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Il riconoscimento dell’identità etnica

Nel documento Identità battesimale (pagine 156-161)

L’identità etnica

FABIO MACIOCE

4. Il riconoscimento dell’identità etnica

Se le identità sono dialogiche, la risposta dell’ordinamento alle richieste avanzate dalle comunità etniche è tale da contribuire a definirne l’identità stessa. Va tenuto presente come il riconoscimento sia un’attività complessa che si sviluppa su piani molteplici, reciprocamente interferenti seppur concettualmente distingu- ibili (Honneth 2002). Il riconoscimento, in altri termini, avviene quotidianamente a vari livelli, da quello interpersonale a quello sociale e giuridico, e con varie mo- dalità.

Questa molteplicità di piani e di strumenti, oltre che questa pluralità di esiti e di significati del riconoscimento, deve pertanto essere tenuta presente laddove si affronti il problema dell’identità dei migranti e delle strategie per il riconoscimen- to compatibili con uno Stato democratico di diritto.

In questa prospettiva, da tempo è stato osservato il conflitto fra le c.d. poli- tiche dell’eguaglianza e le politiche della differenza (Taylor 1994: 32). Entrambe tali politiche mirano a garantire, in una prospettiva universalistica, la possibilità che ciascun individuo sia riconosciuto pubblicamente per quello che è, poiché da tale riconoscimento deriva la garanzia della dignità e del valore insopprimibile di ogni individuo. Ma tale universalismo si sviluppa in due direzioni del tutto differenti: da un lato (nelle politiche dell’eguaglianza) esso fonda la garanzia, per ciascun individuo, di un medesimo corpus di diritti e libertà; dall’altro (nelle politiche della differenza), esso impone che siano riconosciute quelle caratteristiche differenziali fra ogni gruppo sociale, al fine di garantirne la sopravvivenza. Da un lato esso garantisce che ciascuno possa vivere in conformità all’immagine di sé che, come individuo, ritiene più degna; dall’altro che ciascuno possa vivere in conformità all’immagine di sé che, come membro di un gruppo, dà significato e valore alla sua esistenza.

Il modello politico del proceduralismo liberale è incapace di gestire questa duplicità di piani, perché ogni politica di protezione delle differenze, ovvero ogni politica in cui una specifica identità culturale sia assunta in quanto tale come og- getto di protezione da parte dell’ordinamento, contraddice l’idea che l’unico modo per garantire la dignità umana sia quello di tutelare l’autonomia delle scelte indi- viduali, relegando la politica in una posizione di neutralità rispetto ad ogni finalità “sostantiva”. In altri termini, tutelare questa o quella specifica identità collettiva violerebbe proprio questo principio di neutralità delle scelte pubbliche, poiché solo il rispetto delle procedure democratiche è compatibile con esso (Barry 2001).

Neppure versioni più “ospitali” del liberalismo riescono a risolvere il pro- blema. Tali prospettive non sono infatti in grado di rispondere alle richieste di approvazione pubblica (e dunque di promozione ad esempio a livello scolastico, universitario, istituzionale) avanzate dalle culture che con le migrazioni entrano sulla scena sociale, e che per l’appunto sono richieste di riconoscimento. Il fatto poi che queste culture siano condivise dagli stessi cittadini, ovvero che non siano semplicemente delle prassi rispetto alle quali si possa opporre l’omogeneità del

Noi politico (“noi, qui, facciamo così”), fa sì che l’atteggiamento più convincente sia quello di una disponibilità all’inclusione, subordinata alla verifica e alla valuta- zione di queste istanze culturalmente motivate.

Più convincente mi pare la prospettiva che, nel tempo, è emersa dal con- fronto tra Benhabib e Habermas. In tale prospettiva, anzitutto, si sostiene che una democrazia può essere accogliente nei confronti delle istanze avanzate dalle dif- ferenti culture, ed essere al contempo ferma nella difesa dei diritti individuali, a patto che vengano rispettate tre condizioni fondamentali: una reciprocità eguali- taria, la volontaria ascrizione di ciascun individuo a ciascun gruppo, e la libertà di uscita (Benhabib 2002: 19). Il primo principio impone di considerare i membri di ogni gruppo minoritario come titolari, indipendentemente dalla loro appartenen- za a tali gruppi, dei medesimi diritti civili, politici e sociali della maggioranza. Il secondo principio garantisce che l’appartenenza ad un gruppo debba essere il più possibile conseguente ad una libera scelta dell’individuo. Infine, il terzo principio impone di garantire a ciascuno il diritto di non-appartenenza, o più esattamente il diritto di svincolarsi dall’appartenenza ad una specifica comunità, e non conside- rarsi più un membro di essa.

Ora, se si considerano prioritari questi principi, ciò che emerge è la cen- tralità del principio di autonomia individuale; l’autonomia garantisce la libertà di auto-ascrizione e uscita dai gruppi da parte dell’individuo, e l’autonomia nella partecipazione al dibattito pubblico garantisce l’accettabilità delle decisioni della maggioranza. La libera partecipazione al dibattito pubblico sui valori e le pratiche ammesse rende le deliberazioni pubbliche accettabili da parte di tutti, così come ciascuno può, autonomamente, scegliere a quale gruppo fare riferimento per co- struire la propria identità. La democrazia discorsiva, pertanto, non solo determina la legittimità delle scelte politiche e normative, ma produce anche il rafforzamen- to delle virtù civili e la coesione sociale, poiché fa percepire la democrazia stessa come un’impresa collettiva e cooperativa tra soggetti liberi ed eguali (Benhabib 2002: 133).

