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Relazioni accademiche tra competizione e cooperazione

3.3. Le relazioni sociali nell'accademia neoliberale

3.3.2. Relazioni accademiche tra competizione e cooperazione

In termini complessivi, abbiamo avuto modo di dimostrare come i paradigmi organizzativi su cui si struttura oggi l'università neoliberale abbiano inciso nel costituire uno spazio in cui le relazioni sociali si presentano come molto complesse e articolate. Nel presente paragrafo ci concentreremo su questo tema, tentando di comprendere come i ricercatori precari intervistati vivono e pensano le proprie esperienze da questo punto di vista.

Importante condividere una premessa. Il tema della competizione, che abbiamo più volte evocato come uno degli elementi strutturanti le relazioni sociali dell'epoca neoliberale, verrà in questo contesto analizzato dal punto di vista delle tensioni che questa genera nelle prassi quotidiane dei soggetti e nel loro rapporto con il mercato del lavoro accademico, rimandando al paragrafo successivo un'analisi di come le soggettività accademiche interpretino questo tema in relazione a una dimensione più macro e generale. Interrogare le forme e i modi in cui le relazioni sociali all'interno dei vari dipartimenti e delle varie università si sviluppano e si sostanziano permetterà di analizzare come i soggetti vivono la propria quotidianità nel contesto in cui lavorano, nonché le qualità e le contraddizioni che queste relazioni incorporano e riproducono. Inoltre, questa disamina permetterà di comprendere ancor più nello specifico quali tensioni possono generare le relazioni tra soggettività gerarchicamente differenti all'interno del proprio dipartimento e ancor di più tra soggettività che condividono la medesima condizione di precarietà lavorativa ed esistenziale. Coerentemente con questa premessa, dunque, è possibile restituire l'analisi del materiale empirico a partire da un duplice punto di vista: in primis ragionando su quelle che potremmo definire come relazioni verticali, intendendo appunto quei rapporti che si instaurano tra persone che occupano posizioni differenti nel mercato del lavoro accademico; in secondo luogo pensando a quelle relazioni tra lavoratori che si ritrovano nella stessa collocazione dal punto di vista della qualifica professionale.

Dall'analisi trasversale delle interviste risulta abbastanza evidente come i rapporti sociali all'interno dei dipartimenti siano qualcosa di complesso e difficilmente oggettivabile. Da questo punto di vista, le forme e i modi attraverso cui questi si riproducono dipendono in larga parte dalla spinta soggettiva delle persone che ogni ricercatore incontra nella propria esperienza situata. In molti casi, tuttavia, emerge da questo punto di vista una dimensione ambivalente che appare diffusa tra i ricercatori precari che hanno partecipato alla ricerca. Se è infatti vero che nelle teorizzazioni precedenti alti livelli di competizione sono verificabili a partire dalle condizioni di precarietà strutturale e di definanziamento radicale del sistema universitario

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italiano in relazione alla possibilità o meno di raggiungere una qualche forma di stabilizzazione, nelle testimonianze raccolte questa dimensione appare sfumata, quantomeno nelle relazioni quotidiane che i ricercatori intrattengono con chi vive con loro una delle varie forme con cui si riproduce la precarietà accademica. Differentemente, sembra profilarsi una certa tensione tra queste soggettività e chi vive il lavoro di ricerca da una posizione stabile e strutturata.

Tuttavia, da questo punto di vista è possibile cogliere una sorta di approccio e di lettura differente su questo tema a partire dall'età anagrafica dei differenti soggetti che si sono concentrati sui temi in questione. Più precisamente le persone con un'età maggiore e con un'esperienza di lungo periodo lamentano come i rapporti all'interno dell'accademia siano cambiati nel corso del tempo, e come la dimensione precaria e competitiva su cui oggi si struttura il mercato del lavoro della ricerca abbiano inciso nel determinare la sua complessità e problematicità.

