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Nei Canterbury Tales Chaucer dice: «Tragedia sono i malanni di quanti dopo aver appartenuto agli alti gradi della gerarchia sociale sono caduti in basso, a segno che non v’è rimedio alcuno a trarli dalle loro avversità». In tale accezione sono tragedie i quindici racconti scritti da Anna Banti fra il ’39 e il ’57: storie di procurate abiezioni come il perfetto Arabella e affini (ma si vorrebbe che non vi figurassero improbabili locuzioni inglesi come two little poors), di degradazioni sottili come la devozione trita e avvilente in La monaca di Sciangai o paradossali in quanto l’itinerario tragico parta da un livello già opaco se non addirittura infimo.

Per la preoccupazione di cogliere l’atmosfera piuttosto che di delineare plasticamente gli oggetti, di elevare a riflessione o massima morale le inflessioni dei sentimenti, la maniera narrativa della Banti può ricordare certo Gide, segnatamente di Isabelle; ma Gide badava a raggiungere uno stile non tant sagace que prudent e faceva scoprire ai personaggi una vocazione di immoralistici trasalimenti attraverso le complicazioni del cuore, mentre la Banti ne racconta l’attrazione sorda verso una società e un’immagine di se stessi inferiori, immiserite. Arabella può anche credere di voler diventare puttana, ma non è la sensualità che la fa vibrare sibbene un’impaurita volontà di degradazione che si traveste di spavalderia allegrissima; il protagonista di Un ragazzo nervoso s’illude di cercar l’amore, ma in realtà cerca l’avvilimento. L’attrazione del basso non è invero attrazione del colore plebeo e non coglie come una vertigine, è bensì lusinga arida del livellamento nella banalità e si impone per una sorta di contraffatta necessità morale, perché ci s’illude che tralignando dalla smorta aria dell’ambiente nativo si attingerà la vita vivente (la «istantanea felicità» cui si lega, «diabolicamente corroborante quella dapprima deprecata agevolezza di parole e luoghi comuni avvilenti»; o anche, «oltre la vivacità fanciullesca… il gusto di fatti e oggetti elementari, grezzi e magari avvilenti»).

I personaggi della Banti sono i martiri della disgustosa illusione tutta moderna di trovare la verità nella semplificazione e la vita nella elementarità. Sono esseri perfettamente individuali ma proprio perché colti con abbandono e purezza di sguardo appaiono emblematici di un trapasso storico: del borghese che, morso dalla cattiva coscienza, rinuncia non già al privilegio arbitrario ma all’idea della differenziazione umana. Essi vogliono uscire dalla prigione della loro condizione borghese o nobilesca, ma trascelgono una via d’evasione che li porta ad una cella ancor più sotterranea invece che alla malamente sospirata libertà. La condizione del borghese è dipinta con raggelato furore dalla Banti: il mondo interiore ella ce lo mostra deformato dal bisogno di segnare ogni sentimento su una partita doppia. Le locuzioni stesse che designano gl’interni affanni sono significative: un ritardo è «inadempienza di pagamento», il cuore si stringe per «un attimo già consumato», si «porta al fuoco della delusione un contributo eccessivo, riesumando vecchi rancori, bruciature lontanissime, rendendo conti mai chiesti», si «paga di persona».

L’assenza di spontaneità si rivela nella punta di deliberazione che entra in ogni atto o gesto o perfino percezione, poiché «tutte le cose e i fatti stessi non sono che tempo, un materiale sordo, incolore, docile a ogni forma». Incapaci di toccare gli oggetti, di comunicare con gli altri uomini, i personaggi della Banti vivono di smozzicature di passioni, come la monaca di Sciangai «né contenta né scontenta, ma estremamente sensibile ai ripicchi» o come le sorelle di Inganni del tempo alle quali solo a furia di giocare «qualche palpito risponde nel petto, sul viso qualche rossore». L’uomo e le cose diventano intercambiabili, un sinistro e squallido animismo dà forma umana agli oggetti (tipico della sensiblerie borghese che trova divulgazione di massa nel cartone animato): così «qualcuno viene a passare… seguito come una formica dal campanile in vedetta, preso di mira dal cavalcavia, sospettato dalle chiuse finestre», «lume scontroso della candela», «e se la persiana non torna indietro, tanto peggio, anche la sua violenza cialtrona era uno sgarbo», «lasciando al sole appena il tempo per qualche strillaccio»; mentre un bieco macchinismo reifica le emozioni, così: «Aprire il rubinetto dello scontento, della collera», «c’è in aria una pericolosa allegria di scarico», «difficile misurare i gradi alcoolici del dolore».

