blok diceva questo, bisognava intenderlo in senso metaforico, figurato. I figli allora non erano i figli, ma le creazioni, i prodotti, l’intelligencija, e i terrori non erano terribili, ma provvidenziali, apocalittici; tutt’altra cosa. Ma adesso tutto quel che era metaforico è diventato letterale: i figli sono veramente i figli, e i terrori sono terribili, ecco la differenza.
Pasternak esprime frammezzo alla conversazione di due combattenti dell’ultima guerra una diagnosi altamente complessa della realtà storica, che interpreta ciò che sta accadendo come un trasformarsi della realtà stessa in metafora o ideologia. Ma questa coscienza critica non corrode la forma che anzi classicamente plasma la scena placida e dolorosa, non coartata da un commento astratto esterno né deformata da registrazioni del pensiero o bloccata nella descrizione del comportamento. Quale il segreto di questa genuinità della parola tesa nello sforzo di esprimere una complessità che sembra esigere la deflagrazione della forma?
3 – La rappresentazione dell’amore coincide con la critica della realtà
IL CUORE del Dottor Zivago è la storia d’amore di Zivago e Lara Fedorovna. Commovente, di classica freschezza: rivivono gli amori del passato, illustri, nel loro, ed il loro fa da specchio a ogni nuovo amore. Ma oggi un siffatto amore non potrebbe esaurirsi nella natura meramente privata dell’uomo, nell’ingenuità chiusa su se stessa della vita individuale. La semplicità antica di Pasternak è riottenuta solo perché egli ha trasformato in elemento naturale del contenuto la consapevolezza del rapporto fra l’individuo e la società:
Ancor più dell’affinità delle loro anime li univa l’abisso che li divideva dal resto del mondo. Ad entrambi era nello stesso modo ostile tutto quanto è fatalmente tipico dell’uomo d’oggi, la sua voluta esaltazione, le sue isteriche velleità, e quell’inerzia della fantasia che innumerevoli lavoratori dell’arte e della scienza si preoccupano di alimentare perché la genialità rimanga un’eccezione. Il loro era un grande amore. Tutti amano senza accorgersi della straordinarietà del loro sentimento. Per loro invece, e questa era la loro straordinarietà, gli istanti in cui, come una vampata d’eterno nella loro condannata esistenza umana, sopravveniva il fremito della passione, costituivano momenti di rivelazione e di un nuovo approfondimento di se stessi e della vita.
Il loro amore è critica incarnata del male della società, e proprio grazie a questo acido che deterge da ogni impurità sentimentale acquistano verità i vari successivi tocchi e velature con cui esso viene dipinto da Pasternak. Tocchi da impressionista: non fisicamente insistiti (di Lara amante rimane l’immagine d’un lungo corpo in vestaglia che stende le braccia, leukòlenos); s’è detto che la forma è stata ripresa là dove aveva cominciato a essere sgretolata dall’avanguardia.
Pasternak precisa, insieme alle morbide tinte del quadro, la situazione morale. Zivago e Lara si amano in pienezza perché lo esige la natura che li circonda, perché lo esigono i volti compiaciuti che essi suscitano all’intorno; ma questo avviene perché sono «indifferenti al dominio dell’uomo sulla natura» e alla «falsa socialità».
Pasternak attira nel cerchio della «felicità» di Lara e Zivago gli elementi sinistri dell’esistenza: la loro primavera è anche inferno e decomposizione (così egli informa nel commento alla lirica Smarrimento). Eppure non si potrebbe asserire che aleggi un’aura morbosa attorno all’episodio, ovvero una misura di compiacimento per la carne diabolica e mortale. La stessa seduzione dalla quale in gioventù Lara afferma di essere stata macchiata per sempre non è oscena, non ci offende o sgomenta. Non esistono tabù che possano essere violati: Komorovskij non è una figura diabolica, e se Lara venne sedotta non fu oltraggiata da una violazione dell’onestà, bensì da una diminuzione della sua libertà. Perché quest’atmosfera di innocenza, di indifferenza dinanzi ai tabù del costume, che esclude tanto l’orrore come il gusto della violazione? La realtà ha superato il mondo dove il bene temeva la sua immagine riflessa nel male e questo la propria riflessa nel bene; ormai non è più tempo di indugiare sul momento
mortifero, negativo, dell’amore, sul tristanismo, perché la realtà nega senso tanto alla salute come al morbo: i due poli siano dunque entrambi benedetti in un mondo dove la vita stessa è per essere estirpata, con il suo dolore e la sua gioia, la sua sanità e la sua malattia. Prossimo all’estinzione, l’uomo impara infine ad applicare la ricetta di Paracelso: la salute deve inserire nel suo circolo la malattia.
4 – Il cristianesimo come orfismo
PASTERNAK si richiama costantemente al cristianesimo. Egli giustifica codesto «ritorno» attraverso l’interpretazione di Cristo come liberatore dell’individuo dal popolo, profeta disarmato o eroe orfico che, come tale, è la vera incarnazione dell’umano e si contrappone all’immagine dell’uomo tiranno di sé e degli altri, domatore da circo; e infine di Cristo come eroe festivo che invita a riconoscere come la vera vita sia festiva e non feriale.
Non è il «ritorno» di uno storicista, e neanche una reviviscenza alla Eliot o alla Tate (questa è essenzialmente una deliberazione, una volontà di credere): Pasternak non si atteggia come se fosse cristiano onde opporre un principio d’ordine alla terra desolata: la sua fede è insieme più complessa e più semplice. Ecco come se ne può ricostruire il processo formativo.