"Perché l'altro aspetto che riguarda secondo me il lavoro di ricercatore è che in questa situazione di povertà, di precarietà, eccetera, i rapporti umani tendono a diventare veramente difficili no? Perché si sta in una competitività latente, in una situazione di disagio esistenziale profondo. E quindi i rapporti umani, per quella che è stata la mia esperienza in ambito accademico, sono veramente qualcosa di complicato, difficile, freddo. Ecco, io questa cosa qua non la sopporto più, ti devo dire la verità. Anche persone con le quali ho collaborato tanti anni, con cui all'inizio appunto si andava d'accordo, si collaborava, si aveva un atteggiamento partecipativo, orizzontale. Poi però inevitabilmente se il sistema è fatto in modo da farti vivere in una condizione di Mors tua vita mea, inevitabilmente poi succede. E questo credo che sia la cosa più brutta della precarietà, perché poi in fondo nel nostro lavoro la precarietà ha un qualche senso, come forse anche negli altri. O forse non è il problema la precarietà, perché poi appunto anche il termine già è abbastanza negativo di suo. É questa condizione di povertà che inevitabilmente ti mette uno contro l'altro. Poi, c'è chi è già più predisposto ex ante in questo senso, c'è invece chi lo fa un po' per necessità e il risultato è abbastanza sgradevole, ecco." (Intervista a VERONICA)

Riprendendo la categorizzazione proposta precedentemente, dal punto di vista delle relazioni verticali i ricercatori precari affermano in modo molto chiaro come dal punto di vista del riconoscimento reciproco e di possibili alleanze da sviluppare questi non considerino il personale strutturato come un interlocutore. In un caso specifico, questa dimensione viene assunta come una dinamica che chi vive differenti forme di precarietà accademica assume anche come forma di riconoscimento reciproco tra pari, evocando il generarsi di una solidarietà e di uno scambio che mitiga le difficoltà nel costruire relazioni paritarie dentro la scomposizione gerarchizzata del mercato del lavoro accademico.

"Nella mia esperienza si sviluppano in contrapposizione ai docenti. Cioè, non in una contrapposizione netta, cioè non tipo "noi contro di loro", ma un po' nel dire "noi non siamo loro". E quindi un po' il livello proprio minimo di solidarietà e di intesa che ho trovato è anche basarsi sull'aneddoto di difficoltà comuni che si incontrano nella relazione con i docenti, questo è un po' il primo piccolo nucleo. E il secondo che io vedo è quello, anche qui, dico in generale, perché poi in realtà è un mondo che un po' spinge all'individualismo e al tenere le distanze. Ma un minimo livello di solidarietà, di passarsi informazioni, cercare di comunicarsi le opportunità a vicenda, cercare di tenere una rete di supporto in cui se sai di una cosa che può essere appetibile per qualcuno cerchi di fargliela raggiungere, se sai che qualcuno ... o anche proprio banalmente uno scambio di favori da chiedere a qualcuno. Appunto sono andata a fare una lezione con una amica, collega, perché mi fa più piacere farlo per lei che non a un professore x. Per cui direi piccoli tentativi di superare un po' quella solitudine di cui parlavo all'inizio. Cioè quantomeno, nella difficoltà del fatto che poi appunto nel mio caso non ho un luogo dove incontrare altri colleghi, cioè un

152 luogo fisico, però mantenere almeno un luogo virtuale, scambiarsi delle mail e sentirsi ogni tanto per gestire questo livello di minima solidarietà." (Intervista a CRISTINA)

Uno degli elementi che viene evocato frequentemente per rappresentare le difficoltà di instaurare rapporti positivi e paritari con il personale strutturato è la capacità di questi ultimi di riconoscere e comprendere la discontinuità che si è generata in tempi recenti rispetto allo sviluppo della carriera all'interno dei dipartimenti. Da questo punto di vista, infatti, come abbiamo già affermato precedentemente, se la carriera accademica ha da sempre previsto più o meno lunghe forme di precarietà contrattuale e una gavetta di lungo periodo, la precarietà di oggi assume significati nuovi e differenti dal punto di vista della capacità e dalla possibilità di progettare un futuro desiderato e dall'incertezza rispetto alla riuscita della strategia di carriera esercitata. In questo senso, alcuni intervistati lamentano come condividere l'insicurezza e la paura rispetto al futuro si presenti come un processo complesso che non di rado può generare anche conflitti e incomprensioni tra il personale precario e quello strutturato.

