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GIANLUCA SADUN BORDON

Nel documento Identità battesimale (pagine 190-197)

Identità e potere

GIANLUCA SADUN BORDON

I

La riflessione che propongo muove da un interrogativo: “potere” e “identi- tà” sono due categorie tanto imprescindibili nell’analisi politica, giuridica, econo- mica e sociologica, quanto per molto versi oggi considerate sospette. Basti pensare all’ombra negativa che aleggia sul potere (come realtà da imbrigliare, contenere, li- mitare) o al timore che l’insistenza sull’identità conduca a conseguenze fondamen- talistiche. Eppure, non ci vuol molto a notare che, per un verso, proprio la debolez- za del potere (contrariamente alle preoccupazioni mutuate dall’epoca post-bellica) sembra oggi fonte di ingovernabilità a molto livelli, a cominciare naturalmente dal nuovo, emergente “disordine” nelle relazioni internazionali e che per altro verso l’imporsi di istanze identitarie attraversa settori vitali dell’esperienza pubblica, in- dividuale e collettiva (si pensi ad esempio alla “prevalenza dell’identità” analizza- ta da Manuel Castells nella trilogia dedicata alla Information Age).

Sul piano teorico, nelle scienze sociali, la situazione sembra tuttavia estre- mamente incerta e fluida e lo stato di crisi dei paradigmi a lungo dominanti non offre un orientamento sicuro alla ricerca. L’obiettivo limitato che mi propongo è quello di accennare alle principali difficoltà che oggi si frappongono allo sforzo di pensare l’identità, il che presuppone che l’analisi di tale concetto sia incrociata con quella del concetto di “potere”. Solo allora, nel concetto di “riconoscimento”, di- viene possibile pensare la costruzione dell’identità e naturalmente i suoi problemi ed eventuali fallimenti.

L’esigenza di ritematizzare le due nozioni e il loro nesso sorge dunque a partire da due ordini di problemi, teorici ed “epocali”:

1) Sul piano teorico, va anzitutto considerato un doppio profilo di crisi: da un lato, la pretesa della Teoria della scelta razionale (TSR) di spiegare, sulla base del paradigma economico, l’intero comportamento umano; dall’altro, la crisi dello statualismo, e della sussunzione della sfera del potere sotto quella dello Stato, seb- bene l’illusione “globalista” del superamento della cornice dello Stato nazionale sia palesemente smentita dai fatti.

trattualisti è costituita proprio dal ritorno del concetto di “identità”.

Nella teoria politica, anche la riflessione sul potere, sul suo ruolo insostituibile, è stata modificata dall’analisi dei limiti delle ideologie politiche tra- dizionali (si pensi alle letture di Foucault nel post-marxismo di Negri o alla rifles- sione sul liberalismo di Panebianco in Il potere, lo stato, la libertà).

2) Sul piano politico, c’è da menzionare anzitutto il ritorno prepotente del- la conflittualità internazionale, la consunzione dell’illusoria proclamazione della “fine della storia” (ritrattata dal suo stesso autore, Fukuyama: “oggi registro limiti e involuzioni dei processi politici che non avevo visto nella festosa eccitazione del 1989”). D’altro canto, sul piano storico, delle relazioni internazionali, la logica tradizionale, centrata sulla distribuzione del potere, sembra aver ceduto spazio ad un’analisi anche in questo caso fondata sull’identità, ad esempio nell’influente paradigma di Huntington dello “scontro tra civiltà”.

Di fatto, in ogni ambito sembra sempre più difficile il “trasferimento” del potere al sovrano, sia questo il monarca o il popolo, le superpotenze - o l’Onu. Ciò dà forza all’idea del potere diffuso, rete senza centro, distribuzione molecolare, microfisica del potere (come in Foucault o Luhmann). Ciò sembra naturalmente configurare, come accennato, un pericolo nuovo nell’assenza di potere, anziché nella sua eccessiva concentrazione. Questa indefinitezza è probabilmente fonte di attivazione di lotte identitarie.

II

Ora, per quanto riguarda il concetto di “potere”, ne esistono due accezioni fondamentali :

Potere di (disposizionale) e potere su (relazionale) Quale delle due forme è più fondamentale?

Da un lato si può sostenere che il potere relazionale è sempre riducibile a quello disposizionale; ad esempio, il potere di un dirigente rispetto ai subordinati deriva dalle sue abilità disposizionali (ad esempio licenziarli, o trasferirli ecc.)

