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*Medico del lavoro staff Dipartimento Sanità Pubblica AUSL di Bologna **Igienista direttore Dipartimento di Sanità Pubblica AUSL di Bologna

Sommario

La mission del Dipartimento è quella di assicurare l’assistenza sanitaria collettiva attraverso interventi tesi a tutelare e promuovere il benessere della popolazione. Il Dipartimento deve essere unico, multiprofessio- nale, interdisciplinare, riequilibrato nei pesi delle componenti, gestionale e con finanziamenti certi, suppor- tato da laboratorio e accreditato. Tra distretto e dipartimento esiste una committenza bidirezionale. L’orga- nizzazione rappresenta un elemento importante, ma non decisivo per il futuro: molto più determinante ed ineludibile appare un cambiamento professionale teso a superare la politica dei limiti, ad utilizzare le evidenze scientifiche disponibili ed a far comunicare tra di loro i portatori di interessi.

Questi cambiamenti dipendono solo da noi e ci permetteranno di svolgere un ruolo di primo piano orientan- do positivamente le scelte della società.

Parole chiave: relazioni, valutazioni, evidenze disponibili, far comunicare

Quando ci interroghiamo sul futuro dei nostri Di- partimenti non abbiamo intenti divinatori, ma la finalità di prepararci al futuro delle nostre organizzazioni e della nostra società e, per quanto possibile, di orientare e di partecipare alle scelte strategiche: in altre parole lavo- rare per il cambiamento che ci attende, anzichè aspet- tarlo, subirlo e adattarcisi.

La riflessione dello scorso anno, partendo dai possibili scenari di evoluzione dell’assistenza sanita- ria, si concentrava sugli indirizzi di sviluppo delle attivi- tà di prevenzione, e delineava alcuni aspetti organizza- tivi necessari a sostenere il processo. La mission del dipartimento è quella di assicurare l’assistenza sani- taria collettiva, con lo scopo di promuovere e migliora- re la salute, il benessere dei cittadini e la qualità della vita, di prevenire le malattie connesse ai rischi negli ambienti di vita e di lavoro, di garantire la sicurezza alimentare, la sanità ed il benessere animale. A tal fine svolge funzioni di analisi, promozione, orien- tamento, assistenza e vigilanza sui problemi di salute e sui fattori determinanti il benessere della collettività, privilegiando i temi caratterizzati da maggiore diffusio- ne, gravità e criticità percepite, di tutelare la salute dei cittadini.

Il dipartimento ricerca il miglioramento continuo della qualità degli interventi ed in particolare dell’unifor- mità tecnica e ricorre, anche nelle attività consolidate, alle prassi ed alle azioni più appropriate ed efficaci. Sviluppa al suo interno e nell’Azienda le integrazioni necessarie ad assicurare continuità ai percorsi di pro-

mozione e tutela della salute, unireferenzialità e sem- plificazione per l’utenza e l’appropriatezza delle azioni e dei contenuti.

Ricerca e sviluppa sinergie con altri soggetti che realizzano azioni e interventi di sanità pubblica, allo scopo di conseguire risultati più efficaci nell’affrontare la multidimensionalità e multifattorialità delle proble- matiche di salute pubblica.

I dipartimenti di prevenzione costituiscono una rete che agisce in maniera coordinata ottemperando alle indicazioni dei documenti programmatori nazionali e dei piani attuativi regionali e locali assicurando su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali di assi- stenza definiti dallo Stato.

Noi tutti inoltre concordiamo nel considerare im- prescindibili alcune caratteristiche del Dipartimento:

• che sia unico • multiprofessionale • interdisciplinare

• riequilibrato nei pesi delle componenti • gestionale e con finanziamenti certi • supportato da un laboratorio • accreditato

Infine riteniamo che l’area igienistica debba ricom- prendere almeno tre strutture organizzative, l’igiene e sanità pubblica, l’igiene degli alimenti e della nutrizio- ne, l’epidemiologia e comunicazione del rischio e che debbano essere previsti programmi interdisciplinari che integrino competenze, conoscenze e professionalità sia all’interno della macrostruttura con i colleghi veteri-

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nari e medici del lavoro, sia all’esterno con i distretti e gli altri dipartimenti aziendali.

Ciò premesso non è possibile esimersi da alcune riflessioni critiche di ordine generale sulla incongruen- za del contenuto di alcuni documenti organizzativi e programmatori di respiro nazionale e, soprattutto, sul- le contraddizioni nella loro applicazione.

