Nel volume Soziologica (omaggio di saggi di amici a Max Horkheimer, uscito nella Europäische
Verlagsanstalt), Theodor W. Adorno affrontava la situazione della psicologia nei suoi rapporti con la sociologia in
questi termini: «Mentre nel blocco orientale la psicologia analitica, l’unica che indaga seriamente le condizioni soggettive dell’irrazionalità oggettiva, viene esorcizzata come opera del demonio e Freud insieme a Spengler e Nietzsche è tacciato di fascismo, e fu Lukacs a addossarsi l’incarico, da questa parte della cortina si pone l’accento sulla spiritualità e sull’uomo nella sua struttura esistenziale, sottraendocisi quindi a una teoria unitaria della società»; finchè si rimane allo stadio della separazione delle discipline si rischia di proiettare sul sostrato donde essa nasce la divisione del lavoro conoscitivo. La economia «soggettiva» è ideologica: i momenti psicologici che essa adduce a spiegare i processi di mercato sono soltanto accidenti di quest’ultimo, e questi vengono presentati come essenza mentre sono un fenomeno prodotto. D’altra parte le differenze specifiche degl’individui sono insieme emblemi della pressione sociale e cifre della libertà umana.
La psicologia è la scienza che può delucidare la sfera del consumo; resta inefficace quando ci si volge alla sfera della produzione, quindi riesce vano ogni tentativo di spiegare i processi produttivi in termini psicologici: la separazione della sociologia e della psicologia è giusta e ingiusta nel contempo, poiché la sfera del consumo viene sempre più preformata dai manipolatori del mercato attraverso la pubblicità. Così il nazismo nacque come decisione di gruppi potenti, ma sfruttò manipolandoli dei motivi psicologici reali. Anche le possibilità di scelta dell’inconscio sono talmente ridotte che gruppi interessati e potenti possono, «con i metodi della tecnica psicologica già messi alla prova e negli Stati totalitari e nei non totalitari, deviarli in canali limitati: attraverso una manipolazione schermata attentamente dallo sguardo dell’io, l’inconscio nella sua povertà e indifferenziazione si trova ad agio con la standardizzazione e con il mondo burocratizzato». La stessa pratica psicanalitica «in connessione stretta con la prassi dominante riduce l’amore e la felicità alla capacità lavorativa ed alla healthy sex life. La felicità si riduce ad infantilismo e il metodo catartico diventa antiumano». La debolezza dell’io, l’assenza di spontaneità permette agli psicotecnici totalitari di scegliere piuttosto che di esprimere certe tendenze psicologiche.
A coronamento dell’opera dell’Istituto di ricerche sociali uscì nel 1956 (sempre nella Europäische
Verlagsanstalt) una sorta di compendio, di riduzione in nuce dei metodi che avevano guidato i lavori di ricerca. Esso
definizione concettuale di sociologia, di società, di individuo, di gruppo, di massa, di cultura e civiltà, di arte, di famiglia e ideologia, riassumendo un ventennio di ricerche.
La sociologia già nella sua costruzione etimologica artefatta denuncia il suo carattere costruito, la sua pretesa di sostituirsi alla filosofia con un metodo attinto alle scienze naturali. Nell’antichità la filosofia non era affatto scissa dalla dottrina della società. Nella sociologia di Comte invece «la mera induzione si sostituisce alla coscienza della totalità dinamica della società… e anche dove del Tutto si parli, è sempre nel senso della scomponibilità in elementi»: tale visuale implica la riduzione delle ricerche sulla società alla constatazione-approvazione dello stato di fatto, e alla fin fine «col culto del positivo la ragione si abbandona all’irrazionale», avendo essa voluto estirpare il desiderio, padre del conoscere, per attenersi al dato. La raccolta di dati diventa un feticcio, fine a se stessa, senza che mai si ponga la questione della finalità della raccolta, sicché la sociologia perde alla fine la sua stessa libertà e diventa preda degli interessi politici. La sociologia può salvarsi soltanto rinunciando alla sua autonomia rispetto alla storia e assumendo la veste di critica, intesa come confronto della realtà con il suo concetto. Già il concetto di società, l’oggetto della sociologia, non è definibile, poiché definibile è soltanto ciò che non ha storia: «Soltanto nella misura in cui la vita associata degli uomini si mediatizza, si istituzionalizza e oggettiva, si è arrivati a una socializzazione; è vero anche l’inverso, che le istituzioni stesse sono meri epifenomeni del concreto lavoro degli uomini».