Ma di tutto questo mondo, borghese fino alla disperazione e al bisogno di inabissamento, è sommamente significativo l’atteggiamento verso i morti: esseri massimamente intriganti per il borghese, poiché pare di dover mantenere una temporanea parvenza di rapporto con loro ancorché non possano più partecipare alla partita del dare e dell’avere, allo scarico di crediti e di debiti (crediti e debiti parimenti angustianti, tanto la monaca di Sciangai strazia perché si ritiene in credito quanto Marta invelenisce perché si tiene in debito). Ecco la descrizione del dolore funebre del borghese, degna di un grande moralista che alla lucidità appresa dai francesi unisca una sprezzante acredine toscana: «Una tenerezza impura inumidisce gli occhi: che cuor generoso possiedo, e non me n’ero accorto. Non registrato nasce intanto e si sfoga a sospiri di rassegnazione un impalpabile senso di sollievo: la partita è chiusa, insomma, un testimonio di meno». Una delle donne che appaiono nel libro, una popolana, l’unica creatura che non

tenti di degradarsi ma si mantiene nel suo stato a dispetto delle traversie, agogna ad un «padiglione, più bello e sicuro d’una casa, dove l’elemosina si fa e si riceve, senza paura». Sarebbe la via verso la libertà, ma è appena intravista di scorcio.

Sono, i personaggi, creature murate vive in se medesime, narcisistiche, ridotte alla sfera del privato; quindi la guerra e le calamità politiche non appaiono mai a loro provocazioni, arricchimenti per angoscia o gioia partecipi. La storia è stata abolita, sostituita dall’addizione dei giorni.

Ma c’è una direzione della prosa della Banti che si mostra assai netta nell’ultimo racconto e che fa temere, non si dice per lo stile ricco che le si conosce, ma per quel che la muoveva a creare un tal stile: la sua raggelata acredine di moralista impietosa. Lo stile della Banti era una mistura di linguaggio popolare toscano, di modern style ermetizzante e di pastiches sintattici manzoniani: mistura assai difficile da equilibrare nelle sue parti: guai se per eccesso il primo elemento diventava vezzo, o se il secondo sortiva dai limiti e cessava di operare in sordina. La Banti era una tipica tightrope-walker, un’equilibrista, come buona parte degli artisti moderni. Ma si ha ragione di temere che essa renda precario o addirittura non tenibile il suo equilibrio se accetta gli ulteriori rischi del racconto che dà il titolo alla raccolta. Il manzonismo sintattico permane, e debitamente nel sottofondo rimane il fermento ermetico, ma alla scioltezza popolare toscana è sostituita sovente la falsa disinvoltura mondana-gergale, la koiné nella quale un’emicrania è «potente», dove «il lato romantico della vicenda incanta la piazza», dove le formule di devozione o di pietà diventano formule di «pietismo». Ciò che è più trito non può non essere per una Banti quanto vi ha di più oneroso: perché si vuol dunque piegare ad un tal peso? Il bisogno in lei nativo di dipingere con bella impazienza, con rapidità non può adagiarsi nella fretta del tono sbiaditamente conversevole.

ANNA BANTI: La monaca di Sciangai – Editore Mondadori, Milano, 1957 – Pagine 292, lire 1.500. [35]

Anno III, n.ro 3, marzo 1958, pp. 245-247.

