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Ingresso nel mercato del lavoro accademico e pre-socializzazione alla precarietà

3.1. Le diverse dimensioni della precarietà

3.1.1. Ingresso nel mercato del lavoro accademico e pre-socializzazione alla precarietà

In termini complessivi, gran parte dei soggetti intervistati ritrova nella possibilità di accedere a un corso di dottorato il primo momento di svolta che ha determinato la scelta, più o meno consapevole, di intraprendere il proprio percorso professionale all'interno del contesto lavorativo universitario e di ricerca. Da questo punto di vista, la scelta di sperimentarsi nel provare a fare un concorso di dottorato non si presenta come un momento in cui le soggettività provano a mettere in pratica un desiderio professionale o a rendere reale una vocazione maturata nel lungo periodo. Differentemente, questa sembra essere determinata da un'insieme di fattori che, intrecciandosi, ha portato i ricercatori intervistati a ritrovarsi inconsapevolmente in quello che viene trasversalmente considerato il primo momento in cui: si sperimentano le forme specifiche in cui si pratica oggi la ricerca scientifica, ci si confronta con forme più o meno radicali di precarietà e sfruttamento e, soprattutto, le forme organizzative dell'università neoliberale e le relazioni sociali che da queste discendono vengono vissute ed elaborate.

Come sottolineato, quello che la maggior parte dei soggetti affermano è che la scelta di intraprendere questo percorso nasce consustanzialmente al lavoro di tesi magistrale e al rapporto con il proprio supervisor. In molti casi, è lo stesso relatore a proporre ai soggetti la possibilità di affrontare un concorso di dottorato, in molti casi spiazzandoli e inducendoli a ragionare su una possibilità che loro stessi non avevano preso in considerazione.

"Per cui insomma, è una cosa che ho scoperto e che mi sono costruito io via via. Per cui alla fine non avevo assolutamente idea di arrivare a fare un dottorato. Neanche sapevo se devo dire la verità esattamente cosa fosse, se non che poi il grosso della mia preparazione, del mio avvicinamento è stato durante la tesi. C'ho lavorato tantissimo e il mio professore un certo punto mi chiama, mi ricordo, era ormai piena estate e mi dice "ma lei deve assolutamente fare domanda per il dottorato". E io gli ho detto "Non ci avevo mai pensato", risposta mia. A parte che non sapevo neanche bene cos'era, ma anche perché lui fino a pochi giorni prima mi diceva che la mia tesi non era nulla di che. Non so se era un suo modo anche per stimolarmi. Per cui così insomma, da quando me l'ha detto io nel frattempo mi ero decisamente innamorato della disciplina e mi era presa bene. Ho detto "si, decisamente, bene. Si lo voglio provare". Ed è andata. E sono qua. Quindi per una scoperta progressiva insomma, assolutamente non per un progetto consapevole." (Intervista a DARIO)

La scrittura della tesi di laurea, oltre a mettere in contatto per la prima volta quelli che nel corso degli anni diverranno ricercatori precari con il proprio professore - che in questo caso si presenta come primo

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selezionatore di chi potrebbe avere una maggiore propensione a svolgere una professione legata alla ricerca scientifica - è anche il momento in cui per la prima volta la gran parte dei soggetti intervistati scopre di "essere appassionata" a proseguire il proprio percorso di studi e, attraverso questa scoperta, di poter pensare di investire le proprie energie tentando di avviare un percorso professionale nel campo universitario. Questa dimensione della passione si presenta come elemento rintracciabile in tutte le storie raccolte attraverso l'intervista, dimostrando come il mestiere del ricercatore non sia semplicemente una professione, ma coinvolga l'intero portato emotivo e intimo del soggetto. Come vedremo, questo è uno degli elementi che maggiormente influisce nel determinare un senso di precarietà che supera i confini del mondo del lavoro per informare l'intera esperienza biografica dei soggetti.