D’altro canto, il potere rileva in quanto fenomeno sociale, e non come sem- plice capacità: la capacità di correre i cento metri in meno di dieci secondi non la definiremmo un “potere”, perché con potere intendiamo comunque la capacità di influenzare le relazioni sociali. Esso va esercitato (non è qualcosa di cui si possa godere in privato). Indica dunque un tipo di relazione sociale, che si esercita attra- verso un’azione causale (il potere di A causa il comportamento di B); è una relazio- ne asimmetrica e dunque indica un rapporto non egualitario (come lo scambio).

Secondo un’idea intuitiva, si ha potere se si può modificare il corso degli eventi, superando una resistenza o opposizione.

Nel quadro della concezione disposizionale, il potere può poi essere inteso in senso strumentale (mezzo in vista di un fine) o finale (il potere come fine in sé): “quel desiderio perpetuo e inquieto di potere e ancora potere, fino alla morte” di cui parla Hobbes; la volontà di potenza di Nietzsche: “Non lo stato di necessità, né la bramosia - ma l’amore della potenza è il demone degli uomini. Si dia loro tutto, salute, nutrimento, abitazione, svago - essi sono e resteranno infelici e balzani; poiché il demone attende e vuole essere soddisfatto. Si prenda loro tutto e si sod- disfi quest’ultimo: saranno quasi felici - tanto felici come proprio uomini e demoni possono essere” (Aurora, IV, fr. 262).

Nel quadro della concezione disposizionale, che cosa rende certi individui o gruppi dotati di questo potere di superare una resistenza? Si può distinguere un

hard power (la forza fisica, le capacità militari) e un soft power, fondato sull’opinione.

Come già notava Hume:

Perciò soltanto sull’opinione si fonda il governo, e questa massima si ap- plica ai governi più dispotici e bellicosi come ai più liberi e popolari. Il sultano d’Egitto o l’imperatore di Roma possono governare i loro innocui sudditi come dei bruti, contro i loro stessi sentimenti e contro la loro inclinazione, ma devono, quan- to meno, aver guidato i mammalucchi o le schiere dei pretoriani come uomini, cioè facendo ricorso alla loro opinione (Saggi morali, parte I, IV).

È chiaro che non si può usare la forza per ordinare l’uso della forza, pena un regresso all’infinito.

Ciò orienta l’analisi politico-sociale verso la questione della legittimità come fondamento del potere politico e delle sue forme, che nella classica analisi di We- ber si distinguono in tradizionale, carismatico e legale-razionale.

Anche nel pensiero sociologico, comunque, la distinzione tra potere e vio- lenza è netta: in generale, il potere è un’azione sulle azioni degli altri, che ne deter- mina/seleziona il campo di possibilità (che deve dunque sussistere); il potere è in sé è dunque diverso dal mero uso della forza (che esso implica, ma non necessa- riamente, e che in sé è piuttosto il fallimento che la realizzazione del potere); l’eser- cizio del potere presuppone (ad esempio per Luhmann) il condizionamento delle scelte altrui, ma non la loro soppressione. L’uso della forza implica cioè la rinuncia a orientare la selettività altrui, indicando, in certo senso, mancanza di potere; l’uso della forza implica l’assunzione dell’onere della selezione e della decisione (sotto tale profilo, la dissociazione luhmanniana di potere e coercizione è analoga alla critica foucaultiana del “potere repressivo”).

È chiaro comunque che per pensare la fenomenologia del potere occorre allontanarsi dalla TSR, che discendendo dal paradigma neoclassico ha particolari difficoltà a spiegarla; nelle condizioni ideali di concorrenza perfetta e di contratti completi, non c’è relazione di potere, nessuno coarta la volontà di un altro, c’è co- operazione nello scambio. In un mercato concorrenziale, lo scambio non è un eser- cizio di potere, perché gli attori acquisiscono l’oggetto della loro scelta attraverso pratiche di cooperazione, e non contro la volontà dell’altro. Ciò richiede però che i

contratti siano completi.

La TSR naturalmente riconosce che, a differenza dello scambio, in politica vigono rapporti gerarchici basati sull’autorità, ma tende a spiegarli come ratifiche di transazioni volte ad incrementare il benessere (per cui alla base c’è sempre uno scambio). Questa visione è particolarmente incompatibile con la visione del potere come cristallizzazione di lotte per il dominio (di cui diritto e istituzioni sarebbero le maschere), come nell’influente paradigma foucaultiano.

III

La stessa difficoltà della TSR affiora riguardo al problema dell’identità, an- ch’esso oggi come visto cruciale, e variamente intrecciato con quello del potere.

È significativo che alle origini dell’economia neoclassica Wicksteed definis- se l’economia una scienza “non-tuistica” (ovvero caratterizzata da rapporti anoni- mi e spersonalizzati). Essa lascia l’identità anticipatamente fuori della porta.