[Rassegna delle riviste] Stati Uniti

NELL’ULTIMO FASCICOLO del ’57 della Psychoanalitic Quarterly, Ednita P. Bernabeu tratta della science

fiction. I lettori dei romanzi fantascientifici sono simili a quelli dei romanzi polizieschi e western in quanto mostrano

lo stesso morboso bisogno di ripetizioni e di stereotipi, ma le aberrazioni mentali che corrispondono ai tre tipi di lettura coatta variano grandemente. Il lettore di romanzi polizieschi si identifica al tempo stesso col poliziotto senza peccato e col criminale, aiutandosi a vincere la parte di sé che lo mette in ansia; esiste inoltre una punta di masochismo nell’identificazione col criminale. Il lettore dei western può, grazie alle molteplici identificazioni, rivivere il suo conflitto edipico irrisolto. La fantascienza non si riduce a stereotipi di intreccio, e sembrerebbe dunque meno infantilistica; invece, a ben vedere, è una regressione a uno stadio di sviluppo ancora anteriore a quello in cui si congelano i consumatori degli altri generi. I problemi affrontati nella fantascienza sono: il rapporto con lo spazio e il tempo, il senso della realtà e dell’identità personale, l’isolamento prolungato e la sopravvivenza individuale a cospetto di macchine o di forme di vita estranee. L’obliterazione della personalità ad opera di influssi astrali o telepatici, l’incorporazione ad opera di creature voraci sono tutti momenti tipici delle fantasie di distruzione del mondo che ossessionano lo schizofrenico; nella fantascienza sono i sentimenti di alienazione dalla realtà tipici della schizofrenia a formare il tema ossessivo. La vita sessuale è pressoché ignorata: la vera preoccupazione è la passività ineluttabile dinanzi a mostri impersonali. Del resto il materiale fornito dalle associazioni spontanee di pazienti dediti alla fantascienza conferma che essi identificano la terra, donde fuggono in astronave, con la madre e la donna in genere.

Il lettore medio del nuovo genere letterario ha trent’anni, è fornito di una educazione superiore ed è per il novanta per cento di sesso maschile. Sono numerosi gli scienziati e gli ingegneri dediti alla degradazione fantascientifica. La loro psicologia è fissata su problemi assai più primitivi e infantili della colpa e del nodo edipico: sullo spazio nel quale dover stare in equilibrio e muoversi, e nel quale possono insorgere pericoli smisurati; la libido è ancora orale-narcisistica. Il lettore di fantascienza si conforta con simboli interplanetari a regredire al diqua del complesso edipico.

Sull’American Anthropologist del dicembre ’57, Robert F. Murphy studia una tribù brasiliana, i Munducurù, per tentare, in base ad una analisi di dati concreti, di stabilire la verità o falsità del principio di Simmel per cui la guerra è l’unico rapporto possibile fra società primitive, nonché dell’altro principio per cui l’ostilità verso gli stranieri contribuisce a mantenere la coesione interna di una società. I Munducurù sono accesamente xenofobi, anzi i più bellicosi fra gli indigeni. Lo studio di Murphy giunge alla conclusione che «non esiste una riserva stabile di aggressività nelle società». I Munducurù sono costretti a incanalare nella guerra contro gli altri popoli una tensione interna che proviene dalla struttura particolare della loro società, in cui i residui del matriarcato sono ancora socialmente rilevanti e la società degli uomini sente precaria (dunque accentua) la sua posizione di predominio.

Carl Dreher nella Virginia Quarterly Review (fascicolo invernale) e H. Brand nel numero già citato di

Dissent esaminano lo stato attuale dell’economia americana. Secondo Brand, la prosperità degli ultimi dodici anni

sta per terminare. Il boom dovuta alla guerra di Corea fu artificioso perché impedì il processo di rammodernamento delle strutture. Per assicurare una prosecuzione della prosperità sarebbero necessari vasti investimenti nei paesi sottosviluppati. L’intervento governativo, che è già in costante aumento, dovrà crescere ancora per evitare una crisi (perfino la tendenza all’automazione verrebbe bloccata se non intervenisse la manipolazione governativa del mercato). Per parte sua, Carl Dreher osserva il declino del calcolo economico classico: se si esclude la prospettiva d’una guerra nucleare si vedranno coincidere i metodi di pianificazione statale e le tecniche delle società per azioni, che tendono a fare calcoli a lunghissima scadenza, tralasciando i vantaggi di congiuntura.

