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FRANCESCO D’AGOSTINO

Nel documento Identità battesimale (pagine 66-75)

L’identità somatica

FRANCESCO D’AGOSTINO

1. Dove radicare la nostra identità, l’identità della persona? Nell’anima, si sa- rebbe detto in epoca premoderna: in ciò che costituisce la nostra sostanza e che quindi è destinato a permanere. Di qui il precetto delfico: conosci te stesso. Ma è davvero possibile conoscere davvero noi stessi? La psicoanalisi ci ha insegnato che la nostra soggettività si nasconde e ricorre a mille inganni pur di non rendersi trasparente. Peraltro, chi ci assicura che la conoscenza di ciò che siamo, anziché irrobustirci e confortarci, non sia invece pericolosa e po- tenzialmente mortale? E’ quello che emerge dal mito di Narciso, per come ci è stato tramandato da Ovidio: alla domanda di Liriope, madre di Narciso, se il figlio avrebbe avuto lunga vita, Tiresia avrebbe risposto affermativa- mente, purché egli, però, non avesse conosciuto se stesso (si se non noverit,

Metamorfosi, III. 348). E in effetti, quando vide per la prima volta il suo vol-

to, cioè l’immagine di se stesso, rispecchiata nell’acqua, Narciso - travolto dal desiderio - cercò di abbracciare e possedere se stesso, condannandosi a morte.

2. La cultura postmoderna è narcisistica: infatti è esclusivamente attraverso il

corpo, dicono oggi in molti, che possiamo identificarci. L’eresia della fine dei

tempi, sosteneva Valéry, è il somatismo, l’adorazione di un io che si manife- sta esclusivamente attraverso il soma, il corpo. Ma l’identificazione somatica è paradossale, perché la corporeità è fluida e transitoria, essendo un’indivi- dualità radicata nel tempo, quindi fragile e mutevole. Ne segue che il tarlo della fragilità e della mutevolezza aggredisce oggi l’io più di quanto non l’abbia mai fatto in altre epoche. Di qui, una serie di problemi nuovi, di cui non abbiamo ancora preso coscienza fino in fondo.

3. Potrebbe essere utile ricordare, al proposito, una celebre facezia, che anda- va molto di moda una quarantina di anni fa ad Oxford e veniva riferita al filosofo analitico, allora famoso, Alfred Jules Ayer. Si raccontava che Ayer ad un certo punto della sua vita si fosse convertito al cristianesimo ed aves- se deciso di farsi battezzare. Espletate tutte le pratiche, finalmente arriva il giorno in cui egli deve ricevere il sacramento e pronunciare ad alta voce, per la prima volta, il Credo, la sua nuova professione di fede. Ayer si presenta in chiesa tutto vestito di bianco, alla presenza di amici e colleghi. Gli viene

messa in mano la pergamena, su cui è scritto il testo che egli deve leggere, ma improvvisamente il filosofo ammutolisce. C’è qualche cosa che gli im- pedisce di leggere il Sacro Testo. Tutti cominciano a preoccuparsi: cosa sarà successo? Qual è la ragione che impedisce ad Ayer di convertirsi? Forse è la dottrina della Trinità? La dottrina della resurrezione dei corpi? Oppure è la dottrina dell’incarnazione? Per quale ragione non vuole leggere il Credo? Il mistero si scioglie quando si scopre che il povero Ayer si è bloccato di fronte alla primissima parola della professione di fede: non giunge a dire believe, perché dovrebbe dire prima dire I. Quest’unica lettera, il termine «io», gli crea una difficoltà insormontabile: da bravo filosofo analitico non riesce a dare un qualsiasi possibile contenuto a questa paroletta. La facezia è tutt’al- tro che irresistibile, però, in qualche modo, possiede una sua efficacia, nel senso che se i filosofi continuano a riflettere sull’identità è perché ancora non sembra sufficientemente chiaro e trasparente il contenuto da dare alla paroletta «io».

