3.3. Le relazioni sociali nell'accademia neoliberale
3.3.1. Chi sono i colleghi dei ricercatori precari?
Nella traccia di intervista erano state inserite due domande volte a interrogare i ricercatori e le ricercatrici precarie rispetto alla loro definizione del concetto di “collega”. La prima chiedeva in modo diretto chi, dal loro punto di vista, considerassero come colleghi. La seconda, più generale, chiedeva se questi pensassero che la precarietà del ricercatore avesse un significato particolare o se, differentemente, questa avesse qualcosa in comune con quella esperita in altri mercati del lavoro. Se, rispetto alla prima, gran parte degli intervistati e delle intervistate hanno fornito delle risposte tendenzialmente confuse che mostravano una certa difficoltà ad articolare un ragionamento preciso su questa tematica, per quanto riguarda la seconda i soggetti hanno proposto una lettura trasversalmente coerente che fa riferimento anche ad alcune teorizzazioni che abbiamo proposto nel capitolo iniziale. In ogni caso, l'analisi trasversale delle risposte fornite a questi due interrogativi ha permesso di sviluppare alcune definizioni emerse direttamente dal materiale empirico a disposizione.
Da questo punto di vista, dunque, emergono tre definizioni differenti del significato che la precarietà accademica assume in relazione alle forme organizzative dei mercati del lavoro contemporanei. Innanzitutto, alcuni fanno riferimento all'idea che la precarietà sia una condizione che accomuna tutti i soggetti che intrattengono relazioni lavorative nel contesto del neoliberismo, rimandando alla definizione di precariato proposta da Guy Standing (2015). In secondo luogo, molti si riconoscono nella definizione di cognitariato che si lega all'emergere dell'economia della conoscenza e delle forme organizzative del lavoro in epoca contemporanea (Fumagalli 2017). Infine, la totalità dei soggetti hanno elaborato delle riflessioni sulle specificità che innervano le caratteristiche del personale accademico. Importante sottolineare come, dal punto di vista analitico, le definizioni proposte non appaiano reciprocamente escludenti ma, al contrario, sembrino integrarsi e mescolarsi sostanzialmente in tutte le narrazioni degli intervistati.
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Da un punto di vista più complessivo, dunque, le persone intervistate si confrontano con il tema della precarietà assumendolo come elemento paradigmatico che caratterizza le biografie professionali ed esistenziali della composizione maggioritaria del mercato del lavoro contemporaneo. In questo senso, i ricercatori precari riconoscono di avere in comune con la gran parte dei lavoratori contemporanei una dimensione contrattuale segmentata e una scarsa capacità di immaginare futuri possibili e futuri probabili. Gli elementi che più frequentemente vengono evocati per affermare e spiegare questa condizione condivisa si riferiscono da un lato alla dimensione esistenziale della precarietà come elemento che genera un'incertezza che accompagna le esperienze biografiche delle soggettività contemporanee, dall'altro a come sia invece l'impossibilità di costruire alleanze, personali e politiche, all'interno dei propri spazi lavorativi l'elemento che accomuna i ricercatori precari con le molteplici forme con cui la flessibilità oggi si presenta nel mercato del lavoro globale.