"Però se dovessi re-immergermi oggettivamente, o almeno in maniera quanto più vicina alla realtà di quegli anni, io avevo una gran voglia di continuare a studiare. Cioè nel senso che c'avevo una gran voglia di continuare ad approfondire, di continuare a studiare, a imparare. A imparare più che altro. Per cui, ecco, non mi bastava quell'idea che era finita là l'università. Anche perché io l'ho fatta piuttosto velocemente. Non mi aspettavo che questo sarebbe diventato il mio lavoro fino ad oggi, questo no, non me lo aspettavo. Anche non mi aspettavo l'innesco di tutta una serie di dinamiche oltre alla passione dello studio. Cioè, questo passaggio, diciamo così, dalla passione per lo studio alla trasformazione di questo in una professione mi è un po' scappata di mano." (Intervista a ELEONORA)

"E poi c'è il fatto che comunque rispetto al produrre bicchieri e al produrre scatole, non puoi dire che sei superiore, però c'è qualcosa di diverso. Il fatto che tu con il tuo lavoro, dal punto di vista esistenziale, metti in gioco tutto te stesso nel tuo lavoro, a valutazione non ci metti il prodotto, ci metti la tua testa, la tua capacità di produrre discorso e quello forse è un po' più devastante." (Intervista a FABIO)

Solo in un caso, un intervistato assume la scelta del dottorato di ricerca semplicemente come una tattica salariale paragonandolo a qualsiasi altro tipo di lavoro che gli avrebbe fornito una continuità di reddito per un periodo di tre anni. É nella ricostruzione delle esperienze precedenti di questo soggetto che è possibile cogliere i meccanismi che hanno portato questa persona ad assumere un atteggiamento pragmatico e cinico rispetto al proprio lavoro. Infatti, nel suo stesso racconto egli afferma come il dottorato su cui si concentrava la sua testimonianza fosse la sua seconda esperienza in questo ambito, in quanto precedentemente aveva già affrontato un corso dottorale senza borsa che aveva determinato in lui una visione distaccata e tendenzialmente negativa del mercato del lavoro accademico e della professione del ricercatore.

"Per il modo in cui concepisco io la relazione con l'università fare un altro dottorato, quello in cui mi hanno dato la borsa, per me è equivalso assolutamente ad avere qualsiasi tipo di contratto temporaneo di tre anni. Io non ho una relazione con l'università con quell'investimento emotivo che sento nella gran parte dei miei colleghi. Per me è totalmente strumentale la relazione con l'università. I soldi che mi può dare l'università per fare un dottorato, come anche l'assegno di ricerca come quello che sto facendo adesso, che sono degli insegnamenti da mercenario, per me sono assolutamente uguali. Se mi consentono di portare avanti certe cose che ho in mente di fare non sono assolutamente interessato al modo in cui loro mi formalizzano, quindi il dottorato per quanto mi riguardava era un modo per avere dei fondi per andare avanti con delle idee che io avevo in testa." (Intervista a GIORGIO)

Un elemento a mio avviso particolarmente rilevante che emerge dalle interviste è legato in modo diretto alla scelta di intervistare e analizzare le esperienze di quei soggetti implicati nella ricerca scientifica unicamente

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nel campo delle scienze umane e sociali. In questo senso non sono rare le testimonianze che sottolineano come l'aver affrontato un percorso di studi universitario in discipline che non prevedevano uno sbocco lavorativo predefinito non lasciava particolari alternative per chi, nonostante l'assenza di processualità professionalizzanti, continuava a voler seguire la passione per i differenti approcci scientifici che aveva studiato e sviluppato nel proprio corso dei suoi studi. Se la questione della non professionalizzazione non è in nessun caso posta come elemento di recriminazione nei confronti delle forme con cui le diverse discipline che si occupano delle scienze umane e sociali vengono sviluppate nei contesti dell'insegnamento universitario, diversamente questo tema viene spesso evocato in relazione alle difficoltà esistenziali nel pensare a quali traiettorie professionali assumere una volta conseguita la laurea. L'unica alternativa che in più di un racconto viene riconosciuta come valida si riferisce alla possibilità di assumere un ruolo di insegnamento nelle scuole medie e superiori.