Alla base invece di quello che, al di là delle differenze, possiamo chiamare il “paradigma identitario”, c’è la convinzione che l’agire sociale e politico non sia spiegabile a partire dall’azione individuale (e che dunque l’azione collettiva non è la mera aggregazione di azioni individuali). I gruppi organizzati (movimenti, istituzioni, stati, partiti ecc.) sono in lotta per la sopravvivenza, la supremazia, il riconoscimento; in essi, l’agire del singolo non è spiegabile senza riferimento alle finalità del gruppo. Si potrebbe dire che l’identità collettiva è una proprietà emergen-

te di un complesso di interazioni tra individui.

Possiamo schematizzare come segue la differenza tra il paradigma della scelta razionale e quello identitario:

TSR: considera interazioni contingenti e volatili

Identità: considera formazioni stabili, con forte identificazione TSR: si basa su tempi brevi, su interazioni limitate nel tempo

Identità: si basa su identificazioni attraverso tempi lunghi, memoria storica, miti di fondazione

TSR: sottolinea la routine e le condizioni normali

Identità: accentua le discontinuità, le crisi, le situazioni d’eccezione.

L’esigenza identitaria si colloca comunque oltre l’orizzonte dello scambio, sia essa proiettata verso consumi espressivi, beni posizionali (il potere ne è un ti- pico esempio), desiderio di riconoscimento (dunque sempre oltre l’economia del “non-tuismo”).

IV

Può essere allora conclusivamente utile riassumere quali sembrano essere i limiti “categoriali” della TSR. Almeno alcune delle principali nozioni della teoria neoclassica appaiono oggi particolarmente in difficoltà:

equilibrio (prevalgono invece oggi schemi evolutivi, adattativi e di social learning)

l’omogeneità dei processi di decisione (accanto al calcolo razionale sono oggi

sottolineati fattori emozionali e schemi culturali)

l’insignificanza delle preferenze (ruolo importante, invece, accanto ai vantaggi

materiali, dei vantaggi simbolici)

la concezione atomistica dell’interazione (che trascura la rilevanza del contesto

sociale e delle strutture di rete)

la centralità della decisione (l’attenzione si orienta oggi anche verso altri aspet-

ti, come la formazione delle credenze, il ruolo della fiducia, della reputazione - dunque in genere del “capitale sociale”)

l’inessenzialità dell’apprendimento (selezione “naturale” anziché “culturale”,

la quale sembra oggi al centro di un nuovo e diversificato interesse).

Un problema particolare, cui mette conto almeno accennare, è che il più au- torevole paradigma nelle relazioni internazionali, e cioè il (neo-)realismo politico, ponendo al centro lo Stato e l’anarchia internazionale, ridelinea un paradigma che presenta affinità con quelle dell’utilitarismo e dell’economia neo-classica (attori monadici, autointeressati, agonismo market-like, equilibrio classico). A partire da qui si sono appuntate contro di esso le critiche del costruttivismo e l’ipotesi di una costituzione “dinamica” (attraverso interazione e apprendimento) dell’identità e degli interessi degli Stati.

Non è comunque solo il riduzionismo economicista che occorre rimuovere per pensare adeguatamente l’identità.

Se pensiamo in primo luogo alle scienze sociali, il prevalere per un lungo periodo di paradigmi “oggettivistici” (affermanti cioè il primato delle “strutture”, come il marxismo, o lo strutturalismo) tendeva inevitabilmente a porre in secon- do piano tutto ciò che si collega alla sfera della soggettività, ivi incluso il bisogno d’identità.

Sul piano filosofico, l’eredità novecentesca sembra poi compendiabile, al- meno nella tradizione continentale, in una messa in discussione dei paradigmi tradizionali dell’identità, dopo Nietzsche e Heidegger, verso quella che potremmo forse in generale chiamare una “decostruzione” dell’identità, nella quale sembra- no impegnate molte tendenze del pensiero contemporaneo.

V

Non è naturalmente possibile qui indicare in modo articolato come, oltre i limiti della TSR e dello statalismo “classico”, sia possibile pensare i rapporti tra potere e identità in uno scenario epocale nuovo e ancora indefinito.

