• Non ci sono risultati.

La precarietà occupazionale nell'università italiana

1.4. Soggettività accademiche tra precarietà, passione e competizione

1.4.1. La precarietà occupazionale nell'università italiana

Come abbiamo fino a qui sostenuto, le istituzioni accademiche e di ricerca si presentano come luoghi in cui si elaborano e si condividono saperi, conoscenze e tecnologie. Tuttavia, sono spazi che si stanno trasformando sempre di più in relazione alla crescente pervasività dei modelli organizzativi business oriented improntati al new public managment (Waldby, Cooper 2015). In anni recenti, numerosi studi hanno evidenziato come la crisi finanziaria delle università, il blocco delle assunzioni e un mercato del lavoro interno fortemente segmentato e differenziato siano fenomeni comuni, con gradi e traiettorie differenti, a tutti i paesi a capitalismo avanzato e non solo (Roggero 2009). L'insieme di queste dinamiche hanno spinto le accademie globali a seguire le forme organizzative del settore privato con l'obiettivo di ottimizzare e massimizzare la produttività delle istituzioni universitarie nel contesto dell'economia neoliberale della conoscenza:

"In order to participate in the competition of 'global excellencÉ, academic institution are increasingly managed and financed in the spirit of an efficient organization (Symon et al. 2008) and therefore increasingly run like corporations (O'Connor 2014; Farnham 1999; Gouthro 2002). This trend has been described in term such as 'McUniversity' (Parker, Jary 1995), 'corporatÉ university' and 'academic capitalism (Slaughter, Leslie 2001)" (SteinÞórsdóttir, Heijstra, Einarsdóttir 2017, p. 560).

Concentrandoci sulla situazione italiana, sono state sviluppate diverse ricerche che ci mostrano in termini statistici quanto questi cambiamenti paradigmatici abbiano inciso nel trasformare le forme del mercato del lavoro accademico italiano. In Italia infatti, come abbiamo visto, dal 1990 in avanti si sono prodotte numerose riforme che hanno inciso in termini paradigmatici sulla struttura materiale delle università. Dalla riforma Ruberti, passando dalle riforme Berlinguer, Moratti e Gelmini, si è assistito ad un costante definanziamento e ad un progressivo smantellamento dell'assetto pubblico con cui fino a quel momento era stato organizzato questo specifico campo produttivo. Una recente indagine sui dottori di ricerca e i ricercatori post-dottorato sottolinea che il risultato più visibile nel guardare a queste modificazioni sta nello sviluppo di un processo di precarizzazione che ha coinvolto quei lavoratori della conoscenza coinvolti nella produzione

57

della ricerca universitaria39. Se, in termini complessivi, nel periodo 2008-2015 è verificabile una riduzione dei finanziamenti del 22,5% , sono i dati legati al reclutamento a mostrare in termini emblematici quali conseguenze ha portato il susseguirsi delle riforme sopracitate sulle biografie e sui percorsi professionali dei ricercatori universitari italiani. Nello stesso lasso di tempo, le posizioni bandite in Italia hanno subito una riduzione del 19%, addirittura del 38% nel Sud d’Italia. In base ai dati Eurostat, relativi al 2012, il numero totale dei dottorandi italiani era di 34.629, numero che collocava l’Italia al quinto posto tra i paesi europei, a lunga distanza da nazioni economicamente più sviluppate come la Francia, il Regno Unito e la Germania (Burgio 2014). Se poi rapportiamo il numero di dottorandi alla popolazione totale, l’Italia (con 0,6 dottorandi ogni 1.000 abitanti) scivola addirittura al terzultimo posto tra i paesi europei, superata persino da quelli fortemente provati dalla crisi economica come la Grecia (2,1 dottorandi ogni 1.000 abitanti), l’Irlanda (1,9 dottorandi) e il Portogallo (1,8 dottorandi).

É all'interno di questo contesto che la figura dell'"assegnista di ricerca" appare paradigmatica nel descrivere la complessiva destrutturazione delle traiettorie biografiche e lavorative dei precari della ricerca italiani. Secondo le stime, dei 15.300 assegnisti attivi nel 2013, oltre l’86,4% non continuerà a fare ricerca e il 10,2% uscirà dal mondo della ricerca dopo un contratto da RTDa (ricercatore a tempo determinato di tipo A), che prevede una durata di tre anni con un unico rinnovo possibile della durata di due anni. Ciò significa che entro i successivi tre anni, il 96,6% di questi assegnisti sarà espulso dal sistema universitario (Burgio 2014). La definizione giuridica di questa nuova forma contrattuale è stata istituita dalla legge 240/2010, meglio conosciuta come Riforma Gelmini. La misura adottata dall'allora governo Berlusconi ha definitivamente cancellato dal sistema universitario italiano la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendolo con una pletora di differenti rapporti giuridici tra le università e il personale reclutato ai fini di sviluppare attività di ricerca, i quali definiscono esperienze professionali segnate principalmente dalla non continuità lavorativa e da una complessiva dimensione precaria. In relazione al sistema di reclutamento delle università anglosassoni, l'assegnista di ricerca è paragonabile alla figura del Research Fellow, ovvero del Postdoctoral

Researcher. É possibile tuttavia individuare una differenza sostanziale, la quale colloca gli "assegnisti di

ricerca" italiani in una dimensione di maggiore vulnerabilità rispetto ai loro colleghi d'Oltremanica. Nel 2015, durante la discussione parlamentare che verteva sull'erogazione di una nuova forma di indennità di disoccupazione destinata ai lavoratori parasubordinati con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (DIS-COLL), negando la possibilità di accesso a questo benefit agli assegnisti di ricerca, è lo stesso ministero ad affermare che:

"In tale contesto, l'art. 22 (della legge 240/2010) individua negli "assegni di ricerca" una tipologia di rapporto del tutto peculiare, fortemente connotata da una componente "formativa" dell'assegnista (si pensi ai progetti di ricerca presentati dai candidati, selezionati e finanziati da parte del soggetto che eroga l'assegno. Proprio in ragione di ciò, peraltro, la norma non definisce in alcun modo le modalità di effettuazione dell'attività di ricerca, neanche in termini astrattamente sovrapponibili a quelle della

39

AA.VV., Quarta indagine annuale ADI su Dottorato e Post-Doc 2013, reperibile in http://www.dottorato.it/adi/notizie/658-quarta-indagine-annuale-adi-su-dottorato-e-post-doc

58 collaborazione coordinata e continuativa." (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, interpello N.31/2015)

É dunque la presa di posizione del governo rispetto alla possibilità di accedere ad una qualunque forma di indennità di disoccupazione per i ricercatori precari italiani a collocare questi soggetti in una dimensione liminare tra l'essere riconosciuti come lavoratori a tutti gli effetti o l'essere considerati studenti a vita. Rifiutare infatti la possibilità di accesso a qualsiasi forma di benefit a partire dal fatto che l'attività lavorativa dei soggetti al centro dell'analisi sia "fortemente connotata da una componente «formativa» dell'assegnista", di fatto definisce l'assegno di ricerca come l'ultimo step del percorso formativo dei ricercatori, anche se questo può prevedere fino a sei anni di rinnovi contrattuali consecutivi. Nonostante nel 2016 gli assegnisti e i dottorandi abbiano conquistato attraverso un'importante mobilitazione il diritto ad accedere al dispositivo welfaristico della DIS-COLL, questo punto mostra con una certa chiarezza gli elevati livelli di instabilità con cui i ricercatori universitari esperiscono la propria esperienza professionale40.