"Diciamo che la scelta è stata anche una valutazione delle possibilità che avevo. Perché io comunque mi sono laureato nella mia disciplina, che non è per nulla professionalizzante, e quindi le cose che avevo di fronte erano o fare la trafila per l'insegnamento nella scuola oppure provare a insistere provando a fare concorsi di dottorato e fare ricerca. Quindi in realtà è stato più una risposta al non saper bene che cosa fare. E io ho fatto tutto quest'anno in cui ho fatto diversi concorsi, ne ho fatti a manetta finché quello per cui mi hanno preso, nella mia disciplina, era l'ultimo che avevo deciso di fare perché ormai mi ero rotto le palle, perché comunque era stato un anno abbastanza frustrante, in cui stai appeso a delle cose che continui a seguire, non entrano, al tempo non lavoravo, mi mantenevano i miei, mi sentivo in difficoltà. Si, poi appunto mi piaceva studiare e la possibilità di essere pagato per continuare a studiare era la cosa principale." (Intervista a MARCO)

"Mah, io in realtà ho fatto questa scelta di fare il dottorato senza particolari aspettative. Nel senso che non mi sono proiettata molto in avanti, ho detto "faccio questo dottorato, poi si vedrà". Tra l'altro io al tempo ero iscritta anche alle GAE, le graduatorie ad esaurimento, e il dottorato era anche un punteggio in più per le graduatorie. Per cui non era una scelta particolarmente penalizzante. Ho pensato che potessero essere tre anni investiti in formazione, però non ho pensato "faccio una scelta di cui poi mi pentirò". Non so, non c'ho pensato molto. Volevo farlo e l'ho fatto." (Intervista a SILVIA)

Come già accennato, l'ultimo elemento che emerge in relazione all'ingresso in questo specifico mercato del lavoro mostra una prima differenza in relazione all'età anagrafica dei soggetti. In questo senso chi ha già affrontato un lungo percorso di precarietà accademica tendenzialmente restituisce l'idea che nel momento in cui ha scelto di fare un concorso di dottorato le prospettive lavorative all'interno e all'esterno dell'accademia erano ampie, quindi l’investimento in questo percorso professionale non si presentava come una scappatoia rispetto ad altre dimensioni del lavoro. Differentemente, l'esperienza dei soggetti che sono stati socializzati dal punto di vista del lavoro in anni recenti racconta di come la scelta di provare a intraprende un percorso lavorativo all'interno delle accademie non fosse unicamente legato al proprio desiderio e alle proprie passioni, ma che fosse determinata anche da un certo timore nell'approcciarsi al mercato del lavoro generalista, percepito come violento e non in grado di accogliere le competenze acquisite da questi soggetti nel corso del loro percorso formativo.

117 "Diciamo così, che da quando io ho iniziato l'università io ho percepito immediatamente, come una condizione di sufficiente privilegio e serenità il fatto di poter studiare e occuparmi di cose che mi interessavano. E da quel momento in poi io, come dire, ho avuto terrore all'idea di dover lavorare per un committente privato, entrare nel mercato del lavoro privato. Cioè, come dire, la cosa principale che mi ha spinto a stare all'università è stata piuttosto una sorta di scudo contro un possibile lavoro x, che non sapevo neanche bene, non ho mai neanche capito bene cosa sarei potuto andare a fare … cioè l'idea stessa di cercare lavoro mi faceva paura. Per cui mi sono orientato verso il lavoro di ricerca." (Intervista a GIUSEPPE)

Come vedremo, la stessa dimensione di privilegio che molti dei soggetti intervistati assegnano al lavoro di ricerca in relazione a un certo grado di autonomia nella gestione del tempo di lavoro, verrà messa in discussione nel momento in cui questa libertà nel gestire le proprie giornate lavorative si trasformerà nel corso del tempo nella consapevolezza che i tempi di lavoro e i tempi di vita sfumano, riproducendo dinamiche di domestication che contribuiscono a determinare la percezione di insicurezza che caratterizza quella che abbiamo definito come società della prestazione (Morini 2010; Chicchi, Simone 2017).