"In realtà, in realtà, in realtà, ultimamente io sono particolarmente infastidito dalla difficoltà che noi precari abbiamo rispetto al fatto di essere ascoltati, rispetto ai corsi della precarietà no? Mi sono reso conto che anche i più intimi non hanno … che però sono già strutturati, non hanno grande voglia di sentirsi dire che cazzo vuol dire essere precari. (Intervista a GIUSEPPE)

Se le dinamiche presentate precedentemente raccontano di una tensione latente che difficilmente si tramuta in un conflitto diretto, in solo due casi i ricercatori e le ricercatrici intervistate raccontano di opposizioni materiali con il personale strutturato.

Nel primo caso una ragazza racconta di un boicottaggio diretto generato dalle esigenze di autonomia e indipendenza che lei stava cominciando a esprimere all'interno del proprio dipartimento. Questa opposizione si è sostanziata in quella che lei stessa definisce una guerra che consisteva in pressioni continue per spingerla a uscire dal sistema. Secondo il racconto dell'intervistata, questa è una dinamica che si riproduce spesso nei dipartimenti delle università italiane in quanto, già dalle esperienze di dottorato, molti strutturati pensano che "tu sia di loro proprietà" (Intervista a CARLA). Il conflitto in questione è poi sfociato anche in una causa penale che ha visto la ricercatrice intervistata uscirne completamente vincitrice. Da questo punto di vista, l'aver combattuto a tutti i livelli per affermare la propria autonomia risulta essere per lei un motivo di orgoglio estremamente importante. Questa lavoratrice della ricerca - che al momento dell'intervista aveva assunto da meno di un mese una posizione a tempo indeterminato in una università straniera - afferma in modo molto netto come all'interno del sistema accademico italiano agiscano ancora in modo determinante quei rapporti di potere feudali che assegnano una totale discrezionalità decisionale a quei soggetti che interpretano le relazioni professionali e umane interne ai dipartimenti in modo verticale e autoritario.

"All'inizio, nonostante magari boh, non so se capiterà dopo di parlarne, ho avuto molte resistenze dopo la fine del mio contratto da ricercatore per rimanere dove stavo lavorando, anzi pressioni per uscire dal sistema, come ti potrai immaginare. Si, cioè per spiegarla ci vorrebbero altre dieci interviste. Diciamo che

153 mi è stata fatta un po' una guerra da parte di alcuni strutturati, ecco, diciamo questo. Nonostante avessi lavorato tanti anni nello stesso dipartimento. Poi fortunatamente, dal punto di vista della fine della guerra e degli scontri ne sono uscita pulita, però non essendoci comunque fondi me ne sono andata. Te la sto sintetizzando perché ti giuro sarebbe un casino raccontartela, però diciamo che il sistema accademico italiano non si è comportato molto bene nei miei riguardi. La mia esperienza è che da quando ho iniziato a diventare autonoma e indipendente questo non andava più bene, e ricordati che io ho iniziato a lavorare molto giovane. Il sistema italiano è un sistema, almeno nella mia esperienza, è un sistema prettamente baronale. [...]. Il problema c'è stato in particolar modo nel mio ambito disciplinare. Però, ribadisco, non è una questione specifica perché con tutti i colleghi con cui continuo a parlare a livello nazionale il modus operandi è sempre lo stesso. Ci sono dipartimenti in cui questo non succede o succede meno, perché magari hanno un approccio più internazionale, quindi hanno a che fare con un sistema in cui i docenti si confrontano a livello internazionale, e quindi diciamo anche la morale, l'etica può essere molto diversa e positivamente influenzata, altri no. E pensano che una volta che formano, tra virgolette, dei dottorandi sono di loro proprietà. Io non avevo la mia proprietà, non avevo la proprietà di me stessa diciamo. E quindi sono nati dei conflitti, questa cosa è esplosa negli anni, e poi è nato alla fine veramente un conflitto enorme. Quindi alla fine non me ne frega nulla se non posso fare carriera universitaria in Italia, ma la mia dignità e una, non lecco il culo a nessuno, questo lo puoi anche scrivere. No, certamente no. Preferisco alzarmi la mattina e guardarmi allo specchio sinceramente." (Intervista a CARLA)

