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Chi dice veramente l’identità?

Nel documento Identità battesimale (pagine 37-39)

Una notazione storica che conviene fare è che “identità”, almeno nell’uso che ne facciamo oggi, non è una parola antica, ma piuttosto recente nella storia: essa comincia ad essere usata nel XIX secolo come termine del discorso dell’am- ministrazione degli stati, delle polizie, dei governi, relativo alla loro esigenza di

identificare le persone che incontrano, e cioè di far collimare la presenza concreta di

una persona con un nome e dei dati scritti su un registro da qualche parte. Quindi nel suo uso moderno l’“identità” non ha il significato che invece ha preso poi nella clinica psicoanalitica e nelle pratiche della soggettività, di relazione del soggetto con se stesso e le sue funzioni e registri, non prende significato dal punto di vista di un soggetto e della sua esistenza, ma solo dal punto di vista di un Altro che, nel suo discorso, è interessato a “inchiodare” qualcuno a ciò che egli è in un registro o in un verbale, nel sapere che qualche potere ha su di lui.

Basti pensare a I miserabili di Victor Hugo, e alla caccia che il poliziotto Ja- vert fa di Jean Valjean cercando di rintracciarlo sotto il nascondiglio nelle sue varie e fittizie identità: che sono identità sociali, sono modi di presentarsi agli altri con cui si hanno legami sociali, sono i modi con cui ci si fa chiamare da loro, modi che contribuiscono al nome che portiamo e con cui siamo conosciuti in società. Sono

veri questi nomi, o sono falsi? Che cosa significa che un’identità è vera oppure

falsa? E soprattutto per chi significa? Nel caso di Jean Valjean i suoi nomi e le sue identità sociali sono false per il commissario Javert, perché Javert, il poliziotto,

identifica Jean Valjean, la sua persona, con la sua “identità” amministrativa penale

e giudiziaria di colpevole e condannato: si vede chiaro che a lui non interessa il soggetto Jean Valjean, la coscienza che può avere di se stesso, ciò che pensa di sé, il giudizio che può dare su di sé, il vero nome che nomina la propria vita: tutto questo è un’eccedenza inutile rispetto alle azioni che lo identificano come colpevole per il sistema giudiziario. Il romanzo evidenzia che la relazione con la giustizia dello Stato che Jean Valjean intrattiene, non esaurisce in alcun modo il campo della sua identità: né per le altre persone con cui ha avuto legami nei quali egli ha fatto loro del bene, né per se stesso.

Il romanzo ci mostra che Jean Valjean sa di non essere soltanto quelle azioni oggettive, reali, alle quali il commissario Javert vorrebbe impiccarlo, e si ribella strenuamente ad essere ridotto a quella identità assegnatagli dal sistema giudizia-

rio senza alcuna considerazione del significato soggettivo che ha avuto per Jean Valjean il furto iniziale commesso.

Il momento chiave del romanzo è il momento in cui Valjean cede alla tenta- zione di assumere lui stesso quell’identità di criminale assegnatagli dal sistema, la tentazione di riconoscersi in quell’identità e di agire di conseguenza secondo essa, rassegnandosi a giocare il gioco del sistema: è il momento del furto dell’argenteria dalla casa del vescovo che lo ha accolto. Il racconto mostra in modo straordinario come il fatto che il vescovo non lo tratta pubblicamente come un ladro, ma anzi definisce come proprio dono, e non come refurtiva, ciò che Valjean aveva preso, aggiungendo perfino ad esso due preziosi candelabri d’argento, ecco, questo of- fre letteralmente a Jean Valjean una nuova identità, permettendogli di rinunciare a quella di criminale alla quale aveva per un momento deciso egli stesso di fissarsi.

Ciò che non interessa al commissario Javert è in realtà l’evento essenziale per il soggetto Jean Valjean, essenziale per le sue identificazioni che scandiscono e impostano il suo percorso verso l’identità nelle sue relazioni con se stesso e con gli Altri con cui avrà a che fare.

Come si vede, quando ci interessiamo all’identità di qualcuno, dobbiamo sempre chiederci se ci interessiamo alla sua identità nel modo del commissario Javert (che non vuole sapere nulla del soggetto che lui identifica all’apparenza esterna del suo atto) oppure nel modo, per esempio, del vescovo Myriel, che ha letteral- mente operato quella che gli psicoanalisti chiamano un’interpretazione del desi- derio di Jean Valjean, come desiderio di identificarsi per dispetto e disperazione con il criminale che Javert vuole che egli sia: permettendogli così, cristianamente, di sovvertire questa identità.

Se riteniamo che l’azione e l’intervento del vescovo hanno operato in senso

terapeutico per Jean Valjean, come il racconto ci suggerisce, allora dobbiamo con-

siderare come patologica e patogena la modalità di trattare l’identità del soggetto da parte del commissario, con le sue conseguenze sulla relazione del soggetto Jean Valjean con se stesso: conseguenze devastanti perché distruttive e anti vitali.

Qui si rende evidente un punto fondamentale: sia la questione dell’identità sia quella della patologia umana riguardano entrambe la relazione intima del sog- getto con se stesso, anzi il legame intimo del soggetto con la propria stessa realtà. Sottolineo il termine legame, perché più del termine “relazione” ci dice che c’è qualche cosa in gioco nel dramma dell’identità che il soggetto vive come com- pito necessario a cui l’esistenza e la realtà lo obbligano: dico dramma perché una

posta in gioco è qualcosa che non è garantito di mantenere o di ottenere, è qualche

cosa che si può perdere e non solo guadagnare.

La posta in gioco nel dramma dell’identità è appunto il legame che il sog- getto può realizzare con i diversi fattori della sua esistenza e della sua vita: fattori reali, fattori simbolici, fattori immaginari. L’unità del soggetto con se stesso e con i propri fattori non è necessariamente scontata e garantita in partenza per il solo fatto che l’individuo è uno sul piano del reale, perché l’essere umano non può esi-

stere soltanto sul piano del reale come qualunque altro animale, ma esiste necessa- riamente anche sul piano delle relazioni simboliche oltre che nell’immaginario (in quello umano, molto diverso dall’immaginario dell’animale, che per quest’ultimo non esce fuori dal piano del reale, di cui è un apparato). La distinzione tra questi tre registri del reale, del simbolico, dell’immaginario è necessaria per capire qual- che cosa e per orientarsi nella complessa questione della struttura del soggetto: qui mi preme sottolineare che l’identità ha una natura di legame, è l’esito di un’opera- zione, cioè di un’attività, di legame, che passa attraverso il legame con l’altro, sia maiuscolo che minuscolo, per arrivare a permettere al soggetto stesso un legame separato e distinto con la realtà (che include la realtà dell’altro e la propria realtà). Per questo ogni evento patologico nella soggettività umana consiste in una qualche forma di slegame, di slegamento tra il soggetto, tra i suoi fattori vitali, tra lui e la realtà. Per questo però notiamo che le forme della patologia soggetti- va, quando le incontriamo, ci indicano con certezza che siamo in presenza di un individuo/soggetto umano che è al lavoro per trovare, ritrovare, mantenere quel legame interno tra sé, i suoi registri e i suoi fattori che chiamiamo sinteticamente identità.

Nel documento Identità battesimale (pagine 37-39)