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Dimensioni simboliche della maternità

Nel documento Identità battesimale (pagine 127-134)

L’identità materna

GABRIELLA GAMBINO

3. Dimensioni simboliche della maternità

Proprio in virtù della sua misteriosità e complessità, la maternità ha una dimensione simbolica ricchissima: essa è modello originario e archetipico tra i più densi dell’umanità. Icona di vita e di morte - da sempre compresenti nel mito della madre primigenia - fulcro dell’inarrestabile ciclo vitale13, nel patrimonio simbolico

delle religioni la divinità materna ha quasi sempre una precedenza cronologica sulla divinità maschile. Dante, infatti, giunge a dire a Maria “tu se’ colei che l’u- mana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”14. È

in particolare l’identificazione della madre con la terra a farsi strada tra i popoli primitivi, fino ad arrivare al Cantico dei Cantici di San Francesco d’Assisi15. Nella

tradizione cristiana, Maria, “terra non arabilis, quae fructum parturiit”16, è però anche

regina del Cielo (nel Faust di Goethe “l’eterno Elemento Femminile ci trae verso l’alto”17), Madre-Primordiale celeste (Ur- Mutter), garante dell’unione coniugale tra

cielo e terra18, custode del vivente, rivestita di un’aura sacrale19. Suggestivo è il

simbolismo contenuto nella parola ebraica Miriàm (Maria), che ha due emme, una d’esordio e una finale. Esse hanno due forme opposte: la emme finale (mem sofìt) è chiusa da ogni lato. Quella iniziale è gonfia e ha una apertura verso il basso: è una emme incinta20.

Ma la madre evoca anche la morte, la fine: ogni uomo nasce dalla terra e vi ritorna. Per questo in alcune culture e religioni la morte è pensata come regressus

della resurrezione.

Della complessità della figura materna si è interessata la psicanalisi del No- vecento21, che con Jung e Lacan è giunta a definirne l’ineluttabile valore simbolico

per ogni figlio: l’identità materna è la precondizione e il presupposto non soltanto fisico, ma anche psichico, del figlio e di ogni sua possibilità di differenziazione dell’Io. Madre “amorosa” e “terrificante” allo stesso tempo, causa e fondamen- to del complesso materno che - nei suoi risvolti positivi e negativi - condiziona l’esistenza di ogni bambino22. E che, per questo, chiede alla donna una profonda

consapevolezza di sé per mantenere in equilibrio il proprio essere sia donna che madre. Come ha indicato Lacan, l’esistenza del desiderio della donna come non tutto assorbito in quello della madre è la pre-condizione affinché il desiderio della madre possa davvero farsi generativo23.

In proposito, non si possono non rileggere le attualissime osservazioni di Jung su quel tipo di donna, nella quale rimane impresso un complesso materno che tende all’ipertrofia del femminile: “[Esso] comporta un rafforzamento di tutti gli istinti femminili, in primo luogo dell’istinto materno. L’aspetto negativo [di esso] è costituito dalla donna il cui unico scopo è la procreazione. Per lei l’uomo è palesemente un elemento accessorio, essenzialmente strumento di riproduzione [...]. Questo tipo di donna prima fa i figli, poi ai figli si aggrappa, non avendo all’in- fuori di essi alcuna raison d’être. [In lei] l’Eros si sviluppa unicamente come di- mensione materna [...] e si manifesta sempre come potenza: questa donna, infatti, malgrado tutta l’abnegazione di cui si dice capace, non è assolutamente in grado di compiere nessun sacrificio reale, ma impone il suo istinto materno con una volontà di potenza spesso sprezzante, che giunge fino all’annientamento della personalità sua e della vita stessa dei figli”24. Nel tipo individuato da Jung sembrano intrave-

dersi quei tratti femminili che il mercato e la cultura odierna della fecondazione artificiale cercano in tutti i modi di accentuare, trascurando la predisposizione di luoghi di accoglienza nei quali il dolore della sterilità biologica - e dunque del non poter essere madre - possa essere elaborato e trasceso in una capacità generativa più ampia.