"Certo, ha in comune una matrice che è molto presente dentro al mercato del lavoro mi viene da dire non più atipico ma normale, almeno in Italia, che è quella di una condizione di lavoro fortemente segmentata, che frammenta, impedisce di percepirsi come un corpo lavorante comune. Una condizione che tende a separare, a gerarchizzare anche dentro allo stesso lavoro, allo stesso lavoro precario. Cioè nel senso che io comunque mi sento di avere, come dire, di attraversare, di vivere tutta quella condizione di assenza di diritti, di incapacità di organizzare delle possibili forme di rivendicazione comune, anche la difficoltà stessa di costruire legami dentro il lavoro, dentro l'organizzazione del lavoro che caratterizza la gran parte dei lavori nel mercato, la gran parte dei lavori ora nel mercato del lavoro insomma. Si, non c'è dubbio, non c'è dubbio." (Intervista a GIUSEPPE)
"Secondo me la precarietà accademica non è diversa dagli altri tipi di precarietà. Ecco, leggevo questo report della ricerca in cui la parte in cui c'è l'introduzione alle storie raccolte si diceva a un certo punto "In realtà raccontare la precarietà è come raccontare diverse storie per in realtà raccontarne una sola che ha che fare con l'incertezza, con l'instabilità, sia nella vita sia nel lavoro". Questo credo che sia un tratto comune non solo ai precari accademici, ai precari dell'università, ma a tutti i precari. Poi ci sono, magari modi diversi di affrontarla." (Intervista a IVANA)
La capacità di riconoscere la precarietà come elemento costituente delle forme di vita contemporanee appare maggiormente presente in quelle soggettività che hanno sviluppato i primi passi nel mercato accademico negli anni precedenti all'approvazione della riforma Gelmini, contesto in cui le aspettative di stabilizzazione si sono radicalmente ridimensionate vista la messa in esaurimento della figura del ricercatore a tempo indeterminato. Da questo punto di vista, le narrazioni di questi soggetti sembrano nutrire ancora qualche speranza rivolta all'aspettativa di un lavoro a tempo indeterminato all'interno dell'accademia, questione che invece appare in casi sporadici nei racconti dei ricercatori anagraficamente più giovani.
"Avrei bisogno semplicemente di avere un lavoro strutturato, insomma torna sempre lì la questione. Me ne rendo conto che sia anche un'aspettativa non futuristica, perché potrebbe benissimo essere che per la mia generazione, in questo contesto, il destino sia la precarietà a vita. Però non ce la faccio del tutto ad accettarla questa faccenda qua. Forse perché sono anche un po' anagraficamente in mezzo, potrebbe anche essere. Cioè comunque quelli che sono entrati un po' prima, cinque sei anni prima di me avevano di fronte già una carriera un po' diversa. Cioè, non so come dire, a me sembra di essere stato proprio in mezzo al cambio di paradigma. E quindi di restare poi spappolati in mezzo a questa roba." (Intervista a MATTIA)
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Se, dunque, i soggetti che hanno sviluppato risposte approfondite rispetto alle domande in questione si riconoscono come soggetti che non vivono un'esperienza troppo differente da tutte le forme di precarietà che accompagnano i mercati del lavoro contemporanei, nel proseguire i loro ragionamenti tutti riconoscono nel lavoro cognitivo e culturale i segmenti produttivi dell'economia della conoscenza maggiormente paragonabili alle esperienze lavorative ed esistenziali dei ricercatori precari. In questo senso, sono molteplici gli elementi che vengono posti come spiegazione di questa condivisione di status e condizione.
Innanzitutto, un elemento a mio avviso particolarmente rilevante si riferisce al fatto che, nonostante la svalutazione simbolica e materiale che i lavori che prevedono un processo formativo di alto livello e un processo lavorativo sostanzialmente intellettuale hanno subito in epoca neoliberale, secondo le narrazioni degli intervistati l'avere la fortuna di svolgere una professione che risponde alle proprie passioni e che è coerente con il proprio progetto formativo e lavorativo è una dimensione che in qualche modo costringe i soggetti a dover accettare forme di precarietà lavorativa ed esistenziale ancor più accentuate di quei soggetti che vivono la precarietà solo in termini di intermittenza contrattuale e meno dal punto di vista identitario e del riconoscimento.
