2.1. Saperi situati e sociologia riflessiva
2.1.1. Critica femminista e critica postcoloniale
Per comprendere in modo profondo la rottura epistemologica che ha messo in discussione l'idea di una scienza sociale oggettiva, egemone fino a quel momento all'interno del dibattito sociologico, è importante ripartire dall'emersione di due approcci metodologici differenti, che fanno riferimento da un lato alle novità
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rappresentate dagli studi femministi e dall'altro dal diffondersi delle critiche epistemologiche di matrice post- coloniale (Haraway 1991; Harding 1993; Said 1991; Jameson 1989). Sono stati questi due approcci teorici e metodologici infatti ad aver messo in discussione il posizionamento neutro e distaccato che il ricercatore doveva tentare di perseguire con una serie di strumenti e di prassi consolidate e codificate, criticando gli approcci oggettivistici a partire dalla constatazione che questi non si interrogavano su quali asimmetrie di potere si instaurassero tra chi si addentrava in un mondo sociale per studiarne le dinamiche e chi invece era oggetto della ricerca stessa. O, ancora, su quale relazione si instaurasse tra il ricercatore e il campo di ricerca scelto, a partire dal suo posizionamento e da quali spinte soggettive lo avessero indotto a scegliere quello specifico oggetto di studi.
In primo luogo, dunque, sono gli studi di stampo femminista ad aver prodotto una frattura epistemologica radicale con le metodologie che la ricerca sociale avevano assunto fino a quel momento. A partire dagli anni Settanta, una lunga schiera di studiose e ricercatrici, situate prevalentemente nel contesto anglo-americano, hanno avviato un dibattito che, nel corso degli anni e non senza aspri conflitti, ha generato quella che oggi viene definita e riconosciuta come "metodologia femminista" (Terragni 1998). Molti dei temi e delle critiche sviluppate dall'approccio femminista allo statuto dei saperi e alle pratiche connesse ai processi conoscitivi sono profondamente legate alle critiche dei modelli scientifici tradizionali, è importante sottolineare come nello sviluppo epistemologico di questi approcci il nesso tra le pratiche di ricerca e le pratiche politiche sia elemento sostanziale e determinante nel processo di critica alla presunta neutralità con cui la scienza si era fino a quel momento autorappresentata (Terragni 1998, Haraway 1991). É infatti vero che molte delle critiche femministe alla scienza e ai suoi presupposti nascono all'interno del movimento femminista globale che si andava sviluppando in quegli anni, con il proprio portato di pratiche innovative che determinavano una nuova concezione delle relazioni tra le donne (Melucci 1984; Ergas 1986, Held 1993, Reinharz 1983).
"Ma non è probabilmente al mondo accademico che dobbiamo guardare per vedere il sorgere della nuova critica femminista. É piuttosto al movimento sviluppatosi proprio in quegli anni, alle sue pratiche, in particolare l'autocoscienza, al nuovo modo di intendere le relazioni - personali e politiche - tra le donne. Le studiose che più avanti incontreremo sono spesso impegnate in quel movimento e vivono il conflitto di questa doppia appartenenza: rispetto al mondo tradizionale del sapere, con il suo apparato concettuale, i suoi metodi, le sue forme di potere, e al movimento delle donne, con la sua radicalità nella denuncia delle forme di oppressione e nella critica alle forme di omologazione e cooptazione al mondo maschile." (Terragni 1998, p. 129)
In termini complessivi, quella che viene definita metodologia femminista nasce e si struttura a partire dalla critica al concetto di obbiettività o neutralità con cui le scienze avevano fino a quel momento definito se stesse. Secondo questo filone di studi infatti, l'intero paradigma scientifico si era formato e strutturato a partire dalla visione maschile del mondo e della natura, naturalizzando una visione che, mentre si definiva oggettiva, escludeva le donne e le proprie attitudini dagli stretti recinti su cui si collocava la scienza positivista e causale (Harding 1993). Per quanto riguarda le scienze sociali, ad esempio, Kandall (1988) sottolinea come i padri fondatori della sociologia, come ad esempio i già citati Weber o Durkheim, siano "prigionieri del pensiero dominante del loro tempo, e della visione androcentrica del mondo" (Kandall 1988,
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p. ). Uno dei concetti cardine su cui le metodologie femministe si sono sviluppate è innanzitutto quello di esperienza (Santley, Wise 1983; Harding 1987). Secondo le ricercatrici e le studiose che si riconoscono in questi approcci, infatti, l'esperienza non riguarda solo ed esclusivamente l'oggetto di ricerca o nel caso delle scienze sociali l'esperienza degli individui al centro dell'indagine e delle relazioni sociali da questi strutturate, ma differentemente è un concetto che deve essere applicato anche alla ricercatrice sociale. Quest'ultima, entrando con tutto il suo corpo e la sua anima nel campo di indagine, invadendo le vite e gli spazi delle soggettività indagate, produce un azione sociale che, in sé, determinerà il senso, le propensioni e i significati del sapere prodotto attraverso questa prassi (Roberts 1981). Importante da questo punto di vista sottolineare come l'esperienza incorpori il portato emotivo del ricercatore, tema che è stato ripreso in anni recenti dai teorici dell'autoetnografia, i quali considerano le emozioni del ricercatore come elemento essenziale e determinante nei processi di ricerca e nella capacità della ricercatrice di comprendere i significati delle dinamiche sociali da questa indagate (Ellis, Bochner 1996; Goodal 1998). In secondo luogo, è l'imperativo del distacco con cui il ricercatore doveva approcciarsi all'oggetto di studio ad essere criticato da queste teorie. Il distacco, considerato prerequisito essenziale dagli approcci positivisti per ricavare dalla realtà sociale dati oggettivi, viene messo in discussione non solo perché impraticabile, dato che il ricercatore o la ricercatrice entra nel campo di ricerca con la propria esperienza e il proprio sistema di valori, ma anche perché viene considerato come un limite ai processi di costruzione di nuovi saperi e nuove conoscenze (Rubin, Rubin 1995; Reinharz 1983).