Dreher e Brand sono d’accordo nel rilevare la tendenza verso un assorbimento sempre maggiore di personale da parte dei servizi assolutamente superflui della pubblicità (un quarto dei dirigenti americani giungono ai posti di comando partendo dagli uffici-vendite). Ma se questo è un pesante svantaggio del sistema capitalistico, il socialismo non modificherebbe sostanzialmente il sistema gerarchico aziendale che l’attuale stadio delle forze produttive comunque comporta. Tale sistema produce o accompagna una psicologia particolare: l’ansia e il corrispettivo desiderio di sicurezza diventano i moventi principali dell’uomo. È a questa condizione psichica che dedica il suo articolo «The Search for Security» Brock Chisolm nel Bullettin of Atomic Scientists di dicembre. «La persona matura tenta di affrontare le cause dell’ansia, di identificare le ragioni dei suoi sentimenti (che spesso scaturiscono dall’infanzia), per poi prendere le opportune misure a difesa dall’ansia stessa… Gli immaturi, che sono la maggioranza, agiscono diversamente: il modo più frequente sta nel tentare d’essere tanto virtuosi che Dio, o l’autorità, o il padre, o chicchessia, penseranno loro a compensare con la felicità. Ci conformeremo e saremo buoni, e Dio ci tutelerà; Dio potrà poi essere il dittatore o il generale di forte tempra o qualche altra persona… Altri mezzi di evasione consistono nella ricerca di qualche magia ancor più efficace, come l’osservanza religiosa. In molte parti del mondo si delinea un movimento verso il ripristino del primitivo ossequio religioso. Il nazionalismo è ancor esso un altro di tali tratti psicopatici e può eliminare l’angoscia producendo sentimenti di forza e quindi di sicurezza». L’autore è sulla linea della sua rivista quando invoca un contatto più stretto, più umanistico, fra gli scienziati (atomici in particolare) e i problemi etico-politici.

Sull’Antioch Review (fascicolo invernale), vari autori tentano di riprendere il problema dei valori, in modo assai rudimentale. Si legge tuttavia con interesse l’articolo «Ethos, World-View and the Analysis of Sacred Symbols» di Clifford Geerz. Egli propone all’attenzione l’etica incarnata in simboli religiosi dei giavanesi. Coloro che non si adeguano ai valori sono considerati «non ancora giavanesi» (o umani). Il senso comune e la religiosità non sono scissi, nelle società stabili, dove tutt’e due trovano spiegazione e conforto entro certi schemi simbolici dischiusi via via nelle iniziazioni degli australiani, nei racconti filosofici dei maori, nei riti sacrificali degli aztechi, nelle ossessive cerimonie terapeutiche dei Navajos, nelle feste collettive di certi polinesiani, nelle esibizioni degli sciamani fra gli eschimesi. In una civiltà complessa come la giavanese, miscuglio d’influssi indù, islamici e pagani animistici, l’integrazione della visione del mondo e dell’etica si osserva soprattutto nel teatro di marionette. Le marionette giavanesi gettano una vasta ombra su uno schermo; dalla parte dove seggono gli uomini si scorgono le marionette stesse, da quella dove seggono le donne soltanto la loro ombra. Le vicende sono tratte dal Mahabarata, e possono anche richiamare gli historical plays elisabettiani; ma, per quanto tutt’e due obbediscano a ordini di valori feudali, il teatro giavanese rappresenta non una politica filosofica ma una psicologia metafisica. Sentimento e significato si esprimono con la stessa parola, rasa; l’esperienza religiosa soggettiva è anche la verità religiosa oggettiva: «Dio si trova, grazie a una disciplina spirituale, nelle profondità della coscienza come puro rasa. L’etica e l’estetica dei giavanesi sono quindi imperniate sugli affetti senza essere edonistiche: il carattere nobile spicca per la sua equanimità, per una certa sua ottusità affettiva, una strana calma interiore». Si piange nella gioia e nel dolore, si è prima gioiosi e poi rattristati, quindi l’uomo saggio non cerca la felicità bensì un distacco che lo liberi dall’oscillazione pendolare. L’etichetta giavanese mira quindi a impedire il disturbo reciproco di tale stato: atti bruschi o clamorosi sono proibiti. Ne viene una capacità di analisi finissime di stati emotivi marginali, di sfumature affettive. Le storie del Mahabarata sono interpretate allegoricamente come lotte dei cinque Pendavas e di Krishna contro le forze dei sensi tumultuanti, i godas. Così la circolarità della cultura giavanese si celebra nel dramma di marionette.