"Cioè all'interno del macro mondo della precarietà, ovviamente il ricercatore è più affine a quegli elementi di precarietà di lavoro intellettuale/lavoro relazionale che magari altre forme di precarietà non hanno. Perché è precario pure un operaio che viene assunto con un contratto precario, ma che questa componente magari non l'ha, e quindi con quel tipo di mondo vedo un po' più facile l'aggancio, diciamo così. Anche se chiaramente sono dei mondi che poi hanno dalla loro anche la fascinazione che ancora ha di basarsi tantissimo sull'idea che sei una persona privilegiata perché stai facendo un lavoro molto qualificato, che è quello che vuole fare e che quindi in qualche modo la precarietà è come quello che devi pagare per poter fare questa cosa che vuoi e che quindi appunto ci accomuna anche in senso un po' negativo, ecco." (Intervista a CRISTINA)
Il tema della svalutazione dei lavori che prevedono alte qualifiche e alti livelli di formazione viene spesso evocato come un altro elemento che permette ai precari della ricerca di sviluppare processi di riconoscimento rispetto a quei mestieri che definiremo come lavoro cognitivo, relazionale e comunicativo (Fumagalli 2017; Morini 2010). Da questo punto di vista, sono molte le professioni che vengono indicate come assimilabili al lavoro di ricerca: il riferimento a quei lavori che erano un tempo organizzati a partire dagli ordini professionali ricorre molteplici volte nel corso delle differenti interviste, così come sono i lavoratori della cultura, dello spettacolo e del giornalismo a rappresentare le particolari soggettività in cui gli intervistati riconoscono elementi comuni alla loro condizione. Anche in questo caso, uno degli elementi che viene individuato come particolarmente compatibile con il loro portato esperienziale si riferisce maggiormente alla condizione del riconoscimento pubblico e materiale, piuttosto che alle specificità della pratica del lavoro quotidiano.
"Io penso che possiamo creare alleanze, ed è importante che riconosciamo i tratti comuni perché se no ci perdiamo, cioè perdiamo. Nel senso a volte penso che alcune rivendicazioni siano molto legate. Cioè
147 siano più legate, appunto se penso alle persone che conosco che lavorano nello spettacolo, alcune rivendicazioni sono veramente molto simili, e sono un intreccio di età, contesti di vita, scelte biografiche. Più quasi dello stare in accademia. Non so come dire. Poi ci sono delle violenze specifiche dell'università. Perché io mi sento di dirlo, di chiamarle violenze. Cioè che la questione delle pubblicazioni, cioè io penso che quella sia violenza tout court del sistema, di un'istituzione. Però delle condizioni di precarietà sono quasi più un intreccio di fattori che altro. Nelle università poi ci sono delle specificità, nello spettacolo ci sono delle specificità, però che hanno poi delle dimensioni di età, di contesti sociali, di scelte di vita, avere figli, non avere figli, cioè ci sono tutta una serie di cose che fanno si che in realtà possiamo creare più alleanze di quanto non pensiamo anche fuori, penso. Però non lo so, forse perché ho paura a rimanere sola in università. Perché se penso che tutto si risolve lì mi terrorizzo." (Intervista a ELISA)
"Quindi credo che ci siano sicuramente anche degli altri ambiti in cui si fa una vita simile, penso ad esempio al mondo appunto della comunicazione, del cosiddetto spettacolo, il mondo di chi scrive per la televisione, per il cinema. Cioè tutto questo ambito secondo me è abbastanza simile al nostro no? Per cui da un lato sei riconosciuto perché che ne so, hai scritto i testi per una trasmissione che ha avuto successo, tu hai successo. In realtà sei magari lo zerbino del presentatore che magari appunto guadagna milioni di euro però tu sei sostanzialmente sotto ricatto. Cioè, credo che ecco forse ci siano questi ambiti con i quali possiamo avvicinarci, con i quali possiamo riconoscerci in dinamiche simili. Non so, forse anche altre professioni, adesso probabilmente anche alcune professioni liberali che una volta avevano un certo tipo di riconoscimento adesso sicuramente il sistema ha svilito, forse depauperato anche questi ambiti. Non so, penso agli avvocati, o a questo tipo di professioni insomma. Non so, forse." (Intervista a VERONICA) "Anche persone che conosco, penso ai lavori più simili al mondo della cultura, comunque devi andare a bando, lavorare gratis per trovare un finanziamento che tendenzialmente viene ridotto, e cose di questo genere. Insomma, teatro, cultura, cinema, tutto funziona così. Giornalismo... sono, diciamo, una serie di ... ma anche nelle professioni poi no? Cioè, nel senso, tutta una serie di ambiti che prima erano di valore, tipo le professioni in un ambito di relativo privilegio, alta scolarizzazione eccetera, all'interno della società della conoscenza, in cui era prevista prima la scolarizzazione di massa e poi l'incremento delle capacità cognitive della forza lavoro, quindi cioè della formazione della forza lavoro per produrre ricchezza in un altro modello produttivo, che è quello attuale post-fordista, c'è stata una proletarizzazione di quello che prima era un'elite intellettuale." (Intervista a MARCO)
Se, come accennavamo in precedenza, i soggetti intervistati sono stati in grado di restituire in modo molto chiaro e approfondito il loro sguardo rispetto a temi generali come quelli legati alla precarietà come paradigma, o alle comunanze che questi riscontrano nei cosiddetti lavoratori cognitivi, non si può affermare lo stesso per quanto riguarda le differenti definizioni che questi hanno fornito del concetto di “collega”. In termini complessivi, le risposte sviluppate possono essere categorizzate a partire da due visioni differenti di questa definizione: la prima assume che i colleghi siano di fatto tutti i membri appartenenti a una determinata comunità scientifica organizzata a partire dalla propria disciplina di riferimento; la seconda invece si struttura a partire dalla comune condizione precaria che la maggior parte dei soggetti stava vivendo al momento dell'intervista.