Gli elementi che strutturano il simbolismo materno si possono rinvenire a partire dai significati nei quali si può declinare la parola Madre e che integrano l’identità materna:

1. Madre è il nome dell’Altro che non lascia che la vita cada nel vuoto, che tende le sue nude mani alla vita che viene al mondo e che, venendo al mondo, invoca il senso25. Le cure materne non sono mai anonime e generiche, non si pren-

dono cura della vita ma sempre di una vita, di quella vita: come direbbe Lacan, l’amore autentico è amore per l’uno, per il nome proprio del figlio.

2. Madre significa attesa: è l’esperienza radicale dell’attendere che un mi- stero si sviluppi e sul quale non si può esercitare alcun controllo né alcuna forma di padronanza. È l’attesa di un’alterità che ha in sé una trascendenza destinata a cambiare il mondo. “La madre attende chi già porta con sé, senza sapere chi è e senza sapere com’è, senza averlo mai visto prima”26. Essa custodisce quel frutto

anche a lei sconosciuto che le fa vivere l’esperienza di una prossimità straniera, che lei ospita. Sulla base di tale consapevolezza si sta facendo strada nel pensiero femminile più recente la proposta di una “filosofia della gravidanza” come ospita- lità del differente, dell’Altro27. In questo senso, l’attesa della madre è ciò che sfugge

per principio a una descrizione solo biologica della vita nel grembo. La maternità, infatti, non è solo un fatto della natura, ma un suo sconvolgimento, che prende le mosse dal desiderio e che vuole una conferma nelle parole. In tal senso, Luc Boltan- ski ha ben espresso quello che oggi è il processo di sviluppo della consapevolezza della maternità nella donna e della singolarità/unicità del suo bambino, quando dapprima dona al figlio la vita con il concepimento (il figlio della carne) e poi deve

donargli la possibilità di venire al mondo scegliendo quella maternità, verbalizzan-

do - con il parlare del figlio - la decisione della maternità: facendola traslare, cioè, dal piano del dialogo intimo e privato al piano della comunicazione familiare, so- ciale e pubblica (il figlio della parola).28 È interessante ricordare che nell’Antico Te-

stamento, le matriarche come Sara, Rachele e Rebecca sono madri sterili, che pur tuttavia generano dall’incontro con la Parola, il Verbo di Dio29.

Peraltro, la nascita non conclude l’evento dell’attesa: con la venuta al mondo del proprio figlio, la madre sa che dovrà attendere ancora, che le sue cure avranno bisogno di tempo e che in questo tempo ella incontrerà la dimensione irreversibile della perdita. La madre, cioè, è “ospitalità senza proprietà”, esattamente come il padre è “responsabilità senza proprietà”. Nella modernità, peraltro, la percezione del figlio come proprio non definisce affatto la maternità autentica, ma solo una sua declinazione patologica. La madre, invece, quella del desiderio, dovrebbe sempre sublimare e contrastare la madre possessiva, quella del godimento, affinché il fi- glio possa conquistare la sua autonomia e lei lo possa consegnare al mondo30.

3. Madre è il Volto dell’Altro, quel volto grazie al quale il bambino può specchiarsi, vedere se stesso e riconoscere la propria identità. Il volto materno funziona come uno specchio capace di svelare la natura dialettica del processo di umanizzazione della vita. La teoria di Lacan dello “stadio dello specchio” spie- ga come l’identità del soggetto non sorga affatto dallo sviluppo progressivo di potenzialità innate, ma dipende dalla mediazione dello sguardo di un Altro, che conferma nel bambino il sentimento di identità e di unità del proprio corpo e della propria psiche. È la madre il primo volto capace di unificare quel “corpo in fram- menti” (Lacan) che il bambino percepisce inizialmente come sconosciuto, leso, af- famato, dolorante, privo di autonomia, incapace di accedere alla parola. Un volto, quello materno, che custodisce in sé il volto del mondo, che permette al bambino di riconoscere la propria vita e la realtà intorno a sé e lo fa accedere al mondo. In tal senso, l’inespressività, l’assenza o la chiusura del volto della madre chiudono al bambino il volto del mondo, il senso e il desiderio del suo esserci e l’amabilità della sua stessa vita, determinando in lui un’angoscia profonda31.

