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VITTORIO CAPUZZA

Nel documento Identità battesimale (pagine 47-53)

L’identità del “protagonista“

VITTORIO CAPUZZA

Su un piano meramente antropologico, capita spesso che quel che noi cre- diamo come una “verità” è, a ben vedere, una “convenzione”; così, una pluralità di verità possono essere i risultati di diverse opinioni che assumono rilevanza es- sendo condivise da più individui, e quindi, in un certo qual senso, concordate. Se lette su un piano sociale, in questa categoria dell’opinione dominante (così la chiama Pascal: cfr. Leopardi, Zibaldone, p. 329) rientrano a pieno titolo diverse nostre “ve- rità”, quali sono, ad esempio, la legge, i costumi, la tradizione; vi rientra perfino l’identità di ciascuno.

Non v’è dubbio che la parola “identità” già reca in sé l’idea di una tensione: riuscire a far coincidere nella qualificazione che ognuno di noi come persona ha riconosciuta nel contesto in cui vive e opera, con quello che ognuno di noi sa di essere. In altre parole, l’identità della persona è un giudizio e difficilmente può essere “identico” a ciò per cui essa è tale e non un’altra; e le definizioni possono es- sere molte, diversissime, relative, determinate da condizioni soggettive dell’altro, da circostanze di luogo, di tempo, di cultura. Per questo, il rischio è che l’identità di una persona può divenire una “verità” relativizzata dall’opinione.

Se la crescita interiore e la formazione della persona sono tali da garantirle una giusta visione interiore e una sufficiente padronanza dei propri stati psicolo- gici ed emozionali, lo sforzo sarà teso a vivere coerentemente con il proprio essere, a prescindere dal giudizio altrui, e in ultima analisi a proporre la sua identità in modo da renderla sempre più assimilata nel contesto in cui si agisce. E così si può parlare di “identità” fra ciò che siamo e ciò che di noi giunge agli altri. Quando, invece, la nostra identità dipende dalla “conformazione” a coloro che la giudicano, allora portiamo una “maschera”, l’unica attraverso la quale possiamo essere capiti, perché solo con essa possiamo parlare (per-sonas).

Siamo, spesso, quello che gli altri vedono e credono di noi. Allora, ognuno per affermare l’identità fra ciò che appare agli altri e ciò che crede di sé, ogni volta “combatte”, si adopera in una sorta di gara, sperando che alla fine si accorgano di lui e lo riconoscano così come egli desidera. In questo tentativo di affermazione può anche esserci una dolosa o colposa azione del singolo, che prova a “vendere” un’immagine di sé falsata, non rispondente alla realtà; e forse risiede in questo il motivo per il quale siamo, almeno all’inizio, accolti dagli altri con una certa dose

di scetticismo o di malizia o di indifferenza.

Vista da un’altra visuale, questa antitetica posizione fra noi e gli altri sus- sistente in relazione all’affermazione della “nostra” (nel senso che riguarda noi stessi) verità, è testimoniata proprio dal fatto che l’azione di giudicare tenta un’o- perazione di “separazione”, scollando l’identità fra il nostro essere e quell’apparire rovesciatoci addosso dagli altri. La voce greca “krìno” indica una elezione e quindi propriamente significa separare, dividere; “e’krìno” ha valore di “esser tra due” e quindi con la scelta viene rifiutata una parte. Allora, l’opinione altrui è già in par- tenza il polo opposto della singola identità.

Se vista in questa componente di contesa fra l’opinione degli altri e la vi- sione che abbiamo di noi stessi, allora la parola “identità” indica la tensione verso una coincidenza fra il nostro essere e il nostro apparire, postulando così un altro significato e un’altra parola: “protagonista”; non è un caso, perciò, che per “prota- gonista” oggi intendiamo, in via estensiva, anche il ruolo primario che il singolo conduce nella vita civile (così, ad es., in L. Doninelli, sub voce “protagonista”, in

Vocabolario Treccani).

Tale termine reca in sé l’idea della primizia e l’azione del combattimento. La radice greca “pro” significa “avanti”, da cui deriva “pròteros”, che ha il valore del “prius” latino; “proos” significa “il primo”, e ancora: “pròtten” equivale a “stare davanti, in preferenza”; “pròsso” e “pòrro”: stare innanzi grandemente; “ptrooteìov” indica l’autorità e il suo primato.