Dal primo punto di vista, dunque, alcune persone condividono l'idea che è la prassi lavorativa, il tipo di saperi su cui ci si concentra e l'essere accomunati da un comune interesse di ricerca a determinare la concezione di collega che queste presentano. Il concetto di collega espresso da queste soggettività, dunque, esula dalle gerarchie contrattuali presenti nel mercato del lavoro accademico e si riferisce sostanzialmente all'impegno in un campo di studi condiviso.
148 "Allora, c'è la versione che è più immediata che sono le persone che sono più o meno nella mia condizione, altri assegnisti, o collaboratori, eccetera eccetera. Ma che definisco colleghi perché magari sono persone con le quali magari lavoro quotidianamente, però a questo punto definisco collega anche un professore associato. Voglio dire … si, mi viene un po' poi la cosa di dire: "va beh, collega lo dici tu", però si. Tendenzialmente a questo punto per me è chi lavora in dipartimento, e che fa la sua ricerca. Non è collega chi lavora in dipartimento negli uffici amministrativi, ma perché fa un'altra roba. Per cui diciamo che per me un collega. Insomma, chi svolge attività di ricerca o attività professionale, che spesso le cose si sovrappongono nel mio dipartimento." (Intervista a MATTIA)
"Va beh, tecnicamente i tuoi colleghi sono quelli che lavorano ... che fanno i ricercatori nel posto in cui tu fondamentalmente lavori. Questa penso sia la prima definizione tecnica, se mi parli di comunità scientifica ti do un'altra risposta. Allora sicuramente colleghi sono colleghi ad ogni livello e grado, quindi colleghi sono quelli che sono al mio livello, sono i professori, sono dai dottorandi in su diciamo, quelli che lavorano nel mio posto di lavoro. Per cui ovviamente ho scambi di diverso tipo. [...].Una definizione più larga sarebbero quelli con cui ... cioè questi, più quelli con cui ho lavorato prima. E quelli con cui ho comunque degli scambi. Quindi per esempio i miei colleghi con cui ho scritto il libro, che stanno due in Portogallo, uno in Spagna, ci vediamo la prossima volta con uno dei due fra un paio di settimane in Italia, con gli altri insieme ad Atene ad un convegno ad Agosto. Quindi non lavoriamo per la stessa istituzione, ma abbiamo avuto un'idea insieme, l'abbiamo sviluppata insieme, la abbiamo portata avanti, abbiamo scritto una cosa, ne stiamo scrivendo altre." (Intervista a STEFANIA)
É importante sottolineare come la complessità che i soggetti hanno incontrato nel fornire una definizione precisa del concetto di collega sia determinata in termini strutturali dalla segmentazione radicale con cui vengono intrattenuti i rapporti contrattuali all'interno del comparto accademico e di ricerca. In molti casi, infatti, i soggetti condividono l'idea che anche chi non ha formalmente posto in essere un qualche tipo di rapporto professionale formalizzato può essere considerato un collega. Da questo punto di vista, dunque, è maggiormente comprensibile anche la differente concezione che ognuno dei ricercatori ha costruito delle relazioni sociali tra pari e tra soggetti collocati in modo diverso nelle gerarchie di questo specifico mercato del lavoro.