Un'altra testimonianza particolarmente rilevante per comprendere come nelle relazioni gerarchicamente verticali siano ancora presenti forme di ricatto e di subordinazione diffuse e interiorizzate è stata fornita da Michele, anch'esso al momento dell'intervista impiegato in una università straniera con un contratto tuttavia precario. Egli racconta che, quando precedentemente lavorava in Italia, ha assistito a una serie di dinamiche lavorative all'interno del proprio dipartimento che esulavano dalla dimensione contrattuale e che riproducevano forme di vassallaggio, determinando pratiche quotidiane violente e deprecabili. In questo senso, il ricatto agisce e si riproduce a partire dalla condizione di particolare vulnerabilità che la precarietà struttura nelle soggettività che la esperiscono.

"Questo è stato, e io infatti ho lavorato tre mesi gratis all'inizio, perché lui diceva che la burocrazia non ti faceva fare la cosa. Poi uno dei colleghi con cui sono diventato amico mi ha detto che lui in realtà voleva vedere se io ero fedele, perché poi alla fine tutto si basava sulla fedeltà, su quanto io ero disposto ad essere disponibile per quello che mi diceva lui. Cosa che poi non ho mai fatto perché alla fine, non essendo troppo sotto ricatto dicevo:"va beh, non mi paghi, certe cose non te le faccio". Ma gli altri facevano gli autisti e andavano a prendere i tizi per le conferenze, facevano la spesa, facevano la spesa capito? Come si chiamava, va beh non mi ricordo come si chiamava, comunque gli diceva: "senti vai un po' a prendere due etti di prosciutto", ma che cazzo è? Cioè andava a fare la spesa, tornava lì con le buste della spesa: "professore?", "grazie grazie, metti là". Poi ci sono stati degli scazzi tremendi con questo, cioè proprio urla ad un certo punto perché lui mi diceva: "arrivi tardi, te ne vai prima, mentre invece lei sta qua dalle nove fino alle sei eccetera". E io non gli volevo rispondere: "senti, ma se io ci metto meno del tempo a fare quello che fa lei mica è colpa mia, che cazzo sto qua a fare". Cioè gli ho detto: "cosa vuoi che io sto qua fino alle sei perché così passi qua e mi vedi fino alle sei?", ma io gli ho detto: "io sto qua fino alle sei a giocare a tetris, secondo te ti pare una cosa sensata?", "ah allora vedi, tu dovresti arrivare prima la mattina e in quella mezz'ora la mattina studi", e io gli ho detto:" no, non funziona così." (Intervista a MICHELE)

Interessante, nel merito di questi discorsi, sottolineare come nella generalità delle interviste la rappresentazione dell'università italiana come un sistema che mantiene la sua definizione nei termini di "sistema baronale" o "sistema feudale" sia più presente nei racconti e nelle testimonianze fornite da ricercatori e ricercatrici che al momento dell'intervista erano impiegate all'interno di atenei stranieri. Questo

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può essere compreso da un lato come una sorta di libertà di parola che i soggetti sentono di possedere in quanto si percepiscono distanti dalle dinamiche che considerano ancora radicalmente influenti nel sistema italiano nel determinare le possibilità di carriera dei soggetti, dall'altro può essere visto come una autolegittimazione e come una conferma che la scelta di internazionalizzare il proprio percorso professionale sia stata non solo strategicamente vantaggiosa, ma anche eticamente rispettabile.

L'ultimo stralcio riportato ci permette di concentrarci sulla seconda dimensione relazionale all'interno dei dipartimenti, ovvero quella tra soggetti che si considerano gerarchicamente equiparabili. La narrazione del ricercatore rispetto alle relazioni problematiche che egli ha vissuto con uno specifico docente ordinario con il quale ha avuto l'occasione di lavorare non si limitano a queste dimensioni del lavoro quotidiano, ma racconta anche di come il professore a cui faceva riferimento si adoperasse materialmente per generare una competizione esplicita tra pari con l'obbiettivo – raggiunto - di comprendere chi era maggiormente disposto a tradire il proprio pari grado per conquistare una posizione privilegiata rispetto a eventuali proposte di lavoro future.

