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IL PROBLEMA dei rapporti fra bianchi e negri è forse il più torturante per la coscienza americana, a tal segno che il Fiedler ha voluto farne il motivo segreto dominante di tutta la letteratura americana. Forzatura, anche se fruttuosa. Di certo a studiare i riflessi del problema si vede come nei vari atteggiamenti si specchi la forza analitica del pensiero moderno e la sua impotenza: se da un lato la raffinatezza delle indagini sociologiche ha portato a scoprire i moventi più sottili (si ricorda in uno dei numeri dello Yearbook of Psychoanalysis and Social Sciences l’analisi dei sogni di persone coinvolte in linciaggi), d’altra parte alla massima illuminazione corrisponde il massimo d’ombra e una paralisi della volontà appena si tratti di affrontare i problemi morali della desegregation.

Sono abbastanza recenti le dichiarazioni di Faulkner, il quale riconosce la necessità umana di procedere alla liberazione dei negri dai ceppi che ancora li stringono e insieme chiede di non disturbare gli uomini del Sud affidati a un precario equilibrio emotivo, di consentire loro un’evoluzione naturale verso la tolleranza senza strappi

pericolosi. James Baldwin, sulla Partisan Review dell’autunno ’56, si ribella alle prudenti dilazioni invocate da Faulkner e chiede un intervento intransigente; ancor più accesa è poi naturalmente la posizione di Phylon, la rivista dell’Università di Atlanta dedicata ai problemi razziali. Sul suo ultimo numero del ‘56, Russel Warren Howe pare addirittura insofferente delle spiegazioni troppo elaborate dell’avversione razziale, invita a una diagnosi più semplice e illuministica e affronta un tema che sovente i bianchi non menzionano (Faulkner eccettuato) quasi fosse un tabù: l’integrazione delle due razze attraverso i matrimoni misti, che sarebbe già un processo avviato negli Stati del Nord: il melting pot dissolverà definitivamente ogni traccia del conflitto. La posizione moderata, la necessità di procedere «caso per caso» è consigliata ai professori direttamente coinvolti nella questione da Iredell Jenkins in una lunga lettera alla Yale Review (inverno ’57).

Che un equilibrio instabile sia messo a dura prova, che un terreno emotivo irrazionale sia pericolosamente aperto allo sfruttamento da parte di ideologie di stampo fascista dimostra un episodio isolato ma significativo analizzato su Commentary (dicembre ’56). Un discepolo di Ezra Pound, suo frequentatore nel manicomio (di dove vorrebbero trarlo con molto self–righteous appelli i letterati nostrani, ignari del tutto della situazione giuridica o volutamente tali), cala in un villaggio della Virginia, Clinton, e su una folla ben desiderosa di accogliere parole d’ordine per cristallizzarvi i sentimenti di rancore e paura, rovescia la filosofia dei Cantos, con il loro stile rotto e gratuito che ben mima lo stato d’animo slegato e gratuito delle folle, evocando il fantasma di una cospirazione mondiale dell’usura cui sarebbe asservita la Corte suprema. Ne scaturirono tumulti e violenze. Avvertimento, questi fatti di Clinton, a quanti vorrebbero gabellare per innocente e sacra la predicazione poundiana.

Un avvenimento letterariamente di grande importanza è l’intervento di T. S. Eliot sulla Sewanee Review (autunno ‘56) a difesa di una frontiera che la critica dovrebbe imporsi nelle sue analisi della poesia. Eliot rinnega la paternità del new criticism e accusa la elaboratissima spiegazione dei testi di operare in senso contrario al vero compito della critica, che dovrebbe essere sintesi di comprensione e piacere estetico, e che rompe tale sintesi quando soffoca il testo sotto l’apparato delle spiegazioni. Non si può dire che la sua polemica si giovi molto del tentativo di screditare certa critica analitica di Prufrock osservando che essa andò al dilà delle intenzioni dell’autore. Forse l’attacco sarebbe stato meglio condotto se avesse ristretto la sua mira a certe interpretazioni di testi contenute nel recente volume curato dal Wain: non tanto l’elaboratezza delle spiegazioni è nociva quanto certi metodi che sono l’eredità più caduca dell’insegnamento di Richards, la volontà di restringere l’analisi al testo in sé, staccato dall’insieme dell’opera e del tempo.

Ma il saggio di Eliot può anche riuscire utile a mostrare l’errore di chi scambia l’esposizione della ricchezza di riferimenti possibili del testo per un avallo della validità poetica. Così è accaduto per la critica joyciana, contro la quale insorge opportunamente nel numero autunnale della Kenyon Review John Peter (Joyce and the Novel), dove osserva che la caduta nel verbiage puro in Finnegans Wake dovrebbe esprimere profondità irraggiungibili nell’ambito di una prosa organica, ma che appunto questo thema probandum non è stato dimostrato dai critici perduti ad analizzare, con sorda pazienza, le pagine. Il Peter conclude: «Non voglio affermare che Finnegans Wake fu opera facile a scriversi, o che i materiali che vi furono profusi siano privi di interesse e come tali da respingere. Affermo che la sua profondità può essere solo presunta. In definitiva, per la natura stessa del caso, il libro deve giustificarsi in grazia d’un atto di fede». Con Finnegans Wake l’arte del narrare pare abdicare sotto la minaccia del mezzo cinematografico, come la pittura figurativa abdicò sotto la minaccia della fotografia; il Peter si augura che la forza di resistenza del romanzo non sia per crollare nell’astratto joyciano.

Nel numero dell’inverno ’57 la Kenyon Review pubblica un saggio del Fergusson (The Human Image) dove si solleva il problema della situazione insidiata dell’arte, che lotta contro un mondo che dovrebbe specchiare e deve sostenersi contro i mass media of communication, in equilibrio fra i due pericoli di pietrificazione, l’asservimento al pubblico e l’asservimento allo specialista delle lettere.

Sullo stesso numero il Kaufmann riconduce l’attuale aridità creativa e filosofica tedesca a una persistente coscienza della colpa repressa: resta solo da invitarlo a considerare più attentamente quella parte della cultura tedesca che è tanto immune da una repressione di colpa come da una sterilità creativa, e che i suoi scarni accenni allo Horkheimer non bastano a lumeggiare.

Uno scherzo bizzarro sul numero citato della Sewanee Review vale la pena di ricordare: Mrs. Bennet and the

dark Gods di Douglas Bush, dove si invita all’interpretazione mitica di Jane Austen, a ravvisare in Pride and Prejudice una calata di Dioniso in Tracia. Scherzo gustoso, purché si limiti a satireggiare gli eccessi

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Anno II, n.ro 2, febbraio 1957, pp. 157-158.