4. Madre è linguaggio del corpo. Il bambino accede al simbolico attraver- so il linguaggio fisico materno: una lingua fatta non solo di suoni, ma di carne, emozioni, gesti, segni, bisbigli e corpo che introducono il figlio al linguaggio e alla consapevolezza di sé (Lacan definisce il linguaggio fisico lalangue).

5. Madre è nutrimento. Col proprio seno la madre non solo nutre il figlio, ma gli offre un segno del suo amore. Il soddisfacimento del bisogno primario di essere nutriti deve poter coincidere col riconoscimento del desiderio della madre a cui piace nutrire il proprio figlio. Il seno è segno di questo desiderio, che permette al bambino di essere riconosciuto come soggetto e suscita in lui i sentimenti più arcaici che legano l’individuo alla famiglia32. Per questo la sostituzione del ruolo

materno, che oggi non viene proposta solo come un rimedio ad una mancanza casuale, ma come assenza strutturale (si pensi alla doppia figura maschile nella ge- nitorialità omosessuale) andrebbe seriamente pensata alla luce delle conseguenze che può avere sulla soggettività dei bambini.

6. La madre rappresenta per il bambino l’esperienza della presenza, ma an- che dell’assenza. Il racconto freudiano del gioco del rocchetto del piccolo Ernst nella sua stanza - che viene lasciato solo dalla madre e che trasferisce sul rocchetto legato ad un filo la posizione attiva di chi decide i tempi della sua apparizione e sparizione - esprime la potenza del simbolo. Il bambino può giocare solo grazie ad una madre che sa essere anche assente, e che, in tal modo, gli rende possibile di mobilitare le sue risorse, senza rimanere attaccata al figlio. L’esperienza dell’assen- za non viene in questo caso dal padre - il cui compito è quello di separare il bambi- no dall’onnipotenza materna - ma viene generata direttamente dal gesto materno. Lasciare che il figlio faccia esperienza dell’assenza è coessenziale - tanto quanto la sua presenza - alla sua identità. E si inscrive perfettamente in una identità materna che è capace di non-essere-tutta-madre: per lei l’esistenza del figlio non esaurisce il mondo e il suo desiderio può muoversi in una direzione diversa rispetto al desi- derio del figlio che la vorrebbe tutta per sé.

7. Madre è possibilità di salvezza. Sul piano psichico, il desiderio della don- na che non si esaurisce in quello della madre è ciò che segna la discontinuità sim- bolica tra la donna e la madre, che costituisce una via di salvezza per il bambino e per la madre stessa. La cultura patriarcale ha tentato per secoli di confinare quel che appariva come l’eccesso della femminilità nella maternità, sublimandola come sacrificio di sé. Ma la cura del bambino non esaurisce il desiderio della madre, che già la prepara al tempo successivo della separazione33.

8. La maternità ha, infatti, in sé la necessità della perdita: il dono al figlio della sua libertà, sacrificando ogni proprietà su di lui. È la trascendenza del figlio che sancisce la morte del genitore (Hegel), e che viene sublimata nel racconto bi- blico di Isacco, la cui madre - Sara - muore proprio mentre il figlio viene sciolto dai lacci che lo stringevano come agnello sacrificale. Ciò è ancor più evidente nella figura cristiana di Maria, che porta in grembo la più sublime cifra della trascen- denza e del sacrificio.

Alla luce di questa analisi, diventa complesso comprendere il senso della ri- mozione del simbolismo materno che si sta verificando nella post-modernità. Una delle cause di questo fenomeno va senz’altro imputata alla legittimazione giuridi- ca, morale e sociale dell’aborto, consolidatasi a partire dal processo di legalizza- zione dell’interruzione volontaria di gravidanza. La contraddizione di senso tra la

generatività della donna e l’aborto non è mai stata ritenuta sanabile nell’inconscio collettivo, tanto che non esiste una elaborazione simbolica dell’aborto volontario nell’esperienza femminile34. E questa mancanza ha senza alcun dubbio generato

una prima frattura nell’identità materna.