Il nuovo piano nazionale della prevenzione, pur presentando riflessioni e spunti interessanti, non svi- luppa alcun ragionamento sui temi della vigilanza, re- lega in un ruolo marginale il rapporto uomo-ambiente e introduce in pompa magna la medicina predittiva, spo- stando l’ottica dalle problematiche di popolazione al singolo individuo ed al suo DNA, come se la malattia non fosse influenzata dal contesto.

Inoltre nulla dice in merito al ricambio generazio- nale ed alle risorse economiche che si intendono inve- stire, sugli impegni e le responsabilità del livello cen- trale e sulle modalità di raccordo con le Regioni.

L’applicazione dei LEA sul territorio nazionale dal nostro punto di osservazione appare disomogenea il che comporta sostanziali inadempienze e lesioni dei diritti alla salute ed alla prevenzione per milioni di per- sone, diritti costituzionalmente tutelati.

Non ci pare che ci siano le precondizioni per evi- tare che accada ancora ciò che si è verificato con l’ap- plicazione del vecchio piano nazionale, vale a dire sot- trazione di risorse, finanziamenti a pioggia, depoten- ziamento dei servizi, inadeguato sviluppo della rete la- boratoristica di supporto.

Assistiamo all’affermarsi di una quadro generale dagli aspetti paradossali: la prevenzione, con alle spalle documenti programmatori che ne ribadiscono la stra- tegicità anche in funzione della tenuta complessiva del sistema, tende a spegnersi per inedia, mentre l’assi- stenza ospedaliera, che dovrebbe territorializzare nu- merose forme di assistenza per trasformarsi in una struttura leggera iperspecialistica ed ad altissima tec- nologia tende sempre più ad ipertrofizzarsi.

Un dato tra i tanti: a fronte della diminuzione di circa il 50% dei posti letto avvenuta in molte regioni negli ultimi venti anni, le superfici ospedaliere sono aumentate clamorosamente, in alcuni casi raddoppia- te, creando strutture dissipative anche dal punto di vi- sta della sostenibilità ambientale pur avendo a dispo- sizione apparecchiature sempre più ridotte nelle dimen- sioni.

Pur inserendoci in questo scenario che appare intriso di incertezze e contraddizioni è comunque un imperativo categorico cercare di lavorare per fornire la miglior risposta possibile ai bisogni dei cittadini.

Riprendendo pertanto il filo del discorso sull’orga- nizzazione dei nostri servizi, sicuramente un’ altro aspetto centrale è quello dei RAPPORTI e delle ALLE- ANZE, la dimensione “relazionale” del Dipartimento: è necessario un Dipartimento “dialogante”, aperto in ter- mini istituzionali. In questa prospettiva, oltre natural- mente alla utenza diretta, gli interlocutori privilegiati sono (l’elenco non è esaustivo) sia esterni - stakehol- der qualificati: i sindaci, le associazioni dei consuma- tori, le associazioni di volontariato, i sindacati…- sia

interni - altri Dipartimenti e i Distretti-: verso di essi si richiede un ruolo attivo nello stabilire e mantenere rap- porti di scambio, di collaborazione, di confronto.

A proposito dei Distretti è necessario fare alcune precisazioni: da una decina d’anni si è andata definen- do una loro immagine quale livello organizzativo della committenza, in primo luogo rispetto ai processi di cura e assistenza territoriali: l’iniziale netta distinzione dal- la funzione di produzione si è poi attenuata in ragione delle alterne vicende e della evoluzione dei Dipartimen- ti delle Cure Primarie.

La vexata quaestio della collocazione dei Diparti- menti all’interno dei Distretti è ormai superata, per cui questo ruolo di committenza univoca del Distretto si propone spesso anche nei confronti del Dipartimento. Questo modello - ragionevole e potenzialmente ottimale in riferimento ai servizi di cura e socio-assi- stenziali – non è appropriato e sufficiente al sistema della prevenzione e della sanità pubblica. In questo ambito la relazione possibile e auspicabile fra Diparti- menti e Distretti assume uno schema di “ committen- za bidirezionale”, di reciprocità. Vale a dire che, se siamo assolutamente disponibili a ricevere input di pro- grammazione e di orientamento di specifiche operativi- tà sulla base di peculiarità e necessità locali, rivendi- chiamo un ruolo quanto meno dialogico, certamente non subordinato, per la progettazione ed attuazione di pratiche fondamentali di sanità pubblica quali sistemi di sorveglianza, campagne vaccinali di massa, scree- ning, per le quali possediamo, oltre al necessario sa- pere tecnico, anche la competenza e la consuetudine per valutarne l’opportunità di attuazione e la concreta fattibilità in specifici contesti e realtà locali.

