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Identità, parola e linguaggio

Nel documento Identità battesimale (pagine 32-34)

Se consideriamo qualunque animale, constatiamo che esso è semplicemen- te identico a ciò che è, a se stesso, e se è affetto da qualche patologia, questa è sem- pre patologia di qualche sua funzione vitale: e tra le sue funzioni vitali non c’è una funzione specifica, speciale, che possiamo chiamare “identità”, e che possa essere affetta da qualche patologia, che possa venire compromessa. Nessun animale ci testimonia di patire (pathos, patologia) di una perdita di identità.

L’animale ci mostra di essere sempre fin troppo se stesso, di essere legato

realmente, sul piano del reale, a se stesso, e che nulla lo stacca da se stesso: ci mostra

dunque di non avere un problema chiamato “identità”, ci mostra che l’identità non fa problema per lui: ha già abbastanza problemi reali da risolvere a partire da ciò che lui è, per porsi il problema di ciò che lui non è - e d’altronde non c’è nulla nel re- ale che gli permetta di porsi questo problema: lui sa chi è senza doverselo chiedere. Perfino quando è un animale domestico che dipende da noi, e che si trova davanti noi stessi, diventati fattori importanti della sua vita, con la nostra imprevedibilità,

col nostro obbedire a leggi il cui significato, senso e regolarità gli sfuggono, ciò non fa sorgere per lui il problema della sua identità, casomai gli fa sorgere il problema della nostra identità, che noi vediamo riflesso nel suo sconcerto.

Nulla gli permette di porsi la questione “che sono?”: per sua fortuna, per- ché quella questione lo distrarrebbe talmente dai suoi compiti vitali che non riu- scirebbe a sopravvivere. Nulla gli permette di porsi la questione, perché può porsi una questione solo qualcuno che parla, solo un essere parlante: un essere cioè il cui… essere dipenda dal parlare e consista nel parlare: un essere che viva non solo nel e del reale, ma anche e soprattutto nel e del simbolico, nel e del significante. È il parlare, è il significante che apre un buco nel reale, che rappresenta il soggetto e così lo stacca dalla sua immanenza nel reale, lo fa ex-sistere, e lo assoggetta al simbolico, al discorso, e alle leggi della parola.

Così che il puro e semplice reale dal quale vengono e nel quale continuano ad essere immersi, non basta più agli esseri umani per sapere che cosa sono, che cosa devono fare, come possono vivere: anzi il puro e semplice reale non dice loro nemmeno se sono vivi o sono morti: infatti essi possono, oltre che pensarsi come mortali, anche immaginarsi come morti “anticipando” così la loro morte per iden-

tificazione con un morto (cosa che sta alla base per esempio delle patologie osses- sive): “io vivo la mia vita come morte” mi disse una volta un paziente ossessivo.

Può accadere anche che qualcuno faccia l’esperienza della propria morte come di un evento reale, e non di un’immaginazione o di un’espressione metaforica (come quando diciamo: “sono morto di stanchezza”): è un evento e un’esperienza im- possibile, che tuttavia possono accadere in quella condizione patologica che viene chiamata psicosi, in particolare nella schizofrenia. Come quella signora che si pre- sentò ad un primo appuntamento con l’analista dicendo: “dottore, io sono qui solo perché avevamo preso l’appuntamento: perché in realtà devo dirle che sono morta quattro giorni fa”: quale documentazione migliore del fatto che la parola (l’accor- do, l’appuntamento) è ciò che fa ex-sistere, esistere, questa persona al di fuori e aldilà della propria stessa morte, che per lei era assolutamente reale e non aveva niente di metaforico?

Ma allora che cosa è, chi è questa persona, questo soggetto, così dentro il reale (vive la sua morte…) eppure così fuori (può dire che è morto parlando con un altro…)? Qual è la sua identità? L’identità di quella signora sta nel suo essere morta, o sta nell’essere quella (quella… che cosa? dato che non è viva…) che parla con l’analista che vede per la prima volta? Quello che si vede chiaramente è che la sua identità non è poi così “identica”, è piuttosto divisa, scomposta, comunque non identica a priori, ma è il risultato di una questione vissuta, di un dramma vissuto e parlato: e che non è riducibile ad un solo termine o registro dell’esperienza, ma tiene annodata sempre una complessità di registri e di fattori. Infatti perfino quella signora nel mezzo di una crisi psicotica mantiene una sua evidente unità: è l’unità non della risposta alla questione della sua identità, ma della questione stessa che rimane aperta come una ferita e che lei incarna con tutto il suo pathos. L’identità umana è l’identità di una questione incarnata, prima che l’identità di una risposta.

Anche soltanto enunciare il principio di identità logico, “A è A”, ci mostra che la radice della questione sta nel parlare: infatti per poter dire che A è identico ad A dobbiamo prima staccare A da A, per poi ricollegarli: questa è l’operazione che nessun animale può fare, staccare una cosa da se stessa parlandone; e questa è l’operazione invece fondamentale ed essenziale che l’essere umano compie, non solo su qualcosa d’altro, ma soprattutto su se stesso. È soprattutto quando parla di se stesso che questa operazione è decisiva: perché in questa operazione (anche se dicesse “io sono io”) egli stacca e distingue sé da sé, e in quel momento si vede che la sua unità non è più data in partenza, necessariamente garantita, ma è sem- pre un’unità “ritrovata” in un’operazione complessa. Infatti che cos’è “se stesso”? dove è visibile, indicabile, dimostrabile?

Nel documento Identità battesimale (pagine 32-34)