1.4. Soggettività accademiche tra precarietà, passione e competizione
1.4.3. Il self neoliberale delle soggettività accademiche
Nel 1986 lo studioso tedesco Ulrich Beck ha pubblicato La società del rischio. Verso una seconda
Modernità, un testo destinato a divenire centrale nelle analisi sociologiche delle relazioni tra capitalismo,
globalizzazione, società e modernità (Beck 2000). Quella che l'autore definisce appunto come Società del
rischio rappresenta il tentativo di analizzare e descrivere le caratteristiche di quella seconda modernità
emersa dall'esaurirsi del ciclo fordista regolazionista, che a partire da circa la metà degli anni Settanta aveva messo in crisi quel modello societario basato sull'industrializzazione, sul welfare state, sulle classi sociali e soprattutto sul nesso tra capitale e lavoro (Chicchi, Simone 2017).
Secondo Beck la prima modernità era stata superata dall'imporsi di una serie di nuovi processi, determinati dalla globalizzazione economica, dalle crisi dei mercati finanziari, dai rischi globali legati alla questione ambientale, dalla rivoluzione dei generi e dalla scomposizione sociale che genera l'individualizzazione (Chicchi, Simone 2017). A partire da questa analisi complessiva, è lo stesso autore a proporre cinque tesi che definiscono la società del rischio:
1- i rischi legati alla questione ambientale, quasi mai presi in considerazione nel periodo dell'industrializzazione, che, a differenza degli squilibri che fanno riferimento alle disuguaglianze economiche, si caratterizzano per la loro irreversibilità;
2- con la progressiva crescita dei rischi ambientali, sono anche aumentate le situazioni sociali ad essi esposte, le quali non possono più essere calcolate solo sulla base delle disuguaglianze economiche e sociali, ma soprattutto in termini di esposizione alle malattie e alla morte. Nonostante questo la povertà rimane un tema centrale nel momento in cui i rischi sono maggiori dove questa è presente;
3- l'imporsi del paradigma del rischio non ha contenuto lo sviluppo capitalistico ma lo ha trasformato; 4- se la ricchezza si può possedere, dai rischi si può essere solo colpiti. Di conseguenza non è l'essere a determinare la consapevolezza come nella società di classe, ma è la coscienza dei rischi a determinare l'essere. Si sviluppa in questo senso una teoria e delle prassi legate ad un generale "sapere dei rischi";
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5- la politicizzazione del rischio cambia profondamente l'idea stessa di politica: mettere al centro i rischi sociali, ambientali, politici ed economici rende questi processi decisivi per lo stesso sviluppo della società (Beck 2000).
É importante sottolineare come la definizione di società del rischio se da un lato è stata in grado di cogliere una serie di trasformazioni strutturali che si stavano iniziando a riprodurre nel momento in cui Beck scriveva il suo testo e che si sarebbero diffuse in termini globali negli anni successivi, le teorizzazioni proposte dall'autore avevano individuato la transizione verso un nuovo sistema economico e sociale globale, il quale, tuttavia, non riusciva a prevedere quel che sarebbe successo negli anni seguenti (Chicchi, Simone 2017). In questo senso la definizione di società del rischio è comparabile con l'idea del post-fordismo, il quale individuava il cambio di paradigma ma non era ancora in grado di definire gli scenari futuri. Negli anni successivi alla pubblicazione del testo del sociologo tedesco infatti lo stesso autore e altri hanno tentato di individuare e di proporre una nuova idea di società che avrebbe dovuto nascere per affrontare il nuovo paradigma politico e sociale che si andava imponendo (Beck 2001; Luhmann 1996; Castel 2004). Le due teorie principali che andavano in questo senso sono state definite come "modernizzazione riflessiva" (Beck 2001) e come "terza via" (Giddens 1999). Nel testo La società globale del rischio (2001), il sociologo tedesco proponeva una sorta di manifesto cosmopolitico in cui proponeva alcuni elementi programmatici che avrebbero prodotto una serie di misure capaci di rendere maggiormente sostenibili le conseguenze dei rischi legati alla globalizzazione economica e dei rischi ambientali (Beck 2001). In questo senso, il rischio da individualizzato e legato alla centralità dello Stato Nazione si trasforma in un rischio che riguarda l'intera società e il mondo intero.