Definire gli aspetti organizzativi che riteniamo necessari al nostro lavoro ed impegnarci in tutte le sedi per realizzarli o difenderli è senza dubbio utile e ne- cessario ed è meritevole lo sforzo della SItI in tale dire- zione. Tuttavia va sempre tenuto presente che i model- li organizzativi sono un mezzo e non un fine, che fina- lità analoghe possono essere conseguite brillantemente anche con assetti e sistemi organizzativi sensibilmen- te diversi (non esiste “il” modello), e che spesso gli assetti messi in atto nelle specifiche realtà territoriali non sono solo il risultato delle migliori logiche organiz- zative, ma di alchimie complesse, di equilibri multifat- toriali, di logiche politiche etc.; se aggiungiamo la re- gionalizzazione del Servizio Sanitario e l’evoluzione federalista del paese (oltre a prospettive ed interessi differenziati anche al nostro interno) appare evidente che la probabilità di affidare ad un mero ed unico mo- dello organizzativo la nostra identità futura è sicura- mente non elevata.

A mio parere l’azione più importante da mettere in campo per il futuro, e che come società scientifica siamo indiscutibilmente titolati a proporre, non è tanto un cambiamento organizzativo quanto un cambiamen- to professionale.

La società in cui siamo chiamati ad operare ci richiede di sviluppare o affinare nuovi saperi e compe- tenze, non esauriti/esauribili dall’acquisizione di cono- scenze tecnico-scientifiche (dietro cui arroccarsi), ma

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che richiedono capacità critiche, disponibilità ad assu- mere decisioni e sviluppare posizioni autonome, ad esporsi e mettersi in gioco... Tre saperi fra loro ampia- mente sovrapposti ed interconnessi rappresentano il nostro domani:

1) saper valutare (dalla politica dei limiti a quel-

la degli effetti), il cittadino consapevole e par- tecipe non si accontenta più del rispetto dei limiti: vuole conoscerne il significato e com- prendere i rischi cumulativi ai quali si trova esposto per situazioni nelle quali i limiti non sono ancora stabiliti, o le conoscenze non suf- ficienti, o le informazioni discordanti e le posi- zioni divergenti (onde EM, OGM…); oppure, ancora, chiede di conoscere i vantaggi in ter- mini di salute di scelte comportamentali o di consumo (pensiamo al biologico). In questi ambiti, nei quali i tempi della conoscenza scientifica sono più lenti della realtà, nei quali le inferenze possibili dai dati epidemiologici disponibili sono frammentarie, parziali e prov- visorie ci viene spesso richiesto, come spe- cialisti, di assumere una posizione: non acca- demica, distante e freddamente tecnica, ma sul campo, concreta, che sia di aiuto nell’orien- tare fra scelte possibili. Cosa è necessario per rispondere a queste richieste? Occorre in pri- mo luogo la massima onestà intellettuale; è poi utile stare accorti a non scivolare in una fallacia cognitiva diffusa, che tende a confon- dere l’assenza di prove con la prova dell’as- senza (1) ("nessuna prova di malattia" non è "la prova di nessuna malattia"), e si presta ad usi strumentali e manipolatori; ed infine evita- re i dogmi e confrontarsi criticamente con i singoli problemi, caso per caso: penso al prin- cipio di precauzione (2), che non è verità scien-

tifica, ma posizione culturale e politica, e come tale può e deve essere discutibile, pena inte- gralismi: basta vedere il NON-dibattito italiano sugli OGM, contrapposizione sterile di posi- zioni sacralizzate e ideologiche, il cui risultato netto, più che il recupero della biodiversità (a giudicare da quello che prevale nei mercati e sulle tavole…), sembra essere stata la perdi- ta, per il nostro paese, di posizioni avanzate nella ricerca.

2) saper scegliere ci porta al tema dell’EBPre-

vention o dell’EBPublic Health, cioè delle pra- tiche di sanità pubblica basate sulle prove di efficacia (3): citando una definizione ormai clas- sica, "l’uso scrupoloso, esplicito e giudizioso delle prove di efficacia nell’assunzione di deci- sioni riguardanti l’assistenza collettiva, nell’am- bito della protezione e promozione della salu- te e della prevenzione delle malattie" (Jenicek 97).