É qui, nell'emergere della metodologia femminista che un nuovo concetto di oggettività viene elaborato. Secondo Donna Haraway, infatti, "l'oggettività femminista significa molto semplicemente saperi situati" (Haraway 2018, p. 111). Attraverso la metafora della visione, come attributo corporeo dell'umano considerato dalla razionalità positivista come oggettivo, la studiosa statunitense insiste sul come anche il senso della vista si collochi all'interno di un corpo incarnato, con i suoi attributi biologici e sociali, i quali determineranno il significato e il senso dello sguardo che lo stesso corpo produce verso un oggetto specifico. In questo senso, l'obbiettività sarà tale in quanto lo sguardo prodotto è inevitabilmente parziale, scolpito nello sguardo particolare che la soggettività rivolge al mondo a partire dal proprio posizionamento e dal proprio sistema di valori (Haraway 2018; Dal Lago, De Biasi 2002). Perché una qualsiasi ricerca e analisi scientifica possa definirsi oggettiva, è necessario dunque che il soggetto che la performa si situi, si collochi ed espliciti che tipo di relazione si struttura tra se stesso e l'oggetto studiato. Posizionarsi, per Donna Haraway, significa dunque "prendere responsabilità per quelle pratiche che ci permettono di agire al meglio (Haraway 2018, p. 118). L'oggettività femminista, dunque, lungi dall'autorappresentarsi come capace di rispondere alle domande di oggettivazione delle teorie positiviste, pone il proprio accento sul concetto di parzialità: solo un sapere esplicitamente situato sarà in grado di produrre oggettività, la quale sarà sempre parziale e imperfetta.
"L'oggettività femminista ha a che fare con ubicazioni circoscritte e conoscenze situate, non con la trascendenza e la scissione soggetto-oggetto. [...]. La topografia della soggettività è multidimensionale; perciò la visione lo è altrettanto. Il sé di conoscenza è parziale in tutte le sue forme, è sempre cucito e
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Come sottolineato precedentemente, a fianco dell'imporsi dei movimenti femministi e delle conseguenti riformulazioni epistemologiche della relazione tra soggetto e oggetto all'interno dei processi di produzione della conoscenza, hanno avuto un ruolo altrettanto centrale in queste dinamiche gli studi post-coloniali emersi in relazione alle insorgenze che, dal dopo guerra in avanti, hanno di fatto messo fine alle dinamiche imperialiste e coloniali europee. Anche in questo caso, le riflessioni sui saperi e sulla scienza sono state elemento determinante nel definire un nuovo spazio di riflessione legato all'oggettività con cui venivano rappresentati i processi conoscitivi e i saperi prodotti. La critica in questo senso fondamentale è connessa all'idea dell'eurocentrismo, che mentre colonizzava militarmente gran parte dell'Africa e gran parte dei paesi asiatici, colonizzava e naturalizzava anche saperi e conoscenze parziali, rappresentandoli come oggettivi. Come sottolineato da Jameson, "se, secondo la massima di Croce, ogni storia è storia contemporanea, questo non significa che ogni storia sia la nostra storia contemporanea" (Jameson 1989, p. 18). Gli studi post- coloniali hanno avuto origine nel contesto britannico, come risultato e conseguenza dell'esaurirsi del colonialismo europeo, il quale ha comportato l'imporsi di un processo di migrazioni di massa che, dalle ex colonie liberate, ha portato milioni di persone africane e asiatiche a spostarsi in Europa e in particolare in Gran Bretagna (Bassi, Sirotti 2010). Sebbene già nel contesto coloniale alcuni studiosi avessero avviato questo filone di studi, uno fra tutti Frantz Fanon47, l'emergere di questo particolare approccio alla storia dell'uomo si presenta come il risultato dei processi di liberazione che le popolazioni indigene avevano attraversato nel corso dei decenni precedenti. Sebbene gli studi post-coloniali si presentino come un "bricolage interdisciplinare", è possibile individuare in modo parziale e non esaustivo, ma tuttavia utile alla ricostruzione epistemologica in essere, due differenti approcci epistemologici egemoni in queste traiettorie di studio e di ricerca (Di Piazza 2004).