"Cioè nel senso, lui si lamentò dicendo: "Eh no insomma, cioè secondo me lei c'ha questo ragazzo, secondo me stanno pensando … cioè sai com'è, le donne mettono su famiglia", io gli ho sbroccato, gli ho detto: "ma tu come cazzo ti permetti di dire una cosa del genere?". E abbiamo scazzato, e le ho detto: "guarda che le cose stanno così, io ti ho parato il culo, ma non perché voglio qualcosa, però ti ho parato il culo sappilo". Le ho detto:"a differenza tua che altre volte invece ti sei presa il merito", cioè il professore mandava le mail e lei diceva: "ah si si, io l'ho già fatto, eccolo qua, è tutto pronto. No Michele no, Michele non so, Michele non l'ha fatto, Michele non c'è in ufficio", cioè veramente robe di questo tipo. Le ho detto:"guarda, a me non me ne frega niente, cioè io detto quelle robe perché non si deve mai permettere con nessuno di fare una cosa del genere, però questa è la situazione e vedi tu". Infatti poi lei c'era andata a litigare eccetera, e lui quindi si è incazzato perché avevo detto a lei ciò che lui aveva detto a me. Cioè siamo a livelli proprio di psicologia, cioè che ti mette uno contro l'altro per cercare di rompere il fronte così da ottenere, va beh, sempre la stessa cosa, da ottenere il massimo da tutti e due." (Intervista a MICHELE)

Nel racconto appena riportato, oltre alla chiara strategia messa in campo dal professore ordinario per contrapporre i lavoratori a lui sottoposti, è possibile scorgere anche come nella generalità dei casi i rapporti che si vengono a creare tra pari grado in un medesimo luogo di lavoro siano tendenzialmente votati alla solidarietà e alla cooperazione. Da questo punto di vista, infatti, anche nell'analisi delle testimonianze degli altri soggetti intervistati quel che appare come elemento trasversalmente presente è quello di un'attitudine cooperativa che in molti riportano come elemento necessario e fondamentale per moltiplicare la passione che questi rivolgono al proprio lavoro. Da questo punto di vista, sono il lavorare sui medesimi temi di ricerca e la condivisione di ragionamenti e riflessioni a essere il motore di un incontro che, a volte, può trasformarsi mediante queste pratiche in una vera e propria amicizia.

"Per cui ci sono, in questo momento, scambio di informazioni riguardo a quello che dovrò fare, con alcuni sto collaborando su alcuni moduli, corsi che dovrò insegnare nel secondo semestre. Sono stati tutti dei rapporti molto cordiali, molto friendly, diciamo, e così via. Poi i rapporti con miei colleghi nelle università precedenti sono sempre stati molto, diciamo, anche lì friendly, molto umani, molto cordiali.

155 Soprattutto nell'ultima università, appunto ho avuto e ho rapporti di amicizia molto buoni. Insomma di collaborazioni ancora adesso insomma. Quello che ti dicevo prima, collaborazione professionale ma anche amicizie personali che poi diventano forse la cosa più importante insomma." (Intervista a RICCARDO)

"Cioè le pubblicazioni che non ho fatto per dovere, perché ce ne sono comunque, sono quelle che mi restituiscono meglio il senso del mio essere ricercatrice. Perché sono libere, perché nascono da vere collaborazioni e reciprocità con altre colleghe e colleghi, in cui ci siamo trovati, abbiamo individuato un nodo e abbiamo detto: "mah, sarebbe interessante indagare questi aspetti" e sono vere collaborazioni cooperative e comuniste. Cioè non so come dire, in cui ognuno fa la sua parte, ognuno da il suo meglio, sa che evidentemente nessuno ci guadagna, cioè sono una pubblicazione sul curriculum. Però è che poi invece il frutto di quella roba lì sarà una forma di comunicazione critica su qualcosa, che nessuno avrebbe fatto altrimenti, e che hai fatto tu che ci credi veramente insomma. Quindi così." (Intervista a ROBERTA)

Differente è la rappresentazione di alcune relazioni più generali e legate alla competizione nel mercato del