La riduzione assoluta della società a fenomeno naturale trova il suo modello estremo nella teoria razzista, dove si dimostrò come la critica romantica alle istituzioni si ribalti nell’assolutizzazione della nuda istituzione. La socialità aumenta via via fino al punto che oggi ciò che sembra starne fuori sussiste in grazia della tolleranza o della pianificata protezione dell’esotico; oggi ciò che era pensato come essenza dell’uomo dalla filosofia diviene sempre più determinato dalla società e dalla sua dinamica. «Ciò non vuol dire che gli uomini fossero necessariamente più liberi in epoche anteriori… Se la forza della società e dei suoi controlli sia maggiore o minore in una società basata sullo scambio che non in una basata sulla schiavitù è questione sciocca. Piuttosto, poiché nell’èra borghese si cristallizzò l’idea dell’individuo fino a raggiungere una forma reale, la socializzazione totale assunse aspetti che non potevano essere cogniti nei tempi pre-individuali delle culture barbariche», oggi gli uomini devono farsi ciò che una volta veniva loro fatto.
L’individuo come ente non divisibile, secondo etimologia, corrisponde all’atomo democriteo. Nella scolastica il principio di individuazione, l’hecceitas, dovrebbe mediare la persona singola con l’essentia communis umana. Nella filosofia leibniziana l’individuo è invece, senza ricorso a princìpi, l’esistente in sé, assoluta differenziazione. Il regime di libera concorrenza postula l’individuo, la monade come assoluto. Senonché la differenziazione e l’indivisibilità non sono i caratteri primari dell’individuo, poiché egli è quel che è grazie al commercio con gli altri, è «uomo-con-uomini prima di poter essere in rapporto esprimibile con se stesso»; qualora si prescinda dal rapporto con altri (per cui l’individuo è figlio di una madre, padre di un figlio, allievo di un maestro e via elencando), l’individuo si riduce al punto astratto verso il quale converge un certo numero di rapporti.
Tanto è astratta la nozione dell’individuo quanto astratta la nozione di società: «La massima conseguenza che deriva dalla teoria del rapporto di reciprocità fra società e individuo è il pensiero che la sociologia positivistica evita, che l’uomo come individuo si attua solo in una società giusta… Hegel racchiude quell’intenzione sociale della metafisica occidentale affermando che, in quanto cittadino di uno Stato buono, l’individuo giunge alla sua verità… Il cittadino, a contrasto con codesta idea che Hegel credeva realizzata, è tirannizzato da contraddizioni come quella tra esistenza borghese-particolare e politica-generale, tra sfera privata e professionale che aumentano col crescere dello sviluppo storico…, all’individuo del tutto interiorizzato la realtà diventa apparenza e l’apparenza realtà».
Ma la tensione fra individuo e società implica l’esistenza intermedia di altre istanze, di gruppi. Anche questi sottostanno alla dialettica attuale: mentre la famiglia e il villaggio perdono forza, la funzione mediatrice fra la totalità sociale e l’individuo è assunta da gruppi intimamente anonimi e meri agenti della società quanto più insistono sulla loro identità autonoma (i juvenile gangs, i teams di lavoro o sportivi). La massa viene intesa come prodotto della metropoli industriale, ma il suo concetto è paradossale: è un rapporto fra uomini che non hanno rapporto fra di loro; inoltre nessuno ritiene di far parte di una massa: la massa sono sempre gli altri.
Nel trattato di Freud Massenpsychologie und Ich-Analyse, del 1921, è messo a frutto lo studio di Le Bon. La suggestione non è più invocata come principio di spiegazione totale bensì analizzata a sua volta. Essa riposa sul principio di identificazione, che è il cemento di quelle «masse altamente organizzate, durevoli» che sono la chiesa o l’esercito, costituite da individui che hanno sostituito uno stesso oggetto al loro io-ideale. La massa oggi è creata e tenuta insieme da una tecnica apposita; in ciò, nella oggettivazione dei mezzi di manipolazione, è la novità. La predisposizione a soggiacere alla manipolazione è nella debolezza dell’io che tanto più chiede di sentir calore e di essere integrato.