Questo modello, tuttavia, è apparso eccessivamente idealistico ad alcuni studiosi, i quali hanno sottolineato che le distanze fra le varie concezioni e culture presenti in un medesimo contesto sono spesso di tale consistenza che l’effettiva partecipazione al dibattito pubblico può restare, in larga misura, inattuabile o illu- soria (Valadez 2001: 101).

Tale perplessità, in effetti, è stata anche recentemente riproposta dallo stes- so Habermas, in relazione ai problemi nascenti dal confronto fra più identità reli- giose. Egli ha notato difatti che in uno Stato laico l’esercizio del potere, necessaria- mente fondato su basi non religiose, colma le proprie lacune di legittimazione con- seguenti a tale neutralizzazione ideologica col richiamo alla Costituzione; e che, d’altro canto, la procedura democratica si legittima tanto sulla eguale accettabilità razionale, da parte dei cittadini, delle decisioni prese, quanto sulla pari partecipa- zione politica di questi stessi cittadini (Habermas 2006: 25).

essere motivate razionalmente, e precisamente sulla base di quella ‘ragione natu- rale’ che può essere condivisa da tutti, e attraverso forme pubbliche e condivise di discussione, il secondo elemento rappresenta un problema infinitamente più spinoso; la “riserva istituzionale di traduzione” in argomenti razionali delle scelte di valore non può essere imposta normativamente ai singoli: poiché la necessità di assicurare l’impegno cooperativo di tutti i cittadini, e di far sì che essi si sentano parte allo stesso titolo di una civitas alle cui leggi sono soggetti, fa ritenere infatti au- spicabile “l’ammissione di enunciazioni religiose non tradotte nella sfera pubblica politica”.

In altre parole, devono essere ammessi al dibattito pubblico non soltanto gli argomenti razionali e razionalmente giustificabili, ma anche le argomentazioni religiose che i cittadini (monoglotti, con la definizione di Habermas) non riescono a tradurre in equivalenti razionali; ciò perché è necessario assicurare quella coopera- zione intersoggettiva della quale lo Stato si nutre (Habermas 2006: 32ss.), e perché non è opportuno privarsi di risorse ulteriori (anche non razionali) per la creazione del senso, preziosissime in uno Stato post-secolare.

Il rischio dello Stato liberale, secondo Habermas, è insomma quello di ri- partire in misura asimmetrica gli oneri cognitivi, imponendo solo ai cittadini cre- denti (e potremmo aggiungere: a tutti coloro che fondano su argomenti culturali e tradizionali le loro prassi) o uno sforzo di traduzione delle loro visioni del mondo, minando con ciò quella solidarietà unificante che, non potendo essere imposta per legge, si fonda sul sentimento di eguale partecipazione dei singoli alla vita pubbli- ca. Tale asimmetria, insomma, dovrebbe essere risolta non con il semplice e vuoto appello alla tolleranza, ma cominciando a prendere sul serio i contributi religiosi, tradizionali e culturali ai dibattiti politici, non escludendo un loro possibile valore cognitivo (nel riconoscimento, tuttavia, della preminenza delle argomentazioni ra- zionali), ed attivando dei “processi complementari di apprendimento” (Habermas 2006: 41).

Tale obiezione (si veda anche Williams 2000: 133), a mio parere molto fon- data, ha spinto ad una parziale riformulazione della teoria della deliberazione pubblica, determinando una maggiore accoglienza verso prassi argomentative e giustificazioni anche non esclusivamente razionali. S. Benhabib, ad esempio, ha cercato di opporre a detta obiezione numerosi contro-argomenti; in primo luogo, ha ritenuto che in un contesto pluralista la discussione pubblica non implica ne- cessariamente un onere di traduzione razionale della propria visione del mondo, quanto piuttosto un impegno reciproco di familiarizzazione e traduzione fra i rispet- tivi orizzonti (riprendendo, così, il tema gadameriano della fusione di orizzonti,

horizontverschmelzung). Ancora, ha proposto di non considerare la sfera pubblica

come dominata da un unico modello argomentativo (quello del dialogo raziona- le) ma come capace di accogliere stili narrativi e modelli argomentativi differenti, distinguendo fra sintassi e semantica dell’argomentazione (Benhabib: 140). Infine, ha sottolineato che se certamente la possibilità concreta di raggiungere un accordo mediante l’argomentazione razionale resta, in molti casi, un’illusione, la prospetti- va della democrazia deliberativa è compatibile con la ricerca di compromessi mo-

rali e strategie politiche, poiché tali attività si rivelano essere, in fondo, una forma di reciproco apprendimento e di mutua cooperazione al fine di trovare modi e stili di vita reciprocamente accettabili (Benhabib: 145).

Insomma, la democrazia deliberativa non va intesa come un astratto ideale teoretico, ma come una prassi politica, un modello concreto di gestione dei conflitti e dei dibattiti pubblici in una società pluralista; ed in tal senso resta, ad avviso di molti, la migliore modalità per rendere compatibile il riconoscimento dei diritti dei singoli con il riconoscimento delle identità etniche e delle tradizioni culturali.

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