A questo punto è importante sottolineare alcuni aspetti che legano l'ingresso dei soggetti in questo specifico mercato del lavoro - riconosciuto a priori come instabile e non lineare - con i dispositivi governamentali che abbiamo descritto nel capitolo teorico. Da questo punto di vista, infatti, la dimensione della precarietà strutturale che accompagna le differenti forme con cui il lavoro di ricerca viene sviluppato nell'università neoliberale si pone come elemento che viene socializzato all'interno degli spazi accademici contestualmente alla diffusione di un'idea del lavoro di ricerca che deve strutturarsi in relazione alla capacità del soggetto di competere con tutti gli altri, assecondando gli standard di qualità che abbiamo precedentemente descritto. In questo senso, ho avuto l'occasione di osservare e attraversare un evento che dal punto di vista etnografico riesce a raccontare molto di come entrambe queste dinamiche disciplinanti agiscano nel soggetto. Il 7 Novembre 2018 ho partecipato alla presentazione del XXXIV ciclo di dottorato del dipartimento di Scienze della Formazione di Genova, struttura in cui io stesso sto concludendo il mio percorso dottorale. L'evento, a cui partecipavano tutti i dottorandi iscritti al corso in questione, era organizzato con l'idea di fornire ai neo dottorandi alcune informazioni relative da un lato, appunto, alla dimensione insieme globale e precaria in cui oggi si struttura il lavoro di ricerca, mentre dall'altro venivano fornite alcune indicazioni su quali fossero le migliori strategie per poter competere all'interno di questo specifico mercato del lavoro. Se da un lato dunque si presentava il mercato del lavoro di ricerca come particolarmente frammentato e precario, in cui la carenza di fondi determina una competizione radicale tra tutti quei soggetti che ambiscono a sviluppare una carriera accademica, dall'altro si cominciava a diffondere l'idea che per poter essere all'altezza di questa competizione radicale i neodottorandi avrebbero dovuto certamente assecondare gli imperativi legati alla massima produttività scientifica, rivolgendo l'attenzione anche alla dimensione transnazionale di questo particolare mercato del lavoro. La questione della precarietà, in questo contesto socializzata come elemento strutturale e tendenzialmente immutabile, veniva associata immediatamente alla competizione che questi soggetti avrebbero dovuto affrontare. Pubblicare il più possibile e solo su alcune riviste, costruire fin da subito

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network territoriali e internazionali, ragionare sul proprio futuro a partire da un'auto-attivazione connessa al

tema della progettazione nazionale ed europea sono stati tutti elementi che hanno, dal mio punto di vista, sostanziato uno spazio discorsivo utile a indirizzare le forme e gli attributi attraverso cui i dottorandi avrebbero dovuto immaginare il proprio percorso professionale all'interno dell'accademia. In altri termini, la dimensione individualizzante propria delle dottrine neoliberali e del concetto di capitale umano è stata espressa in questo contesto in termini espliciti da chi ha scelto di connotare in questo modo il primo momento di incontro formale tra i neo dottorandi e le istituzioni accademiche con cui si relazioneranno nei tre anni successivi. Questa scelta, raccontando effettivamente quel che succede e come funzionano i meccanismi organizzativi di questa particolare istituzione che è l'università, può essere anche letta come una pre-socializzazione alla precarietà e ai paradigmi neoliberali entro cui il lavoro di ricerca si incardina oggi. L'accento posto sulla frammentazione del mercato del lavoro accademico e sulla competizione individualizzata come unica strategia possibile per immaginare di poter proseguire il proprio percorso professionale all'interno di questo ambito appaiono come narrazioni utili a responsabilizzare il soggetto rispetto alla scelta di muovere i primi passi nel comparto della ricerca scientifica. In questo senso, le regole del gioco sono state condivise e chiarite fin da subito, tutti le conoscono, e se si accetta di tentare la propria partita in questo contesto la responsabilità è tutta di un soggetto pienamente informato in merito alle tensioni che animano il campo e le sue relazioni sociali. L'evento appena ricostruito dimostra come a dare una certa forma alla soggettività dei ricercatori accademici non siano i meccanismi disciplinanti e repressivi che abbiamo collocato in un altro contesto sociale e produttivo58. Ma, differentemente, come siano la condivisione e la circolazione di una serie di discorsi che si collocano nel terreno governamentale della biopolitica a indurre il soggetto ad agire seguendo imperativi sostanzialmente naturalizzati e rappresentati come immutabili (Foucault 1976, Bazzicalupo 2006). L'unica soluzione sembra dunque competere, e non ci sono altre possibilità di immaginare il lavoro di ricerca.