4. Alla fine del 1800, quando si cominciò a strutturare il controllo di polizia su cittadini e stranieri, sembrò che il problema dell’identità e del suo ac- certamento fosse stato trionfalmente risolto: si era arrivati alla grande in- venzione della Carta d’Identità. Grazie alla riproduzione fotografica, grazie alla riproduzione delle impronte digitali, è sembrato, almeno per qualche tempo, che il problema di determinare l’identità di un individuo fosse stato definitivamente risolto. Poi ci si è resi conto - ed anche i poliziotti se ne sono resi conto - che le cose non sono così semplici come si poteva credere all’i- nizio. È sicuramente abbastanza difficile alterare le impronte digitali, ma non è impossibile. Ben più facile è alterare i lineamenti del viso. Ma non c’è bisogno di ipotizzare interventi chirurgici. Che garanzia di riconoscibilità può dare la semplice foto di un viso femminile? Non è lecito ad una donna truccarsi, mutare il colore dei capelli, farseli crescere o tagliarseli in modo radicale? O ancora: che senso può avere fotografare il volto di una donna che indossi il chador? O rappresentare il volto di un uomo barbuto e con indosso un turbante, vero e proprio obbligo religioso, almeno per i Sikh, e tale da incidere sulla loro identità?

5. I nemici del chador o del turbante potrebbero a questo punto scegliere una soluzione drastica: l’unico vero volto (l’unico vero corpo) è quello nudo. La nudità possiede una oggettività, che può essere camuffata da stoffe o cosmetici, ma che alla fin fine, togliendo le prime e cancellando l’uso dei secondi, può sempre essere riportata alla sua verità. Ma è proprio vero che l’autenticità del nostro corpo si manifesta quando il corpo è nudo? Parecchi anni fa venne pubblicato un libro interessante, a metà strada tra la ricerca scientifica e la divulgazione, di Desmond Morris: La scimmia nuda. Il titolo alludeva evidentemente all’uomo, all’unico primate che non abbia il corpo interamente ricoperto di peli. In realtà, si trattava di un titolo profondamen- te sbagliato: non è affatto vero che l’uomo sia una scimmia nuda. È vero propriamente il contrario: l’uomo è una scimmia vestita. Se c’è qualcosa che appartiene costitutivamente all’identità umana, è il fatto che l’uomo non

tollera la propria nudità: l’uomo è l’animale che si veste, che si veste per una sorta di esigenza profonda, irriducibile ed immodificabile. Il vestirsi non dipende affatto, come ingenuamente qualcuno pensa, da ragioni climatiche o da esigenze di protezione. Lo dimostra il fatto che laddove per ragioni pu- ramente materiali sia difficile per gli uomini procurarsi pellicce di animali predati o tessere tessuti - dove cioè sia complicato fabbricarsi dei vestiti - essi elaborano ottimi surrogati dell’abbigliamento, ricorrendo ad esempio al tatuaggio. Il tatuaggio è sicuramente un modo di alterare la propria nu- dità: l’individuo tatuato, anche se materialmente può essere nudo, in realtà non lo è affatto, perché lo sguardo di chi lo guarda cade inevitabilmente non sulla nuda fisicità del suo corpo, ma sulla sua fisicità tatuata, cioè in qualche modo arricchita, ricoperta e comunque de-formata.

6. Il tatuaggio, così come l’abbigliamento, dimostrano che l’uomo non è conci- liato con la propria nudità, o, se si preferisce, col proprio corpo. Ne è prova, del resto, anche il linguaggio, quando discrimina alcune parti del corpo rispetto ad altre. I greci parlavano di aidoia per riferirsi alle parti del corpo umano utilizzate nell’atto sessuale, i latini le dicevano pudenda: letteralmen- te, le parti del corpo che destano vergogna, e che dunque devono essere coperte attraverso i vestiti, quando non vengono «utilizzate». Peraltro che questa «utilizzazione» sia «vergognosa» per l’uomo, emerge dal fatto che egli è l’unico animale che non si accoppia in pubblico, ma si nasconde. Que- sto non significa che l’uso del corpo a fini riproduttivi o anche a meri fini di piacere sessuale non sia di grande rilievo. Ma il fatto che tale uso avvenga in modo non solo privato, ma nascosto, dimostra che l’uomo non è in equi- librio con se stesso, cioè non si sente completamente rappresentato dalla propria corporeità. Evidentemente essa crea in lui o è manifestazione in lui di uno squilibrio.

