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Patologie dell’identità o patologie da identità?

Nel documento Identità battesimale (pagine 39-42)

Con ragione ho insistito nel sottolineare la differenza radicale che su questo punto esiste tra l’uomo e gli altri animali: questi, anche quelli cosiddetti superiori, anche quelli considerati più simili all’uomo, sono immuni dalle patologie che afflig- gono il soggetto umano nel lavoro della sua esistenza. Non si conosce un gorilla o uno scimpanzé affetto da dissociazione schizofrenica, da amnesia di identità, da maso-

chismo morale o erogeno, da senso di colpa patologico, affetto da melanconia o da disfo- ria di genere: affetto cioè dalla percezione di qualche minaccia alla forma della sua

stessa esistenza soggettiva, da una qualunque delle forme di slegame che invece possono colpire gli umani.

Ed è logico, perché gli animali non hanno nulla da legare alla propria esi- stenza che possa essere slegato: anzitutto perché il pensiero della “loro esistenza”

non è un fattore della loro vita, perché essi non si preoccupano della loro “esistenza”

(e quindi di chi sono o di che cosa sono), ma solo di svolgerne le funzioni.

Uno scimpanzé non è melanconico, perché non rischia di sentire il proprio essere ridotto e identico ad un oggetto oscuro, incapace di ricevere un valore qua- lunque, incompatibile con ogni ideale, con il risultato di non riuscire più a cogliere ogni aiuto che gli possa venire dall’altro che lo ama e lo riconosce come un bene per lui, e di essere condotto alla disperazione e al suicidio.

Uno scimpanzé non è schizofrenico, nella misura in cui non rischia di sentirsi sfuggire il rapporto con la propria immagine e attraverso questa col proprio corpo, di non sentire più come proprio il suo corpo e quindi di non riuscire più a prende- re l’iniziativa di muoverlo; oppure non rischia di sentire che i suoi organi, le sue

sensazioni, i suoi movimenti non sono suoi ma sono in realtà operati da qualche potere esterno a lui, da qualche altro che lo perseguita e che vive e gode la sua vita al posto suo. Lo scimpanzé non ci parla e quindi noi non sappiamo molto del suo rapporto intimo con la sua vita, tuttavia da quanto noi vediamo di lui non sembra ci siano dei segni che dicano che lo scimpanzé abbia col suo corpo non solo una relazione di essere (nel senso di essere identico al suo stesso organismo), ma anche una relazione di avere: soltanto chi vive una relazione di avere con qualcosa da cui si sente distinto, può avere il timore o fare l’esperienza di perderla.

Uno scimpanzé non rischia di avere episodi di depersonalizzazione, di non sapere più chi è veramente, di non sentirsi più nessuno, di non sentirsi esistere, di non riconoscere più la sua immagine allo specchio: per la ragione che quando da piccolo gli è capitato - se gli è capitato - di passare davanti ad uno specchio e di essere stato attirato dalla sua immagine riflessa, dopo aver guardato dietro lo spec- chio ed essersi accorto che si trattava di un’immagine puramente virtuale aveva perso ogni interesse per la suddetta immagine. Quell’immagine infatti non era di un altro suo simile reale con cui gli interessasse avere a che fare: e quanto al fatto che fosse un’immagine sua, ciò non bastava a farne un’immagine di sé, della quale peraltro non aveva alcun bisogno e dunque alcun interesse. A differenza, in que- sto, dal suo “cuginetto” umano, il bambino, che una volta realizzato che quell’im- magine che vede nello specchio portata in braccio dal genitore è la sua, che è lui finalmente reso visibile a sé come un altro nello spazio circostante, si accende di una passione per questa immagine e per il suo legame con essa che non lo lascerà più per tutta la vita (si chiama narcisismo, nel senso di struttura della persona, non anzitutto nel senso di patologia).

Uno scimpanzé non è transessuale, nella misura in cui non pensa che do- vrebbe avere un sesso diverso da quello che ha, per la semplice ragione che non distingue se stesso dal proprio corpo sessuato reale: ed è troppo impegnato ad affrontare il reale per quello che è, senza nulla che possa dargli l’idea o il pensiero che il reale non dovrebbe essere quello che è.