Il sostantivo “agoònisma”, che è il secondo termine che compone la parola “protagonisteès”, richiama più significati: quello di combattimento, di contesa nel senso anche fisico; ma rappresenta, secondo Tucidide, anche il premio conquistato con la lotta (e se si vuole, ai nostri fini, il premio della lotta è proprio la “identità” che tentiamo di garantirci all’esterno, nella società), o anche l’oggetto stesso della gara competitiva; ha valore anche di contesa o lite giudiziaria (così Lisia e Antifon- te), che in un certo senso, è il luogo in cui le parti antagoniste, sublimando la vio- lenza nel diritto, combattono con gli strumenti normativi per tentare di far imporre dall’autorità - che sta innanzi, “pròsso” - all’altro la propria “opinione”, che diviene così “verità” una volta scelta, preferita (“krìno”) dal giudice.

Il termine “agoònisma”, però, sta a significare storicamente anche un’altra realtà, della quale parla Aristotele, cioè quella della “preparazione scenica”, e an- che in questo senso con chiare assonanze con la predisposizione e i luoghi in cui avviene la lite giudiziaria.

Identità, dunque, richiama una contesa per affermarsi in quella coincidenza fra la visione di sé e quella operata dagli altri. Ma non tutti rispondiamo a questa tensione, preferendo rimanere circoscritti, per inerzia o per debolezza, nel giudizio altrui, oppure non riuscendo a calare nella realtà in cui siamo e agiamo la corret- ta visione di noi stessi. In questo senso, allora, non si può parlare di identità del “prot-agonista”, ma di “agoònisma” per affermare la propria identità. Invece, il protagonista è colui che riesce ad avere un ruolo principale, dinamico e incisivo,

anche se non necessariamente vincente, ma non per questo debole. Può, infatti, de- terminarsi l’affermazione della propria identità anche quando si è ingiustamente catalogati, ristretti in ambiti di giudizio alterati, miopi e parziali: si diventa prota- gonisti anche quando si rimane in disparte, ma pur sempre restando sulla scena. Alla voce altrui che sferra giudizi e opinioni riduttive, fa eco di risposta la presenza silente di chi è giudicato e che finisce per affermare se stesso solo restando lì.

Non è forse protagonista Mattia Pascal quando tra “l’ansiosa rabbia” e la “rabbiosa ansia” non si cura più se gli altri lo riconoscano “prima di scendere e appena sceso a Miragno”?

Infatti, la sua presenza è continuo motivo di interrogativo, che non dimi- nuisce nemmeno con il trascorrere del tempo, ma che anzi lo rende sempre più protagonista; la sua identità è nell’accettare di “non essere più” quel che invero è. Nel personaggio pirandelliano, l’identità, che ex se indica coincidenza, si costruisce in una disgiunzione, estesa fino al fatto di non essere più quel che realmente si è, a causa delle circostanze, dell’ignoranza e delle formalità (fra le quali anche la legge, che impone “una” verità). Perciò quel nuovo personaggio, proiezione di una realtà materiale e che come tale va oltre la materialità stessa, diviene un protagonista, anzi diviene un protagonista senza identità o la cui identità è nel non averne alcu- na. Intanto, essendo protagonista, nonostante sua moglie sia divenuta lecitamente la moglie di Pomino e nel cimitero di Miragno vi fosse una lapide recante il proprio nome, “qualche curioso” lo segue da lontano e alla domanda “Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?”, il protagonista risponde: “Eh, caro mio…Io sono il fu Mattia Pascal”.

L’arte e specialmente il teatro si basano sul protagonista; autore e attore del copione si incontrano nell’identità di ciò che è stato concepito dal primo e che il secondo deve rappresentare (ruolo dell’arte è creare e, con ciò, rappresentare l’idea intuita); per questo gli uomini e ogni rappresentazione artistica non vanno mai misurati con lo stesso metro, perché, insegna Ungaretti (in Lezioni su Giacomo

Leopardi, Roma 1987, p. 52) “ciascuno presenta problemi critici che potranno essere

soltanto risolti colle indicazioni ch’egli stesso ci fornirà”: è la sua identità che, da protagonista, rappresenta se stessa nelle creazioni artistiche.

Talvolta, però, può accadere che l’autore diventi protagonista in ciò o grazie a ciò che ha rappresentato: Dante è la più importante testimonianza letteraria di questo sinolo tra vita ed arte: “La Divina Commedia - scrive ancora Leopardi nella pagina 4417 dello Zibaldone - non è che una lunga Lirica, dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti”. Oscar Wilde nella prefazione a Il ritratto di Dorian

Gray, con tratto sicuro, riconosce che “Rivelare l’arte e celare l’artista è la metà

dell’arte”.

L’arte ha un certo limite: quello di rincorrere il verosimile, quando la realtà non ne ha bisogno: in qualsiasi forma avvenga un fatto, quello è vero (si vedano le considerazioni di Pirandello in Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in appendice a Il fu Mattia Pascal). Ebbene, quand’anche un uomo non fosse protagonista nel ruolo sociale, fra i “suoi” personaggi uno almeno lo sarà, proiettando la vita reale

dell’autore e, spesso, divenendo voce per farsi ascoltare dagli altri, se ancora gli interessa. D’altra parte, sempre Wilde nella già citata prefazione scrive: “vizio e virtù sono per l’artista materiali dell’arte”, il pensiero e il linguaggio ne sono “gli strumenti”.