7. L’esempio delle pudenda può non piacere o comunque apparire non con- vincente; ma non è difficile farne molti altri. Si pensi ad esempio a una sce- na banalissima, che viene costantemente ripetuta nei circhi, quando, per divertire il pubblico, si mandano in scena animali vestiti. Se poi si riesce a far compiere a questi animali comportamenti simili a quelli umani (con le scimmie è facilissimo; ma può già essere sufficiente far alzare un cagnolino sulle gambe posteriori e farlo «camminare») il successo è assicurato. Gli animali vestiti che scimmiottano l’uomo sono ridicoli. Ma perché lo sono? L‘animale vestito è ridicolo non perché sia vestito, ma perché, in quanto è vestito, imita l’uomo. In altre parole non è il vestirsi in sé che desta ilarità, ma il fatto che l’animale scimmiotti l’uomo perché l’uomo, come sapeva be- nissimo Bergson, non soltanto è l’unico animale che ride, ma è soprattutto

l’unico animale che fa ridere. Quindi se non ho a disposizione un uomo che

faccia da pagliaccio, posso, con un piccolo transfert, far assumere il ruolo del pagliaccio ad un animale, purché lo renda mimetico all’uomo. Mettere un vestitino ad una scimmietta o ad un cane è un ottimo modo per far ridere il pubblico; per farlo ridere non dell’animale, ma dell’uomo, che l’animale vestito imita.

8. Dunque, se basta un vestito indossato da un animale ad attivare l’ilarità, ne possiamo dedurre che il vestirsi è costitutivo dell’identità umana, e cioè che il corpo non basta a se stesso, che la nostra identità non è veicolata dalla nostra nuda fisicità. Ognuno di noi ha un corpo che può essere denudato, ma nessuno di noi si riconosce pienamente nel proprio corpo, nemmeno se denudato. La nostra identità si fonda su qualcosa di più e di diverso. Dove individuare o collocare o come descrivere questo qualcosa di più? Facciamo un salto verso la polarità comunemente contrapposta rispetto alla corporei- tà e parliamo del pensiero.

9. Abbiamo un modello filosofico illustre, straordinario, a nostra disposizione per introdurci in questo nuovo orizzonte: è il modello cartesiano. La via dell’identità per Cartesio è la via della riflessione, del pensiero che riflette su se stesso: Cogito ergo sum. Conquisto la mia identità scoprendomi come soggetto pensante. Si tratta di un principio talmente famoso, che sembra non aver bisogno di alcun commento. Può però valere la pena di riflette- re su un aspetto della struttura epistemologica del cogito, alla quale non sempre si dà l’attenzione che essa merita. Cartesio con estrema chiarezza ci mette sull’avviso perche non cadiamo in errore. Il cogito, dice Cartesio, non è il prodotto di un sillogismo. Mi riferisco a un brano essenziale delle

Meditazioni metafisiche, un brano di risposta alla seconda serie di obiezioni

alle Meditazioni.

10. Quando ci accorgiamo di essere delle cose pensanti, spiega Cartesio, questa è una nozione prima che non è tratta da nessun sillogismo. Chiunque dica: «penso quindi sono o esisto», non deduce la sua esistenza dal suo pensiero per forza di sillogismo, ma come cosa conosciuta la vede per sé, come una semplice intuizione della mente. Il che è reso manifesto dal fatto che, se la deducesse per nesso del sillogismo, egli avrebbe dovuto conoscere prima questa premessa maggiore: tutto quello che pensa è. Tutto quello che pensa esiste. lo penso, dunque - terzo termine del sillogismo - io esisto. Tutto ciò che pensa esiste. Io penso, dunque esisto. Non è così, dice Cartesio, questo sillogismo non funziona. Il cogito non è elaborato per via di ragionamento, ma ci è insegnato dal fatto che sentiamo in noi stessi che in nessun modo potremmo pensare se non esistessimo. Cogito ergo sum non significa de- durre sillogisticamente una conseguenza logica da un principio logico, ma prendere atto in maniera diretta ed immediata della nostra identità come pensiero o, per usare un termine forse più spendibile, come spirito. Un teo- logo potrebbe dire: come anima. La lettura comune più frequente che è stata data di Cartesio ha portato il discorso in tutt’altra direzione. L‘idealismo ha utilizzato il cogito cartesiano de-esistenzializzandolo. Il sum non è stato tradotto esisto, ma sono: nella prospettiva idealistica il cogito diventa sogget- tività trascendentale, completamente priva di qualsiasi contenuto, figuria- moci di contenuti esistenziali! Diventa un mero punto di riferimento di ciò che rende possibile l’esperienza. In Kant il soggetto trascendentale riceve o viene espresso con uno statuto, anche linguistico, molto curioso: Kant con- tinua a parlare dell’io-penso in modo oggettivistico, ponendo davanti all’Ich