"Che cosa significa per Beck assumersi il rischio su scala globale? Nella società globale del rischio - secondo lui - i conflitti si sarebbero dovuti interconnettere, nel senso che la distribuzione dei mali andava compensata con una sana distribuzione dei beni; la calcolabilità dei rischi andava rivista sulla base della presenza di milioni di disoccupati e poveri che restavano fuori da quella stessa calcolabilità; si prevedeva un mutamento radicale delle istituzioni e degli Stati nazionali; bisognava assumersi nuove responsabilità politiche alla luce dei grandi cambiamenti in corso; inevitabilmente sarebbe riemerso il protezionismo nazionale e regionale; infine si cominciavano a intravedere i primi rischi legati all'intensificarsi della finanziarizzazione dell'economia, così come si andava intravedendo che il modello neoliberale stava mutando già alla radice la cultura politica, giuridica e sociale, andando a cambiare e a ridefinire tutti i confini." (Chicchi, Simone 2017, p. 29-30)
Con l'accento posto sulla ricomposizione dei confitti sociali che agiscono sul rischio, la proposta di Beck si struttura come critica e conflittuale. In altre parole, la modernizzazione riflessiva diveniva in questo senso la prospettiva e la traiettoria a partire dalle quali i conflitti avrebbero dovuto interconnettersi. Differentemente, la cosiddetta "terza via", nasceva immediatamente come il tentativo di rifondare la socialdemocrazia sulla base di una fiducia che Giddens, il principale teorico di questa proposta politica, affidava alla società del rischio, la quale avrebbe trovato da sé le sue nuove misure e le sue nuove forme regolative (Giddens 1999). Il sociologo inglese sosteneva che "la politica della terza via dovrebbe assumere un atteggiamento positivo
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verso la globalizzazione" (Giddens 1999, p. 71). Le modalità con cui Giddens proponeva di agire facevano riferimento ad un approccio in grado di gestire i rischi legati al nuovo assetto produttivo globale, il quale avrebbe dovuto dare priorità all'eguaglianza, alle politiche di sostegno per gli svantaggiati, ad una concezione di diritti centrata sulla responsabilità individuale, ad una nuova forma di democrazia in grado di contenere le spinte autoritarie ed al sostegno del pluralismo globale (Giddens, 1999, p. 72).
Con uno sguardo a posteriori, è tuttavia possibile affermare che entrambe le proposte politiche raccontate nelle righe precedenti non sono riuscite a fornire strumenti di regolazione del mercato globalizzato (Chicchi, Simone 2017). Differentemente, la contemporanea ascesa dell'ideologia del New Public Managment e del capitale umano, che in questa sede abbiamo definito come governamentalità neoliberale, hanno trasformato la società del rischio in quella che Federico Chicchi e Anna Simone hanno definito come Società della Prestazione.
"Nel frattempo le società occidentali si andavano frammentando, scomponendo, sino a generare forme di competitività individualizzate, scardinamenti di tutte le vecchie reti di solidarietà su base pubblica - nonché stratificazioni del legame sociale su base privata. In altre parole il trionfo del neoliberismo, inteso come sistema fagocitante che determina e trasforma tutti gli altri, senza limiti e misure andava e va a produrre una moltitudine di individualità, tanti Io senza più un Noi, fabbricati a misura del mercato nella giungla della competitività." (Chicchi, Simone 2017, p. 31)
Secondo il sociologo e la sociologa italiani, la prestazione sarebbe il cuore pulsante dell'ordine del discorso neoliberale. Riprendendo la lezione inaugurale che Michel Foucault produsse nei suoi famosi seminari del
College de France (Foucault 1972), per gli autori un discorso "è allo stesso tempo un modo di concepire,
orientare, disciplinare e sollecitare la soggettività verso un modo di intendere ed esperire la realtà sociale" (Chicchi, Simone 2017, p.45). É in questo senso che il discorso prestazionale, coerentemente con quanto precedentemente argomentato in merito alle dinamiche innescate dal neoliberismo, si struttura come un dispositivo capace di modellare le soggettività contemporanee sulla base dei precetti legati alle leggi del mercato, che parlano il linguaggio dell'individualismo e della competizione (Chicchi, Simone 2017). Le soggettività prodotte dal discorso neoliberale sulla prestazione, di conseguenza, determineranno una nuova forma dell'agire e delle relazioni sociali all'interno del paradigma neoliberale.
Se esiste un ambito che sintetizza e in un certo senso anticipa queste premesse è quello accademico. É dunque ora possibile analizzare le dinamiche che intervengono nei processi di soggettivazione dei ricercatori universitari. In questo senso, analizzare le dinamiche sociali che interessano le soggettività accademiche permette di collocare l'insieme di queste teorizzazioni in modo situato.