Il primo approccio è legato alla produzione scientifica di Edward Said, il quale attraverso la pubblicazione del suo celebro testo Orientalismo (1991) analizza i modi e le forme con cui in Europa e nell'Occidente si è costruita un'immagine stereotipata del Medio Oriente. Attraverso un'analisi dettagliata di fonti storiche e scientifiche, ma anche artistiche e letterarie, lo studioso palestinese naturalizzato statunitense sostiene come quello sull'Orientalismo sia un ordine del discorso, di chiara matrice foucaultiana, utile da un lato a confermare la presunta e naturalizzata superiorità della cultura occidentale rispetto alla cultura mediorientale, dall'altro a produrre una inferiorizzazione naturalizzata delle popolazioni non europee (Di Piazza 2004). Secondo Bassi e Sirotti, infatti, l'approccio di Said sancisce il "fertile incontro tra gli studi post-coloniali e il
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Per un approfondimento del pensiero di Frantz Fanon si consiglia la lettura di Fanon Postcoloniale. I dannati della terra oggi (Mellino 2013).
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pensiero critico postmoderno e poststrutturalista, forgiatosi soprattutto nelle università inglesi e statunitensi sotto l’influenza della filosofia francese contemporanea” (Bassi, Sirotti 2010, p. 16).
Il secondo approccio, quello che più interessa il ragionamento proposto in questo paragrafo, fa riferimento alla produzione del pensiero decostruzionista, influenzato dai lavori di Jaques Derrida e rappresentato in modo particolarmente efficace nel testo Critica alla ragione postcoloniale (2004) di Gayatri Chakravorty Spivak. L'analisi della filosofa statunitense di origine bengalese si concentra nel mettere in relazione le dimensioni di razza e genere e nel tentare di comprendere le forme e le modalità con cui questi due fattori, al contempo biologici e socialmente costruiti, intervengano nelle soggettività dei colonizzati e ne determinino una sorta di auto-inferiorizzazione. Nello specifico, l'approccio proposto dalla pensatrice statunitense si propone di coniugare le critiche femministe con quelle post-coloniali, a partire dall'idea che queste due differenti epistemologie hanno la forza di “interrompere il discorso unitario dell’umanesimo eurocentrico” (Ellena 2010, p. 126). L'attenzione analitica di Spivak è rivolta alla decostruzione della concezione propria del femminismo occidentale di un femminile universale, sottolineando come questo nuovo meccanismo oggettivante finisse col bloccare le possibili eruzioni di un nuovo femminismo delle donne colonizzate e soprattutto toglieva nuovamente la voce a queste soggettività. La critica rivolta dalla Spivak al femminismo occidentale riconduce il ragionamento verso il tema dell'oggettività e della neutralità della scienza: concepire uno sguardo trascendentale e universale, come quello proposto dalla sociologia tradizionale o dal femminismo occidentale, occulta e mette a tacere le esperienze incarnate delle soggettività e mina la possibilità di conoscere a fondo l'oggetto di studi indagato. I movimenti di liberazione coloniale e i movimenti femministi hanno elaborato dunque una concezione del sapere e della conoscenza, dei modi di pensare il processo conoscitivo e il ruolo del ricercatore in relazione all'oggetto studiato in modo radicalmente innovativo. In questo senso, il presente lavoro di ricerca sostiene questi approcci e li fa propri, assumendo da un lato la parzialità e il punto di vista particolare che chi scrive ha rivolto e continua a rivolgere al campo di studi scelto, e dall'altro la natura potentemente politica che le scelte metodologiche ed epistemologiche rappresentano nel contesto della ricerca scientifica, soprattutto nel campo delle scienze umane e sociali. Per dirlo con Wacquant nell'introduzione al testo Risposte (1992) in cui il sociologo statunitense dialoga con Pierre Bourdieu:
“La sociologia è una scienza eminentemente politica in quanto profondamente coinvolta nelle strategie e nei meccanismi di dominio simbolico nei quali si trova essa stessa inserita. Per la natura stessa del suo oggetto e per la situazione di coloro che la praticano, la scienza sociale non può essere neutra, distaccata, apolitica.” (Bourdieu, Wacquant 1992, p. 38)
La nuova attenzione che questi due approcci hanno rivolto alla relazione che si instaura nella ricerca sociologica tra ricercatore e oggetto della ricerca è stata la scintilla che ha portato all'emergere del tema della riflessività nei differenti approcci metodologici sviluppati dalle scienze sociali da questo momento in avanti.
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