denke un pronome neutro: un das. L ‘io penso, espresso nella formula das Ich denke, serve a far capire come nella sua prospettiva il principio del pensiero

non abbia alcun riferimento esistenziale, ma esclusivamente categoriale. È un principio del pensiero. L‘idealismo, senza che gli idealisti se ne fossero accorti o addirittura senza che gli idealisti lo sapessero, è il manifestarsi - nel 1800 - di temi che nei primi secoli dell’era cristiana si erano manifestati attraverso l’eresia gnostica. L’idealismo è una forma di gnosi. La gnosi, inte- sa come eresia cristiana, è semplicemente questo: il negare valore alla realtà fisica, a ciò che con un lessico paolino chiameremmo la carne.

11. Gli gnostici erano degli spiritualisti estremisti. A loro avviso solo gli uomini spirituali potevano salvarsi (quelli che gli gnostici chiamavano gli pneuma-

tici: gli uomini pieni di pneuma, arricchiti cioè dal soffio dello spirito di Dio).

Gli uomini, invece, non spirituali, non pneumatici, quelli che gli gnosti- ci chiamavano i sarchici (da sarx, carne), erano nella loro teologia destina- ti all’annichilimento. Nell’eresia gnostica il sarchico era destinato al nulla, perché la sua era pensata come un‘identità fittizia. La carne, non avendo un’identità intrinseca, autentica, non avendo spazio nel piano della salvez- za, era pensata come destinata a dissolversi, per lasciar spazio unicamente allo spirito e al suo trionfo.

12. In un certo senso l’idealismo si muove nella stessa lunghezza d’onda. Quan- do Kant oggettivizza l’io-penso, lo spazio del corpo appare completamente azzerato. Non era così in Cartesio. Coloro che criticano il sistema cartesiano in quanto sistema dualistico, chiamato a gestire il difficilissimo equilibro tra res extensa e res cogitans, spesso non avvertono nella giusta misura con quanta serietà Cartesio si sia posto il problema della fisicità, il problema del corpo: una serietà rara da trovare non solo nell’idealismo, ma perfino nel materialismo dialettico. Lo sforzo di Cartesio di trovare il punto di connes- sione tra corpo e spirito nella ghiandola pineale, su cui si sono fatti, a torto, tanti sarcasmi, era un modo di prendere sul serio il problema della connes- sione tra corpo e spirito a partire dal corpo.

13. Oggi va molto di moda nella cultura anglosassone parlare del mind-body

problem, cioè del problema del rapporto mente-corpo. È un modo di ritema-

tizzare il problema cartesiano della ghiandola pineale. Intendiamoci: nes- suno vuol sostenere che la teoria cartesiana della ghiandola pineale sia con- divisibile. Quel che è condivisibile è l’esigenza di prendere sul serio il corpo e lo spirito e di trovare un punto di connessione tra i due. E questo perché - per ritornare a quanto già abbiamo detto - se è vero che penso quindi sono non è una deduzione sillogistica, ma esprime un’identità, questa identità si radica nel fatto che io, che dico cogito, ergo sum, io esisto, ed esisto come io nella mia corporeità. Se pensiamo è perché abbiamo un corpo e dunque bisogna in qualche modo rendere ragione di questo corpo che abbiamo. La nostra identità, sia che accettiamo, sia che non accettiamo il modello carte- siano, non può ridursi ad una mera identità di tipo mentale o di tipo cogita- tivo. È un’identità sintetica, in cui corpo e spirito necessariamente devono

congiungersi reciprocamente.