É innanzitutto il fenomeno della cosiddetta sindrome del Publish or Perish a restituire l'idea di come le soggettività dei ricercatori universitari sia stata modellata dall'azione performante delle retoriche neoliberali del merito, della valutazione e della competizione. Le misurazioni delle performance individuali definite dai processi valutativi che abbiamo descritto in precedenza trasformano radicalmente le forme con cui si produce e come si sviluppa la dimensione pratica del lavoro di ricerca. I fenomeni legati alla bibliometria, ai ranking e alla necessità dettata dall'attuale sistema governamentale delle accademie di una continua costruzione del
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proprio capitale umano inducono i ricercatori a concentrarsi nel pubblicare quanti più articoli possibile, tentando di accedere in particolare a quelle riviste che nella classificazione gerarchizzante dei sistemi di valutazione internazionale danno accesso a valutazioni maggiormente rilevanti (Coin 2017). In letteratura la sindrome del Public or Perish rappresenta una dimensione emotiva e cognitiva caratterizzata da pensieri ossessivi e alte aspettative, ansia di pubblicare e notti insonni (Cooper 2012; Neill 2016). Inoltre, il costante controllo delle performance che le nuove tecnologie applicate ai sistemi di valutazione permettono, trasformano definitivamente la soggettività accademica in una impresa individualizzata e introiettata, con la conseguente necessità di monitorare e implementare la propria produttività. Quella che Luton, Mewburn e Thomson (2012) definiscono come dataveillance induce dunque ad aumentare a dismisura la quantità di lavoro necessario per autodefinirsi eccellenti e in grado di competere nel mercato globale del lavoro accademico.
Nel paradigma delle accademie neoliberali, il tema delle pubblicazioni e della relativa gerarchizzazione che i ricercatori subiscono sulla base della propria produttività riesce a rappresentare in modo emblematico quanto il discorso neoliberale incida profondamente nelle pratiche di ricerca contemporanee. Inoltre, da questo punto di vista, nella logica dell'essere imprenditori di se stessi rientra un altro fenomeno particolarmente visibile nel guardare all'esperienza dei ricercatori accademici, ovvero il ricorso diffuso e strutturale a pratiche di self-marketing o self-branding (Pedroni 2016; Coin 2017). Da questo punto di vista Gary Hall ha parlato di Uberification of the University per indicare la marginalità delle dinamiche cooperative nell'università contemporanea rispetto a un radicale individualismo che si struttura sui fenomeni legati all'autopromozione (Hall 2016).
Un ulteriore elemento che contribuisce a definire le soggettività accademiche come un Self Neoliberale è dato dalla relazione che si viene a creare nel presente paradigma socio-produttivo tra l'idea dell'employability e l'idea del lifelong learning (Costa 2016). Nel mettere in relazione la condizione di precarietà strutturale che un numero sempre più alto di lavoratori della conoscenza vive nella propria esperienza con i processi di mobilità che li riguardano, risulta particolarmente visibile come dei meccanismi riflessivi agiscano nel determinare le scelte strategiche dei soggetti. É in questo contesto che sostenere l'idea che migliorare il proprio capitale umano attraverso processi che prevedono la continua assunzione di skill e competenze propri del longlife learning approch (Drucker 1994), e quindi il proprio livello di employability, sia indispensabile per poter ambire ad una posizione stabile e permanente nell'ambito della ricerca scientifica non solo è falso, ma è anche dannoso nelle esperienze biografiche delle soggettività incarnate. In questo senso, il dispositivo che sottende l'idea dell'employability (Foucault 1976; Deleuze 2002) crea maggiori livelli di precarietà nelle biografie di questi soggetti, intrappolandoli in una dimensione liminale e incerta tra esperienze formative e professionali (Cairns et al. 2017).
Nel descrivere le caratteristiche delle soggettività accademiche nella contemporaneità è importante analizzare un'ulteriore questione particolarmente rilevante. In questo contesto, la letteratura con un approccio sociologico o psicosociale che si occupa delle trasformazioni accademiche ha sviluppato negli ultimi anni un
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campo di studi che analizza la relazione sempre più strutturale tra l'assetto organizzativo neoliberale che caratterizza le università globali contemporanee con il manifestarsi di livelli sempre più elevati di disagi psichici e psicologici nelle soggettività che attraversano questi spazi produttivi. Da questo punto di vista, è importante sottolineare come nell'arena competitiva del mercato globale dei saperi la polarità speculare e negativa di una delle parole d'ordine su cui le retoriche neoliberali si struttura, ovvero l'eccellenza, è rappresentata dal fallimento (Coin 2017, Fisher 2018). Nel 2017, la Royal Society e la Wellcome Trust hanno commissionato ad alcune sociologhe e psicologhe una ricerca successivamente intitolata
Understanding mental health in the research environment. A Rapid Evidence Assestment (Guthrie et al.