"Ma qua siamo nel mondo dell'informalità. Cioè, nel senso, se tu hai a che fare con il mondo della ricerca devi assumere che c'è un gioco tra il formale e l'informale estremamente scivoloso. No, no, cioè nel senso che tu percepisci colleghi di lavoro, chi ha avuto una traiettoria dentro al mondo universitario e che credibilmente sta continuando a collaborare a prescindere dal fatto che abbia un contratto formale o informale, cioè che abbia un contratto formale. Cioè, nel senso che, come dire, dentro all'università non è in alcun modo il contratto, differentemente da altre organizzazioni del lavoro, a sanzionare il fatto che lui è un tuo collega, assolutamente no. Questa roba qua soprattutto in Italia, assolutamente no." (Intervista a GIUSEPPE)
"Anche gli indipendent scholar, per esempio. Adesso va molto, proprio perché la struttura universitaria è in crisi, ci sono tantissimi scholars, che sono persone con un PhD. che fanno ricerca indipendente. Quindi io considero miei colleghi tutti quelli che hanno un dottorato, ecco, mettiamola così. Quindi, io conosco anche persone che hanno un dottorato e che lavorano a scuola, scuole medie e superiori, però li considero miei colleghi, perché la loro formazione è una formazione segnata dal dottorato, quindi per me diversa rispetto ad altre." (Intervista a SIMONA)
Se quelli che abbiamo fin qui condiviso sono punti di vista parziali e situati, la definizione di collega che accomuna maggiormente le ricostruzioni dei precari della ricerca intervistati è quella che fa riferimento a una
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comune condizione contrattuale e lavorativa. In questo senso, la maggior parte degli intervistati individua in chi svolge attività di ricerca con un rapporto precario il proprio collega ed è proprio questa dimensione a risultare prioritaria anche aldilà delle discipline a cui i soggetti afferiscono. Importante condividere l'idea, che in molti hanno dichiarato autonomamente, di come il personale strutturato non possa essere considerato un collega in quanto la condizione materiale che questo vive è profondamente diversa da quella dei ricercatori precari. Questa questione costringe a riflettere su quali alleanze e quali dinamiche ricompositive sia possibile immaginare dal punto di vista politico all'interno delle strutture accademiche italiane. In questo senso, la segmentazione con cui oggi è strutturato il mercato del lavoro della ricerca costringe a ripensare in modo radicalmente innovativo eventuali prese di posizione critiche che mettano in discussione gli assetti su cui si organizza oggi l'università neoliberale.
"Si, sono quelli più vicini alla tua condizione. Gli ordinari no, sono proprio su un altro pianeta. Penso che non si pongono ... magari fanno anche un lavoro simile quelli che sono bravi e continuano a lavorare, però non sono nelle mie condizioni materiali e quindi non sono esattamente definibili come miei colleghi. Io un collega penso che sia un mio pari, uno che è nella mia condizione, quindi non di sicuro quelli." (Intervista a MARCO)
"Se la devo vedere in senso più lato, cioè se lo dovessi dire in maniera molto classista, quindi considererei i miei colleghi tutte quelle altre persone che si adoperano per avere un qualsiasi tipo di ritorno economico all'interno del lavoro di ricerca. Quindi nel modo in cui è stata frammentata l'accademia da un po' di anni a questa parte faccio molta fatica a percepire come miei colleghi dal punto di vista lavorativo gli ordinari di cattedra, che posso considerare magari membri della mia comunità scientifica ma di certo non li considererei miei colleghi." (Intervista a GIORGIO)
"I miei colleghi? Mah, sicuramente gli altri ricercatori della mia disciplina, se vogliamo parlare di disciplina. Ma tutti gli altri, tutte le altre persone che si trovano nella mia stessa condizione. Cioè io ritengo un collega aldilà della tematica, chiunque viva la situazione in cui mi trovo io. Che è quella di un post dottorato, in cui si sono fatte tante esperienze e che è un po' in questo limbo. Questi qua sono i miei colleghi, poco importa che siano, che ne so, antropologi o che siano matematici. Quindi ci stanno tanti