Va anche considerato che la crisi della maternità, che storicamente è da farsi risalire alla scomparsa del modello familiare patriarcale, alla divisione dei ruoli endo-familiari e alla rivoluzione sessuale, l’ha resa di fatto disponibile, rendendo di difficile comprensione la sua carica simbolica35. Se nella società patriarcale, infatti,

l’identità femminile era ridotta a quella materna, nella post-modernità l’organizza- zione pratica della vita sociale non favorisce in nessun modo l’integrazione feconda tra la donna e la madre, generando versioni patologiche della maternità: “non più quella tradizionale [...] che divora il proprio frutto, che non lascia andare la propria creatura, ma quella ipermoderna della madre che vive i figli come un handicap alla propria affermazione sociale”36.

Peraltro il progresso biomedico e le trasformazioni sociali e culturali hanno prodotto nell’immaginario femminile nuove possibilità e nuove configurazioni di genitorialità, conducendo le donne alla sublimazione del desiderio e all’assunzio- ne della responsabilità della scelta. Il confronto delle donne con una nuova idea di maternità, caratterizzata dal controllo della fecondità e dalla possibilità di inter- venire medicalmente su di essa attraverso la procreazione assistita, le pone al co- spetto di scelte un tempo impensabili. Scelte, che le costringono a confrontarsi con nuovi fantasmi, che possono condurre anche a forti vissuti depressivi e a conflitti interiori37. Nella maternità contemporanea, infatti, la decisione di generare non è

più finalizzata a garantire la sopravvivenza della società e della stirpe familiare, ma a garantire la propria sopravvivenza di fronte all’idea della morte, intuita come evento personale irrinunciabile.

È, dunque, la ricchezza simbolica della figura materna a rendere delicata la crisi che la maternità sembra vivere nella società contemporanea e che si mani- festa anche “fisicamente”, da un lato, nei problemi legati al ciclo mestruale, nella crescente sterilità, nella crisi del desiderio di procreazione, nel disperato ricorso alle biotecnologie riproduttive per assecondare il principio della volontà procre- ativa, e dall’altro, nell’aumento delle depressioni puerperali, nell’elevato numero degli aborti volontari e nei parti indotti38. “La maternità è divenuta, alla fine del

XX secolo, quello che era stata la sessualità nella seconda metà dell’Ottocento: un luogo di conflitti non dicibili né pensabili”39. Slegata dal suo contesto simbolico, ci

si accontenta di offrire una soluzione medica o tecnologica ad ogni sintomo, che, messo a tacere, imbavaglia ogni interiore conflitto. E che induce la donna a pensare la propria generatività non come una possibilità, ma come un potere, colmo di am- bivalenze profonde. Riconoscendo se stessa come arbitra delle sue facoltà generati- ve, la donna si sente in diritto di modulare la generatività secondo le innumerevoli forme rese possibili dalle tecniche di fecondazione artificiale e di controllo della qualità dei figli (diagnosi prenatale pre-impianto e post-impianto), inclusa la pos- sibilità ormai non lontana di poter rimuovere l’esperienza stessa della gravidanza con l’utero artificiale40.

In tal senso, togliendo alle donne la dimensione specifica e non surrogabile della loro sessualità, viene rimossa la naturale generatività dell’identità femminile, che, a partire dal corpo, viene ridotta a luogo di manifestazioni ludiche ed affettive, nella prospettiva di poter affermare la propria identità anche solo come gender. La frattura fra desiderio di maternità e desiderio sessuale amoroso, che nasce natural- mente dall’incontro con l’altro sesso, ma del quale ora si può fare a meno, non re- sta, tuttavia, privo di effetti nella differenziazione e nella comprensione simbolica della funzione materna rispetto a quella paterna41.

L’assenza della presenza carnale della madre che la società contemporanea ha ormai reso possibile legittimando ogni successo della tecnica e programmando figli destinati a nascere da corpi che dovranno restare anonimi (con la gestazione per altri), o da uteri artificiali (robot), sradica ogni possibilità del simbolico, cercan- do invano di simulare una presenza che non c’è più o che non c’è mai stata.