Può accadere che la “creatura” artistica cerchi nell’attore colui che, dopo l’autore, possa rappresentare al meglio la propria identità: e succede, stando alla metafora pirandelliana, che le immagini di Melisenda e di Jaufré Rudel, quando la luna attraverso le finestre del castello le illumina, si staccano dall’arazzo in cui sono rappresentate e vivono di vita propria per quegli istanti in cui la luce dona loro la vita, cioè l’identità.

In una sfera opposta, a-spaziale, si muove invece la riflessione di Carmelo Bene: il teatro è una non-rappresentazione classicamente intesa: l’attore, in scena, non ha già più l’identità che si porta con sé dalla nascita, e al contempo non ne rincorre nessun’altra. Resta solo la voce, anche nei gesti teatrali: la sua carnalità che risiede nel suono e nella vibrazione diventa un’identità quasi universale, perché prescinde dai soggetti dell’esperienza e si rivolge all’intuizione artistica delle ani- me capaci di udirne il richiamo.

Invece, nella ricerca pirandelliana, la vita diventa teatro e la scena è il luogo della rappresentazione reale. Sfugge così chi è il rappresentato e tutti i personaggi - reali e immaginari, cioè frutto di un’idea e, quindi, a ben vedere di un deside- rio - si mettono a cercare dapprima il proprio autore e infine il proprio attore. I personaggi (e quindi, in una certa misura, anche noi) rifiutano le sole parole del copione, desiderano tradurre in fatti e azioni quelle voci, un po’ come avviene a Lando Laurentano (Pirandello, I vecchi e i giovani), il quale “leggendo, era tratto irresistibilmente a tradurre in azione, in realtà viva quanto leggeva; e, se aveva per le mani un libro di storia, riprovava un sentimento indefinibile di pena angustiosa nel veder ridotta lì in parole quella che un giorno era stata vita, ridotto in dieci o venti righe di stampa, tutte allo stesso modo interlineate con ordine preciso, quello ch’era stato movimento scomposto, rimescolìo, tumulto. Buttava via il libro, con uno scatto di sdegno, e si metteva a passeggiare per la sala. Che strana impressio- ne gli facevano allora tutti quei libri nella prigione degli alti e ampii scaffali che coprivano da un capo all’altro le quattro pareti! (…) Composizioni artificiose, vita fissata, rappresa in forme immutabili, costruzioni logiche, architetture mentali, in- duzioni, deduzioni”.

Come non scorgere in questa dinamica, da un lato la tensione di portare noi stessi all’esterno (identità, significa tendere all’uguaglianza: tentare di far comba- ciare l’idea degli altri su di noi con quanto crediamo di noi stessi); d’altra parte, il combattimento per affermarci, per stare innanzi alle soggettività di giudizio, pro- vando a diventare protagonisti.

È sempre presente, però, una fallacia irreparabile anche nel protagonista: quanto sia relativo e si pieghi il giudizio all’animo di chi giudica, e in fin dei conti, quanto dipenda il riconoscimento dell’identità degli altri dalla nostra esperienza, lo sottolinea Leopardi in un pensiero, fra gli altri, annotato nello Zibaldone il 9 set-

tembre 1821, alle pagine 1660-1661: quanto l’uomo sia solito a giudicar di tutto as- solutamente, e quanto perciò s’inganni lo offre l’esempio del giovane che “deride, accusa, non concepisce, condanna i gusti, i pareri, i costumi, i desideri del vecchio, e viceversa. Tutti e due s’ingannano, e nel fatto loro hanno piena ragione”.

Bibliografia

Bene C., Opere, con l’Autografia di un ritratto, Classici Bompiani, Milano 1995. Doninelli L., voce Protagonista, Vocabolario Treccani, www.treccani.it. Lancelot C., Il giardino delle radici greche, Napoli 1782.

Leopardi G., Zibaldone, ed. a cura di R. Damiani, volumi III, I Meridiani, Mondadori, Milano 2014. Pirandello L., Tutti i romanzi, volumi II, ed. I Meridiani, Mondadori, Milano 1973.

Ungaretti G., Lezioni su Giacomo Leopardi, ed. Presidenza Consiglio dei Ministri, Roma 1987. Wilde O., Tutte le opere, Newton Compton Editori, Roma 2013.

Significati e contesti dell’identità singolare

Nel documento Identità battesimale (pagine 47-53)