Mi limito a suggerire la centralità della nozione di lotta per il riconoscimento. L’approccio che propongo lega la costruzione dell’identità alla reciprocità del rico-

noscimento. L’idea (derivante da Hegel e oggi ripresa nel pensiero sociale da più

parti, ad esempio Honneth e Pizzorno) è che la trasparenza del contesto di vita nel quale agiamo è essenziale per il consolidamento della nostra identità. Abbiamo bisogno di una trama di interazioni sociali in cui sia possibile essere riconosciuti

da altri che noi stessi riconosciamo. È questa omogeneità della cerchia di riconosci-

mento che costituisce il nucleo dell’identità collettiva, ed è per difendere questa che ci mobilitiamo, ingaggiando se necessario un conflitto, che è però in tal caso finalizzato a preservare un piano d’intesa, di reciprocità, di eguaglianza. È questa dimensione del conflitto - volta a preservare una parità - che viene mancata da tut- te le teorie che insistono sul momento strategico dell’azione (come la rational choice

theory) e che rischiano perciò di non riuscire a cogliere la complessità dell’intera-

zione sociale e, parallelamente, la diversa fenomenologia del conflitto.

A partire dalla nozione di riconoscimento (e di lotta per il riconoscimento) si può invece attivare forse una riflessione capace di cogliere il senso dei conflitti identitari della nostra epoca, incrociando le tradizioni delle scienze sociali e della filosofia.

Questo approccio all’identità è dunque dinamico ed evolutivo (ed è in tal senso affine all’interazionismo simbolico e ai processi di social learning).

Si può misurare la prospettiva della “lotta per il riconoscimento” esaminan- do quella che potremmo indicare come la parzialità categoriale delle nozioni di “potere” e “scambio”. Mentre infatti la relazione contrattuale è simmetrica ma non

costitutiva, quella di potere è costitutiva ma asimmetrica.

Tuttavia, nell’asimmetria della relazione di potere c’è una tensione, derivan- te dal fatto che il potere presume comunque che l’altro, su cui viene esercitato, sia egli stesso un soggetto, e venga riconosciuto come tale.

Sia Foucault che Luhmann devono ammettere che la natura relazionale del potere implica la possibilità del rifiuto/resistenza, il che presuppone appunto che l’altro, l’oggetto del potere, sia riconosciuto come soggetto.

Foucault costantemente suggerisce che la relazione di potere presuppone la libertà del soggetto sul quale il potere viene esercitato. Il potere non è infatti violenza: piuttosto, scrive ne Il soggetto e il potere, “una relazione di potere può soltanto essere articolata sulla base di due elementi che le sono indispensabili per essere propriamente una relazione di potere: che l’“altro” (colui sul quale viene esercitato il potere) sia interamente riconosciuto e conservato fino all’estremo come soggetto che agisce; e che, di fronte ad una relazione di potere, tutto un campo di

risposte, di azioni, di reazioni, di effetti e possibili invenzioni, possa essere aper- to”. Sembra perciò che la stabilizzazione dei rapporti di potere, senza la quale difficilmente parrebbe possibile pensare una società, contenga al suo interno una negazione dell’essenza profonda dei rapporti di potere stessi, che di per sé tendo- no all’agonismo, dunque non a ridurre in servitù, ma ad incitare, fomentare, pro- vocare perennemente la lotta, eccitando la resistenza, la contrapposizione, in una dialettica irriducibile di potere e libertà.

La relazione di riconoscimento è allora forse più fondamentale di quella legata allo scambio o al dominio. Essa è, assieme, costitutiva e simmetrica, nella reci- procità del riconoscimento, sebbene generatrice di una tensione fondamentale che mira a ridurla al puro dominio.

La reciprocità del riconoscimento non è infatti mai pacifica. La lotta che si genera attorno al riconoscimento è piuttosto in perpetua oscillazione tra l’esigenza dell’affermazione di sé, che mira a ridurre l’altro a oggetto, e il riconoscimento del- la soggettualità dell’altro.

La dialettica del riconoscimento, la sua natura conflittuale ci portano ancora a Hegel, che per primo ne indicò il carattere fondativo del legame sociale. Hegel però sottolineò con forza che l’emergere del riconoscimento reciproco presuppone che la lotta sia condotta fino all’estremo, che essa sia lotta per la vita o per la morte, che l’esperienza in altri termini della finitezza sia compiuta in modo radicale.

Solo l’esperienza della finitezza limita il senso d’onnipotenza della pura affermazione di sé, moderandolo nel riconoscimento dell’altro.

Solo in quest’esperienza della morte si ha il riconoscimento; in esso, dice Hegel, v’è il diritto nella sua immediatezza (cioè prima che si realizzi in norme e istituzioni).

Resta naturalmente aperto e problematico come possa oggi configurarsi, tra soggetti individuali e collettivi, un riconoscimento eguale (e ancor più problemati- co in quali istituzioni possa oggettivarsi).

Da Hegel ci deriva comunque la suggestione, che nella tensione tra il pote- re e la morte si costituiscano originariamente l’identità e il diritto - ed è questa la connessione che qui suggerisco.

Nel documento Identità battesimale (pagine 190-197)