L’orrore della massa si fonde con un atteggiamento di esaltazione della cultura rispetto alla civiltà, con la commozione che suscita una casa medievale in confronto a un casermone moderno, «ma il caotico e l’orrendo dell’odierna civiltà tecnica non nascono dalla tecnica stessa, bensì la tecnica ha assunto nella società odierna una posizione che sta in un rapporto inadeguato con i bisogni dell’uomo». Gli uomini sono servi di un apparato pubblicitario che ha una esistenza autonoma. Oggi si giunge al punto di non saper sempre distinguere il male prodotto dalla deformazione della tecnica dalla tecnica stessa. Karl Kraus diceva che con l’automobile poteva anche recarsi ad ascoltare l’usignolo; ma il mutare continuo delle sagome di carrozzeria ha in sé qualcosa di sinistro. Il sogno dell’uomo civile non è più la Cuccagna, ma la marca più nota, l’ultimo gadget.
La soppressione della sfera del privato si può osservare nel gruppo che media fra individuo e società nel modo più ingente: la famiglia. Nella famiglia pare racchiudersi un elemento eteronomo rispetto alla società, che non si riduce al rapporto di scambio: l’amore, che però viene sempre più a coincidere con la morale del give and take. Senonché le previsioni prospettate da Huxley in Brave New World (la famiglia destinata a sparire e a giacere sotto un tabù) sono infirmate da una visione unilaterale; se da un verso la società usura la potenza della famiglia, dall’altro la mantiene, poiché ha interesse a conservare isole di irrazionalità che aiutano l’uomo stretto nella logica aziendale a sopportarla, e quindi riescono utili e razionali in seconda istanza.
In Rosseau ancora la famiglia è vista come la società naturale, poi da Bachofen ad Engels fu prospettata una serie di ipotesi che la coinvolgevano nella storia, presupponendo uno stato di promiscuità da cui sarebbe sorto un matriarcato seguito dal patriarcato. Ma paiono incapsulati nel rosseauismo molti sociologhi che continuano sotto diversa veste a ripresentare la famiglia come un dato di natura, astorico, e lo stesso concetto di comunità opposta a società, di Tönnies, è derivato dalla famiglia. Uno studio meno ipotetico dei primi storici della famiglia è contenuto nell’opera di Lévy-Strauss.
Ma nella situazione attuale preme, dimessa ogni pretesa astorica, di ravvisare la reale funzione della famiglia, che, come comunità basata sul sangue e non sullo scambio, era in contrasto con la società borghese e rappresentava un momento irrazionale nella società industriale, sottratto all’imperio della domanda e dell’offerta. Ma appunto per il suo anacronismo era utile e inseribile nella società industriale: soltanto grazie all’adattamento conseguito nell’irrazionalità della famiglia poteva l’individuo essere preformato all’irrazionalità della riproduzione della vita come merce-lavoro, all’ethos della laboriosità. L’unico modo con cui il figlio riusciva a sopportare la coincidenza di potenza e successo incarnata dal padre era l’idealizzazione del padre. Della sua irrazionalità la famiglia borghese ha sempre fatto un’ideologia, il pater familias borghese ha sempre i tratti del bourgeois gentilhomme, la buona famiglia borghese è tutta protesa all’imitazione dell’aristocrazia: in senso stretto non esiste una famiglia borghese.
L’autorità della famiglia poteva avere una sua giustificazione laddove provvedeva di calore e sostentamento i suoi componenti; oggi, con la decadenza dell’eredità, con l’entrata della donna nella vita economica ogni appello alla santità della famiglia suona vuoto. Ma la sua decadenza non libera, bensì reprime; il decadere degli aspetti autoritari della famiglia non cede il posto a forme di coercizione più blanda.