2017). Ricostruendo la letteratura che si è occupata delle dimensioni della salute mentale dei ricercatori universitari negli ultimi anni, le autrici sostengono, non sorprendentemente, che la maggior parte di questi considera il proprio lavoro stressante (Guthrie et al. 2017) e che il personale accademico presenta livelli di
burnout più elevati di altre professioni (Coin 2017). In modo coerente, un'altra ricerca sviluppata da
Hargreaves et al. sostiene che uno dei temi che genera alti livelli di disagio psicologico sia, da un lato, l'insicurezza rispetto alle prospettive professionali future e, dall'altro, l'incertezza nell'essere capaci di soddisfare gli standard richiesti dal meccanismo produttivo accademico (Hargreaves et al. 2014). La diffusa e paradigmatica percezione di inadeguatezza che accompagna le esperienze di un numero particolarmente rilevante di ricercatori e ricercatrici accademiche si presenta come un vero e proprio ricatto che esorta i soggetti a mettere in campo tutte le risorse disponibili per trasformare questa rappresentazione di sé, a scapito di tutte quelle dimensioni relazionali ed emotive che non incidono in questa dimensione. In questo contesto, nel 2014 un accademico inglese scomparso recentemente per suicidio, Mark Fisher, scriveva una lettera pubblica dal titolo Good for Nothing, tradotta in italiano con Buono a Nulla (Fisher 2014). In questo illuminante testo, Fisher sostiene la tesi che le dinamiche psicopatologiche che intervengono nelle soggettività dei ricercatori non nascono, come vorrebbe il pensiero dominante psichiatrico o psicoanalitico, da malfunzionamenti chimici nel cervello o dal contesto relazionare familiare, ma esattamente dalle dinamiche governamentali neoliberali, ossia dalla "violenza con la quale la società neoliberale decide di espellere dal mercato e dalle protezioni sociali tutti coloro che vengono giudicati incapaci di apportarvi un valore aggiunto in termini di produttività" (Fisher 2014; Coin 2017). Nella stessa lettera, Mark Fisher utilizza il concetto di sidetracked per raccontare come l'accademia contemporanea induca costantemente a deviare ciò che desideriamo fare verso ciò che siamo costretti a fare. Ipotesi da cui è possibile ricavare una definizione quasi letterale di burnout: secondo la psicologa di Berkley Christina Maslach, infatti, il burnout è esattamente "l'indice di separazione tra ciò che le persone sono e ciò che devono fare" (Maslach 2003, p. 143). Se aggiungiamo a questa crasi tra il voler essere e il dover fare la condizione strutturale di precarietà esistenziale e professionale che interviene nelle biografie di questi soggetti, possiamo affermare con le parole di Francesca Coin che "l'accademia contemporanea si presenta rapidamente come una delle più grandi fabbriche di malattia presenti nella società" (Coin 2017, p. 12).
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Avviciniamo così un aspetto che introduce il prossimo capitolo nonché lo specifico “campo” che la presente ricerca intende esplorare dal punto di vista empirico. Si tratta della particolare rappresentazione performativa, parafrasando Goffman, la specifica “presentazione di sé” che i soggetti sono spinti a fornire nel contesto di competizione e valutazione fino a qui descritto. Negli ultimi anni, infatti, i ricercatori sono stati indotti a un utilizzo sempre più massivo di alcune piattaforme digitali come ad esempio Academia,
ResearchGate, GoogleScholar. Tali piattaforme permettono al ricercatore di condividere i propri output di
ricerca in uno spazio virtuale che mette in relazione, misura, quantifica e gerarchizza la produzione scientifica dei ricercatori accademici di tutto il mondo. In questo senso, le performance di queste soggettività sono costantemente sotto osservazione, e quel che appare è che siano gli stessi ricercatori a fornire i dati necessari alla propria dataveillance (Lupton, Mewburn, Thomson 2017). E se esiste un “luogo” o un “campo” in cui tale atti illocutivi e performativi finiscono per coagulare, concentrarsi e quasi trovare un compendio, sintetizzando in termini emblematici l'idea della rappresentazione di sé (eccellente, updated, globalizzata, mondana) che il ricercatore deve produrre ed esibire nel contesto produttivo e sociale proprio dei paradigmi della competizione, questo è costituito dal Curriculum, inteso qui come specifico dispositivo e archivio della soggettività neoliberale, alla cui crescente rilevanza nelle relazioni professionali (e accademiche) contemporanee corrisponde una continua ridefinizione e affinamento. Le forme e i significati che i CV delle soggettività universitarie stanno incorporando saranno uno dei temi centrali dell'analisi empirica che svilupperemo nel presente processo di ricerca, fino a costituirne materialmente il “campo”.