Il vero problema, peraltro, è che mentre il simbolico presuppone la presen- za, il simulato presuppone l’assenza, la mancanza. Il cambiamento a cui la concezione della maternità sembra andare incontro si riflette infatti nell’impossibilità di ra- dicare il materno in quell’orizzonte simbolico che serve all’umanità per generare la propria identità. La procreazione, che per secoli ha proceduto secondo moduli immutabili, è stata stravolta dapprima dalla contraccezione, che l’ha separata dal- la fecondità, e poi dalle tecniche di fecondazione artificiale che l’hanno dissociata dalla sessualità42. Il problema è che senza il richiamo a sessualità e fecondità non

c’è possibilità di lavorare su quei complessi e tabù, che la psicanalisi pone a fon- damento della nostra maturità. Senza il simbolo resta il vuoto: non solo la madre è simbolo, infatti, ma il simbolo è a sua volta madre, custodia, grembo e seno a cui nutrirsi. “Penso che il male sia il meno di niente e che il meno di niente si ha quando c’è reale ma non c’è il simbolico. Questa situazione corrisponde a quella creatura che si trova distaccata dalla madre e non riesce a ritrovare il luogo comu- ne originario che aveva con lei”43.

Se è vero che l’identità materna è strutturalmente relazionale (si diventa madre a seguito di una relazione con l’altro sesso e si avvia una relazione col pro- prio figlio), è innegabile che la donna, nel momento in cui diviene madre, si pone al centro di una relazione triadica (madre-padre-figlio) potenzialmente espansiva nella sua carica simbolica, capace di coinvolgere altri soggetti familiari. Non solo l’identità materna, infatti, ma a partire dalla generazione dei figli, ciascuna identi- tà familiare ha un significato simbolico destinato a contribuire alla strutturazione dell’io di ogni individuo umano44. In proposito, la normatività antropologica costi-

tuita dalle relazioni familiari originarie tra madre, padre e figlio studiate dalla psi- canalisi del Novecento fornisce alcune indicazioni preziose45, quantomeno rispetto

all’ineludibilità di queste figure, capaci di imprimersi profondamente nella psiche di ogni individuo sessualmente maturo. È pur vero, inoltre, che ciò vale non solo per le figure genitoriali rispetto ai figli, ma ancor prima per la relazione uomo-don- na che presiede alla generazione della prole. In particolare, l’identità materna ha strutturalmente bisogno dell’identità paterna incarnata in un uomo per prendere forma e potersi esprimere in tutta la sua generatività. Nella trasmissione della vita,

infatti, uomo e donna generano l’uno attraverso l’altra: proprio in virtù di questa simmetria il figlio non può mai essere posseduto in maniera totalizzante dall’uno o dall’altra, né può essere ridotto a proiezione simbolica e onnipotente del proprio sé.

La madre, infatti, per suo programma simbolico, indipendente dall’indole personale, accoglie, nutre, appaga il bisogno. Dunque, non lo frustra quel biso- gno. Fatica, invece, a limitarlo, a inibirlo, a dirottarlo: compito, quest’ultimo, che l’ordine simbolico attribuisce al padre, in assenza del quale si impedisce nel figlio la formazione dell’autostima - che nasce proprio dalla consapevolezza del limite: proveniamo da qualcuno che non ci ha interpellati nel farci venire al mondo, per questo non siamo onnipotenti, ma siamo un valore - e insieme il possesso di un proprio posto nel mondo46. Il padre, dunque, è figura del limite e di direzione, che

rende autenticamente generativa la madre, figura di soddisfacimento del bisogno e dell’attaccamento.

Peraltro, nella società di oggi, nella quale il legame amoroso da cui il figlio scaturisce non solo è annullato, ma distingue e separa la donna dalla madre, è an- zitutto l’identità materna a risentirne. La donna rischia infatti di farsi tutta madre o tutta donna, perdendo quel riferimento essenziale nell’uomo-padre che la aiuta a distinguere simbolicamente i suoi ruoli. Se la Legge del padre impedisce alla madre di divorare nelle sue fauci il proprio figlio, è sempre la figura maschile che impedisce alla donna di pensarsi solo madre in maniera totalizzante, come un ostacolo alla propria individualità, vivendo nel rifiuto la propria maternità. Pen- sare di poterne fare a meno nell’immaginario collettivo e personale, sradicando la famiglia dalla presenza del maschile o del femminile, è quantomeno mistificatorio

Nel documento Identità battesimale (pagine 127-134)