14. A questo punto il discorso può aprirsi a diverse prospettive. Va molto di moda, per chi riflette su queste tematiche, ricordare una contrapposizione che era molto cara a Gabriel Marcel, il quale amava ripetere che il parados- so della nostra identità dipende dal fatto che noi possiamo dire sia di avere

un corpo, sia di essere un corpo: entrambe le affermazioni sono consistenti. Ho un corpo, non c’è dubbio, è così vero che ho un corpo che posso manipolarlo

o posso addirittura separarmi da parti di esso. Posso levarmi un dente o posso amputarmi un arto: in qualche modo rinuncio a qualche cosa che ho. Nello stesso tempo sono un corpo, perché al di là di questa mia identità fisica non riuscirei mai a trovare un altro punto di radicamento del mio io. Però, allo stesso tempo, entrambe le affermazioni, presa ciascuna di per sé, sono particolarmente fragili: se noi diciamo che abbiamo un corpo e ci limitiamo a sostenere che abbiamo un corpo, dobbiamo poi affrontare il problema di come si spieghi il fatto che il corpo che abbiamo vada di pari passo, si muova sincronicamente al movimento del nostro pensiero. Come si spiega questa corrispondenza tra ciò che pensiamo e il nostro corpo che va dietro o va in parallelo al nostro spirito?

15. La storia della filosofia spiega che questo è il principio dell’occasionalismo: c’è un doppio regime della realtà fisica e mentale con una perfetta corri- spondenza tra queste due dimensioni. Rammentiamoci la famosa metafo- ra, molto amata da Leibniz, del mulino. Il mulino è una grande macchina, costituita da elementi puramente meccanici, che però porta avanti un pro- getto: il progetto del mugnaio che l’ha costruito. Il mulino esiste, in quanto corrisponde alla mente di colui che lo ha progettato. Ma chi si limitasse a guardare i meccanismi di un mulino non riuscirebbe a percepire il progetto che ne ha reso possibile la costruzione. Ciò che si riesce a vedere, è sempli- cemente una serie di perfetti ingranaggi che funzionano mirabilmente. 16. Dire che abbiamo un corpo crea sicuramente problemi gnoseologici for-

midabili nella prospettiva della costruzione di una teoria dell’identità. Ma problemi non diversi nascono quando sosteniamo che noi siamo un corpo, perché in tal modo si attivano problematiche estremamente complesse, di tipo ontologico.

17. Che vuol dire predicare il nostro essere un corpo? Aristotele sosteneva che il verbo essere si predica in tanti modi ed aveva perfettamente ragione. In quale modo si predica l’essere un corpo?

18. Kant, parlando del corpo, sosteneva che l’uomo, come realtà fisica, è una «macchina naturale», cioè creata dalla natura. È un’espressione suggestiva. Rimanda al fatto che ci sono macchine artificiali, create dall’uomo, come i mulini, e ci sono macchine naturali, create dalla natura, come i «corpi». Ma il termine macchina è comunque molto ingombrante. Deriva dal termine greco mechane, che significa propriamente astuzia, inganno. La macchina è un modo con cui l’uomo inganna la natura per trarne un profitto. Con la

leva, il prototipo della macchina più elementare che ci sia, inganno la natu- ra. L ‘enorme peso di un macigno, e finanche del mondo intero, potrebbe diventare, usando una leva appropriata, un peso assolutamente lieve, che magari anche un bambino potrebbe sollevare. Da questo punto di vista, quando Kant parla del corpo come di una «macchina naturale», non com- prende che formula un ossimoro: se il corpo è naturale non è una macchina, se è una macchina non è naturale. Se Kant avesse studiato Plotino, avrebbe dovuto confrontarsi con l’obiezione che già Plotino aveva mosso a questa teoria, naturalmente senza prevederla, criticando tutte quelle filosofie che sostenevano che il mondo, in tutta la sua immensa complessità, risponde al

progetto di un Dio Creatore: se il mondo viene da Dio - obiettava Plotino -

non può essere frutto di un progetto, perché Dio non ha bisogno di proget- tare alcunché. Progetta soltanto colui che ha dei bisogni, perché la proget-

tazione è la risposta ad un bisogno: poiché Dio non ha alcun bisogno, non ha

senso sostenere che Dio voglia progettare alcunché. Quindi, se Dio ha dato origine al mondo, non lo ha fatto allo stesso modo di un orologiaio, quando

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