A qual fine la lunga digressione giavanese di Geerz1? Egli spiega, nella conclusione, che «non si deve

sostituire la filosofia morale con un’etica meramente descrittiva, ma la si deve fornire di una base empirica e di uno schema concettuale che si sono allargati rispetto a quella disponibile ad Aristotele, Spinoza o G. E. Moore».

Ancora attorno alla squallida nuova poesia inglese appare un articolo sulla Kenyon Review (fascicolo invernale): «The New University Wits» di Van O’Connor. Tutti i giovani poeti inglesi rifuggono dai temi grandiosi e dalla problematica di tono alto; Amis è il più rappresentativo perché conferisce il senso comune agli «urli libreschi». Nei suoi versi non è difficile scoprire che egli vorrebbe scansare il ricordo della storia, vivendo in un mondo dimesso e piccolo borghese. Un esempio di come il criterio della modalità riduttiva piccolo-borghese (che teme di

                                                                                                               

vedere disturbato il suo precario equilibrio ottenuto grazie all’ottusità ed a una combinazione di modestia e di albagia per la propria modestia) si insinui perfino nei giudizi più raffinati si coglie nell’articolo di Stephen Spender apparso sulla Partisan Review (fascicolo invernale) dove, trattando dei giovani scrittori inglesi, menziona l’eccezionale caso di Durrell, l’autore di Justine, e così, con tono bonario e sufficiente, ne parla: «I difetti suoi sono quelli, più che scusabili e simpatici, di Rilke in Malte Laurids Brigge, di Proust quando descrive Albertine, di Henry Miller quando parla della Grecia: un’assoluta indulgenza dello scrittore verso la propria capacità di esagerare ogni stilla dell’esperienza reale fino a farne un pezzo letterario enormemente inflazionato e lustrato».

Nello stesso numero della Partisan Review esce uno studio di Lionel Abel sulla poesia di Wallace Stevens come poesia del «tempo libero». Gli oggetti per Stevens diventano poetici quando sono sciolti dal contesto delle cose «serie»; Stevens non ci conduce dinanzi ad oggetti sacri, con lui ci troviamo «in un parco che fu un tempo un bosco sacro, in un giorno libero che un giorno fu un giorno santificato; e le nostre parole, antiche o nuove che siano, saranno rare e brillanti, e di qualunque cosa si parli, d’amore, di politica, di morte, di piacere, di dolore che sia, tutto sarà trasformato in poesia».

Mentre sullo stesso numero della Partisan Review appare il saggio su Pasternak di Chiaromonte, uscito in

Tempo presente, sulla Sewanee Review appare un saggio di Cambon su Montale nei suoi rapporti con Dante e

Breughel già pubblicato in parte su Aut-Aut. Sulla Yale Review Moravia raccoglie alcuni articoli di argomento russo comparsi sul Corriere della sera, nei quali contestava la funzione edificante della sofferenza nella storia.

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Anno III, n.ro 3, marzo 1958, pp. 254-256.