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L’identità come nodo e la funzione paterna

Nel documento Identità battesimale (pagine 43-47)

Ogni patologia psichica tocca quindi l’identità, c’entra con l’identità perché è legata al modo in cui il soggetto vive tenendo più o meno conto della realtà con cui è in rapporto di dipendenza. Dipendenza da che cosa? Dalla sua struttura, e cioè dal reale, dal simbolico che è la condizione della sua esistenza (ex-sistenza) come soggetto e che lo costituisce come parlante, e dall’immagine di sé, che lo situa nel mondo visibile assegnandogli dei confini e gli permette di riconoscersi negli altri simili e di essere da loro riconosciuto. Sono i tre registri dell’esperienza che Lacan ha individuato e chiamato Reale, Simbolico, Immaginario: la singolare identità concreta di ogni soggetto uno, risulta dal modo in cui egli annoda la molteplicità di questi tre registri. Sono i registri che organizzano la realtà in quanto simbolizzata, umanizzata, resa abitabile per il soggetto e riconoscibile da lui come non aliena, dunque corrispondente alla sua identità. Sono i registri della complessa struttura del soggetto umano che questi, nel lavoro di identità in cui si riassume tutta la sto- ria dei suoi rapporti col reale, a partire dal suo sviluppo, dalla sua formazione, fino poi alla sua vita sociale, si trova a dover annodare.

Se è ben vero, come si è visto, che la psicoanalisi ha documentato che la questione dell’identità è la questione centrale e fondamentale del soggetto umano, tuttavia è anche vero che l’identità non è, in quanto questione riassuntiva della soggettività, un concetto specifico, particolare, dell’esperienza e della teoria psico- analitica. Infatti “identità” non è un concetto psicoanalitico, almeno non specifi-

camente psicoanalitico. Il concetto psicoanalitico che più risponde della tematica dell’identità è il concetto di identificazione.

In psicoanalisi e nella clinica psicoanalitica non si dice mai che il soggetto ha una certa identità, si dice casomai che ha una certa identificazione: e con questo si intende dire che l’identificazione di cui si parla non esaurisce la questione dell’i- dentità per quel soggetto. C’è una logica in questo: se l’identità nell’essere umano non può essere considerata come il set unitario di patterns di funzionamento di base secondo i quali l’individuo vive la sua vita, ma se è resa incompleta per opera del fattore essenziale e fondamentale del vivente umano che è il parlare, il logos come ambiente, mediatore e perfino stoffa di ogni relazione con la realtà e con se stessi, è logico pensare, e constatare, che l’individuo umano possa ritrovare di vol- ta in volta qualcosa della sua identità identificandosi, cioè attraverso identificazioni, operazioni nelle quali egli si fa identico a qualcosa d’altro, ad un altro che, nel caso della propria immagine allo specchio, può essere perfino se stesso.

Le identificazioni sono tutte modi di legame, con gli altri, con la realtà, con se stessi.

Esse non sono solo modi, sono anche modelli di legame, hanno un valore di sostegno e di modello, e non solo nel loro versante ideale, che è quello ovviamente più visibile, che è quello proposto all’imitazione diretta da parte del soggetto, al quale si propone appunto di conformarsi a queste forme ideali attraverso i mo- delli che per lui possono diventare importanti. Ma se questo bastasse a risolvere il problema dell’identità, non avremmo dovuto fare tutte le distinzioni che abbiamo fatto. Il problema è che non tutto è imitabile, non tutto è acquisibile per imitazione: l’imitazione svolge certamente un ruolo di introduzione del soggetto alla questio- ne che dovrebbe risolversi con una certa identificazione. Ma quando l’identità da assumere consiste in una posizione che il soggetto deve assumere in atto, che deve mettere in atto in certi incontri col reale, unendo il suo Ideale dell’Io col suo deside- rio, lì c’è un passo che il soggetto può compiere soltanto se ha potuto assumere la logica inconscia che anima il suo modello, ben aldilà del supporto che l’imitazione gli può dare.

Nella clinica psicoanalitica questo lo si è verificato specialmente nel rappor- to del soggetto con la realtà sessuale - anche se vale per tutte le tappe in cui al sog- getto è chiesto di agire assumendosi un’iniziativa e una responsabilità che solo lui può metterci, oltre il punto fino a cui gli altri possono appoggiarlo e “dirgli come fare”. Per questo davanti alla soglia dell’atto sessuale il soggetto si accorge e sente che nessuna preparazione, nessun sapere e nessuna imitazione/identificazione di cui si fa forte basta ad accompagnarlo e sostenerlo sul punto decisivo, che solo l’assunzione di un desiderio deciso può sostenerlo in quel punto. Analogamente è ciò che accade quando il soggetto supera qualche tappa, qualche soglia simbolica importante (esame di maturità, di laurea, concorso di assunzione al lavoro, diven- ta padre o madre, il servizio militare, ecc.) e si inoltra nel terreno reale degli atti nei quali potrà contare solo sulle risorse che avrà tratto dalle sue vicissitudini identi- tarie, oltre ogni riferimento a un modello imitabile. E infatti la clinica attesta che è

spesso nel momento di avanzarsi su quel terreno, superata una tappa, che nel sog- getto si produce una formazione patologica, angoscia, sintomo, crisi o altro che sia. Nell’assunzione da parte del soggetto del proprio sesso giocano certamen- te una serie di identificazioni, come Freud ha mostrato, e tuttavia la nozione di identificazione è insufficiente a spiegarla: infatti, che cosa significa, per esempio,

identificazione al padre? Non un’imitazione, perché qualunque aspetto del padre che

possa essere imitato non c’entra con l’essenziale della sua funzione. La sua funzio- ne è qualcosa di invisibile, che risulta dal complesso nodo tra desideri che legano concretamente quel padre, quella madre e quel bambino. Lacan, che ha lavorato per decenni sul nesso tra la sessualità e la funzione paterna (a partire da Freud), è arrivato da un lato a parlare non più di identificazione sessuale, ma di un più com- plesso processo di sessuazione; e dall’altro lato ha mantenuto il ruolo decisivo della funzione paterna nella vicenda dell’identità come nodo o annodamento della com- plessa realtà soggettiva, qualificando in modo nuovo la funzione paterna come funzione che dà il nome. E in effetti anche in logica, almeno secondo Saul Kripke, un nome proprio è sempre identico a se stesso in qualunque discorso sia pronunciato: per questo possiamo pensare che sia il principale supporto per l’identità, pensata come nodo.

Non è questo il luogo per dettagliare e sviluppare queste tematiche: le ho citate per avvalorare l’idea che l’identità consiste in un modo di tenere insieme i legami che strutturano la vita e l’esistenza di ogni soggetto singolare, e che le funzioni “famigliari” (materna e paterna) hanno un ruolo fondamentale e critico a questo livello.

Per questo, quando accade nel reale qualcosa che mette alla prova questi legami e in qualche punto li rompe o li allenta, questo rimette in moto il lavoro di identità del soggetto: e le formazioni sintomatiche che segnalano che questo lavo- ro è in corso, sono ciò che chiamiamo patologie. Come ha detto Freud una volta per tutte (parlando dei deliri): “ciò che a noi sembra la malattia, sono in realtà i tentativi di guarigione” che il soggetto mette in atto. Questo resta sempre vero, e conviene sempre averlo in mente, se siamo interessati ad aiutare il soggetto in questo lavoro.

Perché se è vero in qualche modo che l’identità è una condizione della pa- tologia, è ancora più vero che essa ne è il rimedio.

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Nel documento Identità battesimale (pagine 43-47)