Oltre a quello emerso dal racconto etnografico appena condiviso, un ulteriore tema legato allo sviluppo di un percorso professionale nel mondo della ricerca scientifica nel campo delle scienze umane e sociali viene evocato in modo molto coerente da alcuni intervistati e intervistate. Questi infatti affermano di provenire da famiglie di origini popolari che non avevano mai avuto esperienze lavorative e di studio all'interno dell'università. La provenienza familiare e il capitale materiale posseduto dalle famiglie di origine si pone spesso come elemento che i soggetti riconoscono come gerarchizzante all'interno della dimensione competitiva in cui si sviluppano i loro percorsi professionali. Tutti i soggetti che affermano di provenire da un contesto familiare popolare e in cui non vi erano precedenti esperienze nel mondo accademico, sia dal punto di vista dello studio che dal punto di vista lavorativo, assumono la dimensione della classe sociale di origine come incisiva nel proprio percorso. Nelle parole di un ricercatore precario è possibile riconoscere come siano questi soggetti ad auto-colpevolizzarsi rispetto alla scelta di avere provato a giocare una partita in

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un campo che non gli spettava con regole e condizioni di cui erano stati già avvertiti all'inizio del proprio percorso.

"C'è poi tutto un lato negativo, che è quello che mi prende quando mi prendono i pensieri negativi, che ha invece a che fare con una cosa di cui ne parlo spesso con una mia collega che condivide con me origini non alto borghesi eccetera. Ogni tanto, quando mi prendono i pensieri negativi invece, penso che forse sia stato una scelta incosciente e un po' cieca rispetto al fatto che poi per fare questo genere di percorsi in realtà bisogna avere alle spalle delle strutture, dei salvagente che io non ho. E quindi ogni tanto mi sembra proprio di essere andato a giocare in un campo che non era il mio no? Questo ogni tanto mi provoca un po' di rabbia, un po' di voglia di … così, di rivincita, e ogni tanto mi provoca frustrazione. Perché … va beh, poi in particolare con la mia disciplina, c'è gente molto radical chic, si spacciano tutti per essere scappati di casa, poi va beh è un attimo che si scoprono enormi possibilità, se non espresse, quantomeno potenziali, dal punto di vista economico eccetera eccetera. Questo ogni tanto crea un differenziale che mi urta un po'. E con questa mia collega ci diciamo: "va beh, però alla fine cioè è il gioco, loro non è che … il gioco è loro, siamo noi che abbiamo voluto provare a giocarci, cazzi nostri". Poi in effetti cazzi nostri, questo è vero, è vero. Cioè non credo ci sia molto da aggiungere." (Intervista a MATTIA)

Infine, importante sottolineare come questo differenziale rispetto alla famiglia di origine incida nelle scelte strategiche che i soggetti possono o non possono agire per proseguire il proprio percorso professionale. Come vedremo, più di un soggetto sostiene di non condividere la definizione di una precarietà universale che permette di riconoscersi reciprocamente come soggetti che esperiscono la stessa esperienza, in quanto sono proprio le asimmetrie di partenza che determinano una percezione differente di cosa significhi essere precario per ciascun soggetto.

"Cioè, siamo diversi nella partenza, non siamo tutti uguali. Dobbiamo anche forse lavorare di più, no? Perché magari uno che c'ha una famiglia di origine di un certo tipo può dire "questo lavoro non me lo