Come ogni menzogna ideologica, la famiglia non era mera menzogna; se da un verso l’esaltazione della madre era il rovescio della sua umiliazione a creatura inferiore, tuttavia l’alone che le era proiettato sul capo fu il nucleo di quella dignità che fu la premessa della sua emancipazione. Quindi la crisi della famiglia è insieme crisi dell’uomo, atomizzazione e dissociazione. Fra la conservazione del fossile familiare e la sua dissociazione è un nesso; la sua irrazionalità è un elemento di cui si serve la manipolazione dell’industria culturale, donde il patetico delle manifestazioni di questa (il culto della madre o momism), poiché l’eccesso convenzionale e la freddezza emotiva sono unite. Sempre più la famiglia, reclamizzata per il senso di sicurezza e altri convenienti utilità offerte, diventa merce, e diventa anche rifugio dalla paura del rischio erotico. La larga diffusione del divorzio, istanza di libertà, si presta a diventare mezzo per parificare la famiglia a un rapporto di lavoro che si può anche rompere per stabilirne uno di maggior convenienza. L’attività educativa del padre valeva a far convergere le spiegazioni dei difetti e delle mancanze sull’individualità operante; se l’oppressione paterna non era troppo forte o era attenuata dal contrappeso della clemenza materna, nascevano individui che imparavano dal padre l’indipendenza, l’unione di disciplina interiore e libera disponibilità, sintesi di autonomia e autorità.
Anche ora i bambini nella prima fase della crescita fanno l’esperienza dell’odio-amore verso il padre, ma ben più presto scoprono che il padre non incarna affatto la potenza, la giustizia e il bene e soprattutto non promette affatto la protezione. Non c’è più lotta contro la famiglia perché ormai essa è un debole residuo che si accetta proprio per debolezza. Il padre viene sostituito da potenze collettive come la classe scolastica, l’unità sportiva, infine il partito o lo Stato. L’autorità diventa più astratta, ma appunto perciò più inumana.
Il mondo fuori della famiglia è diventato interamente ideologico, proprio in quanto ormai fa a meno di ideologie. È questo il centro del pensiero di Horkheimer e dei suoi associati: «Ideologia è giustificazione. Essa presuppone una situazione sociale già problematica, come d’altro canto l’idea della giustizia. Dove dominano rapporti di forza nudi e puri, non ci sono ideologie. I pensatori della Restaurazione, lodatori di condizioni assolutistiche o feudali, già dalla forma della logica discorsiva che contiene in sé un elemento egualitario e antigerarchico, accolgono un atteggiamento borghese, e quindi svuotano ciò che glorificano. Una teoria razionale del sistema monarchico, che dovrebbe fondarne logicamente l’irrazionalità, dovrebbe risuonare, dovunque ha ancora sostanza il principio monarchico, come lesa maestà: fondare la forza positiva sulla ragione significa già superare il principio del riconoscimento del dato. Quindi anche la critica delle ideologie, come confronto fra l’ideologia e la sua verità, è possibile soltanto fin dove l’ideologia abbia un momento di razionalità, su cui la critica si eserciti. Vale dunque per idee come il liberalismo, l’idealismo, l’identità di spirito e realtà. Chi volesse criticare invece la cosiddetta ideologia nazionalsocialista cadrebbe in impotente ingenuità». Ormai non c’è traccia di uno spirito
oggettivo in tali pseudo-ideologie, ma solo il riflesso della manipolazione. Hilter e Zdanov sono uomini che nascono
da una società dove le forze di produzione sono forti al punto da poter schiacciare senza soccorsi ideologici, con la nuda brutalità della manipolazione, la sfera del consumo. Le ideologie nascono quando i rapporti di forza non sono schiaccianti. Il relativismo scettico, in quanto sussume sotto la nozione del trucco propagandistico ogni pensiero, prepara la buona fede cinica dei manipolatori.
La cattiva coscienza dello spirito oggettivo di oggi non è già più di uno spirito oggettivo, perché questo nasce ciecamente, cristallizzandosi anonimamente: oggi l’industria culturale è ben desta e cosciente. Si pensi dunque all’industria del periodico, del film, della radio e televisione, dei best-sellers, degli spettacoli sportivi. Il contenuto dei loro prodotti è rimasto invariato nella sostanza dagli inizi inglesi, settecenteschi della letteratura volgare commercializzata secondo stereotipi sfruttati e manipolati. L’industria culturale froda lo spettatore facendogli credere di assistere alla sua stessa vita, mentre introduce in lui l’idea della disprezzabilità dello straniero o l’ideale della carriera come massimo bene. Il suo motto potrebbe essere una caricatura dell’antico precetto «sii chi sei», come constatazione del fatto, fede nella pura esistenza.
Al punto in cui i singoli si vedono come figure da scacchiera e non osano più pensare alla possibilità di essere altro, l’ideologia non è più uno schermo da lacerare, ma il volto stesso della realtà.