Zivago sa che «il male peggiore, la radice del male futuro fu la perdita della fiducia nel valore della propria opinione…, si credette che bisognasse cantare in coro»; sa pure che tale male è indotto da un’impazienza verso le opinioni e da un disprezzo feroce verso i loro portatori, i profeti disarmati, onde si esige che le opinioni divengano subito prescrizioni, che rispondano alla domanda Che fare? O addirittura che abbiano a disposizione eserciti che le servano. Le certezze ultime di Zivago, se pure sono mai esprimibili, non sono pragmatiche. Egli trova un momento di felicità nel lavorare la terra, ma aggiunge: «Non predico la semplicità e il ritorno alla terra che furono di Tolstoi, non ho intenzione di apportare una correzione al socialismo per quel che riguarda la questione agraria. Attesto semplicemente un fatto e non erigo a sistema il mio destino». E all’epoca che gl’impone: «Se dici a devi dire b» risponde: «Io dico a e non dico b». Zivago è l’uomo che ha compreso come per non essere sommersi nella coralità ci si debba svincolare dall’aut aut, rifiutandosi di diventare i servitori della prassi e così mantenendo intatta la nostra umanità festiva, attribuendoci il diritto di aborrire dai macelli senza predicare il vegetarismo, dall’industria senza esaltare l’arcolaio, dal potere senza invocare il caos.
Ecco che cosa gli consente di schivare il dominio della «non verità che venne sulla terra russa», la «malattia del secolo» che ha ghermito il marito di Lara, il fiero comandante rosso, figura etica ammirevole, secondo l’etica come coazione della propria natura piegata a servire un’idea o addirittura, al limite, semplicemente l’immagine della propria efficienza dura e aspra. Proprio perciò il marito di Lara cade nella dialettica tremenda per cui «ognuno con se stesso è diverso che nelle manifestazioni esteriori: ciascuno ha la coscienza macchiata e può a ragione sentirsi colpevole di tutto, sentirsi un ignorato malfattore, un bugiardo non smascherato» e quindi è potenzialmente vittima docile di un processo staliniano dove si accuserebbe d’ogni torto.
Quale figura mitica può simboleggiare questo rifiuto della ragione della forza che anima Zivago e lo distanzia dal marito di Lara? Il Cristo delle sètte russe o quello evocato dalla visionaria Sima, il Cristo che nasce dal rituale orientale, e già si era reincarnato in una figura del romanzo russo, nel principe Myiskin.
Myiskin affrontava disarmato il male e lo scioglieva in quello che i manuali devozionali ortodossi chiamano «il fiotto rinfrescante delle lacrime», nella confessione, provocando il malfattore con osservazioni che mettevano a nudo la tristezza desolata, lo sforzo immane necessari a compiere il male. Zivago vive in tempi nei quali è ben diverso il Nemico, quando esso non è più il male della vita, ma la non-vita; quindi guarda alla vita nella sua complessità, dove male e bene si intrecciano, come a ciò che preme custodire nella sua interezza. In un mondo dove l’apatia e l’inerzia per cui «tutti si foggiano su qualcuno… o semplicemente si imitano a vicenda», spengono la vivezza del sentire o la seppelliscono sotto la soglia della coscienza, la vita, viluppo di serpi e tubare di colombi, diventa benedetta in sé. Perciò in Zivago rivive, ma oltrepassato, diventato naturalezza, Myiskin.
Zivago e Lara sono invero scandalosi rispetto alla società in cui si trovano a vivere, appunto perché è loro propria «una certa estasi dell’anima fuor della realtà immediata» come scriveva Chiaromonte. Come si spiega codesto loro stato di estati? Dall’analisi delle poesie in fondo al volume, una spiegazione è fornita: essi indossano le maschere rituali di Cristo e di Maria Maddalena nell’interpretare il dramma sacro che consente di stare nel tempo mitico e verticale del loro amore fuor del tempo reale.
Zivago si sente Cristo scrivendo della notte di Getsemani:
Lo spazio della notte ora pareva il paese dell’annientamento e dell’inesistenza. La distesa dell’universo disabitata,
e soltanto l’orto un luogo capace di vita.
E interpreterà come Maddalena Lara, corrotta da Komorovskji; sarà lei a gridargli, nel poema:
Oh, dove mai sarei adesso, Maestro mio e mio Salvatore,
se durante le notti accanto al tavolo non mi aspettasse l’eternità come un nuovo cliente, adescato da me nella rete del mestiere. Ma spiega che cosa vuol dire peccato e morte e inferno, e fiamma e zolfo quando sotto gli occhi di tutti, con te, come un pollone ad un tronco,
mi sono congiunta nella mia angoscia senza fine.
Ciò che appare nel corpo del romanzo come realtà visibile mediata dalla società ostile è, al livello della poesia, interpretato nella sua vita mitica sotterranea, semicosciente: i fiotti di felicità tragica che investono Zivago e Lara provengono appunto dal fatto che essi rivivono dei miti, recitano parti antichissime, tradizionali (nel senso che Freud diede al termine di tradizione: ciò che è stato perfettamente dimenticato e ritorna irriconoscibile). Il mito cristiano che essi interpretano non è quello consueto, ecclesiastico (così come Pasternak non è cristiano tolstoiano, ovvero non è tale perché debba pure alla fin fine riallacciarsi a ciò che è vivo nel popolo), ma un mito riatteggiato,