Così uno scimpanzé non avrà mai un’amnesia di identità, quel fenomeno in cui il soggetto risulta incapace di ricordare il proprio nome, con tutte le esperien- ze legate più direttamente a questo nome. Anzitutto perché il nome proprio è un significante, cioè un elemento speciale della lingua umana, che ha la funzione di rendere presente il soggetto nel discorso, e quindi anche a se stesso, ma che è stato dato al soggetto dall’Altro famigliare e sociale. Ma siccome lo scimpanzé non par- la, non usa il linguaggio dell’uomo (col suo continuo bisogno di interpretazione) tanto meno per designare se stesso e per convincersi di essere quello che il nome designa, ecco che non appende al nome proprio che gli viene dall’Altro tutti i ricor- di che costituirebbero la sua identità: e per questo non può nemmeno dimenticarla né rifiutarla.

Nessuna di queste forme cliniche colpisce lo scimpanzé, perché egli non viene diviso internamente a se stesso da nessuna forma di autocoscienza appoggia- ta, fondata sul linguaggio e sulla funzione della parola, ed egli non deve fare i

conti con questa divisione interna della coscienza dalla quale l’uomo invece è affetto strutturalmente, come mostra il fatto che l’uomo, quando parla, parla sì all’Altro, ma contemporaneamente parla a se stesso e con se stesso. Nell’atto di parola rivolta all’altro il soggetto è sempre anch’esso un ricevente necessario del messaggio, ne è in qualche modo sempre il destinatario, anche se non l’unico: riceve sempre una ricevuta di ritorno. Oltre a ciò sappiamo bene che il soggetto può rivolgersi diret- tamente a se stesso come se parlasse ad un altro: questo perché il fatto di parlare scava il posto dell’Altro all’interno del soggetto stesso.

Ho detto che l’uomo è affetto da questa divisione interna che lo distingue dall’animale e che costituisce la condizione per una serie di affezioni psicopatologi- che; ho anche detto più sopra che questa divisione interna prodotta dal linguaggio umano nelle operazioni esistenziali e vitali del soggetto, questo distacco simbolico da se stesso è la condizione per cui solo l’essere umano ha il problema dell’identità.

Ma allora in qualche modo stiamo forse dicendo che tutte le patologie pro- priamente umane, le patologie psichiche o, detto più giustamente, soggettive, sono tutte in qualche misura patologie dell’identità, o forse più esattamente ancora pa- tologie da identità? Stiamo dunque dicendo che il problema stesso dell’identità è una patologia, ed una patologia specificamente umana? O addirittura che l’essere umano come tale è malato di identità?

Dovremmo allora scegliere se considerare l’identità un problema invece che una soluzione, una patologia invece che una forma di guarigione?

Questa idea è già stata avanzata nella storia del pensiero da qualche filo- sofo: Rousseau (o Hegel, mi pare, se non entrambi), ha affermato che l’uomo è un

animale malato. Quanto abbiamo detto va dunque nella stessa direzione? Sottoscri-

veremmo noi la stessa affermazione? In qualche misura sì, ma sostanzialmente no. Per ripetere l’affermazione che l’uomo è un animale malato non c’era bi- sogno alcuno della psicoanalisi; questa affermazione implica che l’uomo venga strappato dalla sua (supposta) pacifica appartenenza alla natura animale per opera di fattori sociali esterni, e resti quindi, in quanto animale, lesionato da questi fattori umani nella sua vita, che senza di essi avrebbe potuto svolgersi in modo compiuto e pacifico sulla base delle proprie dotazioni naturali: in fondo come un animale domestico che viene disturbato e denaturato dal contatto e dalla convivenza con una logica bizzarra, incomprensibile ed estranea alla sua natura come quella degli esseri umani.

Quest’affermazione implica l’idea che tutto ciò che è propriamente umano sia extra naturale o innaturale o antinaturale (la civiltà, la cultura, l’idea stessa di identità umana), e che ciò che è naturale e cioè animale sia in fin dei conti completo e autosufficiente in se stesso. È una scissione così netta tra il naturale-animale e l’u- mano che sembra derivare, da un lato da una rinuncia ad interrogare una qualche natura umana, e dall’altro lato dalla convinzione che l’ideale per l’essere umano sarebbe quello di rientrare completamente nella vita animale, di rinunciare cioè all’umanità con tutti i suoi problemi e le sue patologie.

Nel documento Identità battesimale (pagine 39-42)