INSTITUT FÜR SOZIALFORSCHUNG: Soziologische Excurse (a cura di T. W. Adorno e W. Dicks) – Edizioni
Europäische Verlagsanstalt, Francoforte, 1956 – Pagine 181.
[12]
Anno II, n.ro 7, luglio 1957, pp. 575-576.
[Rassegna delle riviste] Inghilterra
QUALE CONFLITTO è in realtà espresso da drammi come Lucky Jim, Look Back in Anger e dal Room at the
Top di John Braine? Possono sembrare vaniloqui concitati, ma Geoffrey Gorer (sul New Statesman del 4 maggio)
suggerisce una spiegazione: tutte queste comiche tragedie nascono da una mésalliance, il protagonista è un giovane di origini proletarie che sposa o convive con una donna della classe media e la convivenza non riesce. Perché? Il Gorer osserva che più si scende verso le classi popolari più si afferma l’esigenza di ostentare caratteri viriloidi, il vocabolario dev’essere limitato e la voce rude, si deve rifuggire da lavori, per consuetudine, femminili: ogni deviazione da tale modello viene censurata socialmente come sissy. Tanto più nei giovani popolani che intraprendono gli studi universitari si accentua la tendenza a obbedire ai comandamenti impliciti dell’ambiente, a mostrare tratti aggressivi, sprezzanti, dileggiatori. Di qui l’incompatibilità fra i rappresentanti di tale ceto e le donne abituate all’uomo di classe superiore, meno preoccupato di affermare la sua virilità in modi ostentati. Resta l’ulteriore e più importante problema, se tale conflitto sociale sia o meno trasceso in una forma artistica in questa drammaturgia, e si propende a negarlo, tanto più che in essa non si ha né un trascendimento del conflitto sociale attraverso una determinazione di individualità di personaggi, né una visione satirica o una trenodia sulla meschinità della situazione; i personaggi sono vittime di forze sociali che essi non riescono a penetrare razionalmente, conformisti che non sanno a che cosa conformarsi.
P. N. Furbank su Twentieth Century (aprile ’57) coglie un tratto rivelatore della mentalità della middle class attraverso certi suoi manierismi di linguaggio sui quali finora non si era soffermata l’attenzione. Egli nota la tendenza a coniare in ogni occasione non propriamente uno scherzo, ma un «pro-scherzo», che soddisfa il bisogno di dire qualcosa su una situazione e non già l’esigenza di giudicarla. Un esempio: «Non voglio privarla del suo… cantuccio» (of your nook), o ancora: «Spero di non disturbare your siesta». Si inventa una espressione non prevista, ricercata, che però, appunto perché non prevista dal linguaggio stereotipato, viene messa fra virgolette: «La classe media ha un grado di cultura superiore ai suoi bisogni, ma in essa cova un’inibizione che impedisce di tenere il discorso sul piano che pur sarebbe possibile – ma sarebbe un’ostentazione – e quindi si fa la parodia della cultura inutilizzata mediante il pro-scherzo, che allude a una cultura nascosta e a riserve lessicali. La classe operaia resta sovente perplessa e si domanda: Perché ridono sempre?, temendo di essere l’oggetto delle risate». Nel pro-scherzo non si manifesta la pudibonderia che faceva evitare alle protagoniste dei romanzi ottocenteschi certe espressioni in quanto alludevano a fatti imbarazzanti, ma un totale divorzio delle parole dai fatti. Anche qui è un atteggiamento di passività rispetto al condizionamento sociale e una tendenza a fossilizzare, attraverso il linguaggio, il carattere e la capacità di spontaneità.
Manca in generale la capacità, nella letteratura inglese d’oggi, di affrontare queste varie realtà sociali con una visione chiara e distinta del comportamento etico ideale; di qui, nei drammi prima accennati, il senso di protesta a vuoto, clamorosa e infantile. La nostalgia verso una capacità di giudizio sociale è l’anima dell’ammirazione per Jane Austen, che è il tema di un saggio di Lionel Trilling apparso su Encounter di giugno (Emma). È una ripresa di temi passati come problemi presenti: «Jane Austen, per conservatrice e perfino convenzionale che fosse, avvertì la natura del profondo mutamento psicologico che accompagnava la nascita di una società democratica; si rendeva conto del