La ricerca e gli sviluppi metodologici in questo ambito nell’ultimo decennio hanno ben evidenziato le differenze fra gli approcci evidence-based in medicina e sanità pubblica:

- la diversa tipologia delle prove di efficacia (RCT vs studi trasversali, disegni "quasi-speri- mentali", analisi di serie temporali);

- la diversa quantità di prove disponibili (1 milio- ne di RCT clinici in 50 anni, molti meno in pre- venzione, data la maggiore difficoltà progettua- le);

- in medicina si effettuano, e si studiano, "inter- venti" - specifici e puntuali, in prevenzione "pro- grammi" - usualmente composti da un mix di interventi di comunità -: i trial di comunità pos- sono essere molto complessi e costosi e gli studi di popolazione richiedono tempi lunghi fra l’intervento e l’outcome…

- i percorsi formativi degli operatori di sanità pub- blica sono molto più variabili che in ambito clini- co: questa eterogeneità professionale (che con- tribuisce ad arricchire i nostri Dipartimenti) de- termina processi decisionali più complessi, dato il coinvolgimento di prospettive multiple. Trova crescente consenso, accompagnata da un parallelo aumento della letteratura scientifica, l’idea della necessità di sviluppare nuovi approcci nel definire ed interpretare le prove di efficacia in Sanità pubblica. La ricerca o l’attesa della migliore evidenza possibile può essere paralizzante, l’utilizzo critico della miglio- re evidenza disponibile può orientare scelte razionali e sostenibili (sia in senso argomentativo che economi- co): sono in corso sviluppi metodologici di grande inte- resse che tendono a superare i limiti in ambito prev- bentivo da un lato dei canonici RCT(4) (di fattibilità e talvolta anche di validità) suggerendo nuovi disegni di studio e dall’altro lato delle revisioni sistematiche clas- siche, proponendo nuovi modelli integrati di revisione e valutazione (5) ("realist review", syntesis research). È fondamentale promuovere un aggiornamento permanen- te su questi temi, sviluppando anche le competenze

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necessarie ad un utilizzo sofisticato delle ricerche nel- l’Internet (non basta google!!!) con la finalità di importa- re nella pratica quotidiana i risultati e la visione "evi- dence based".

Ancora, brevemente, su EB e vigilanza: dobbia- mo sottrarci alla trappola mentale della dimostrazione della efficacia diretta delle attività di controllo nel modi- ficare l’outcome sanitario. La catena causale va scom- posta: la vigilanza tende a verificare (ed eventualmente a ripristinare) il rispetto di una norma (in senso lato, una legge, una procedura, uno standard) voluta dalla comunità alla quale apparteniamo: dunque, da un lato è la norma che dovrebbe essere di provata efficacia nel migliorare l’outcome sanitario - e questo spesso man- ca, in quanto non siamo stati in grado di sostenere da un punto di vista tecnico il legislatore, - dall’altro lato l’efficacia della vigilanza si basa sulla capacità di rile- vare le carenze e ripristinare l’osservanza, e quindi il nostro interesse è nel ricercare sempre le pratiche più efficaci a garantire questi fini: come fare una vigilanza efficace, piuttosto che "se" la vigilanza sia efficace… (analisi di processo, certificazione istituzionale…). In altre parole lo stato richiede che qualche organismo verifichi l’applicazione delle sue decisioni: se abdichia- mo perché la legge non appare EBP, la norma non muore: verrà riscontrata da altri che, non partendo da una consapevolezza di imperfezione della disposizio- ne, l’applicheranno in maniera del tutto inefficace; l’igie- nista al contrario cercherà di fornirne una interpretazio- ne la più ragionevole possibile.

3) saper far comunicare l’abbiamo ribadito in

varie sedi che il semplice sapere non è più suf- ficiente, oggi occorre saper comunicare: la comunicazione del rischio è strategica. Ma an- cora più strategica è la capacità di saper far comunicare, di fungere da elemento catalizza- tore in grado di coagulare, di creare condivisio- ne, di far interloquire gli svariati portatori di inte- ressi che rischiano di disperdere in mille rivoli potenzialità e conoscenze che per essere effi- caci devono raggiungere una massa critica in grado di modificare la realtà. Il ruolo dell’igieni- sta deve essere quello del sapiente tessitore che trasforma in concerto il suono di singoli stru- menti e rende eufonica la melodia che ne esce. Strategico nel favorire una evoluzione positiva dello

scenario appare il ruolo dell’università che deve per- mearsi alle richieste di cambiamento professionale, supportare scientificamente i servizi, favorire la forma- zione sul campo dei futuri specialisti, orientare la for- mazione su tematiche che posseggano risvolti appli- cativi nell’attività quotidiana di prevenzione.

Che prospettive reali abbiamo di fronte? Dobbi Sapevamo però che se avessimo fatto bene il nostro mestiere ci saremmo arricchiti dentro, che avremmo dato spazio ai nostri ideali, ai nostri sentimenti, ai no- stri interessi e combattuto l’indifferenza, le ottusità, le chiusure. Saremmo stati materialmente meno agiati, ma spiritualmente più felici

Il medico che somministra un diuretico a Città del Capo o a Pechino ottiene lo stesso effetto; il medi- co che attua il medesimo intervento sugli stili di vita a Città del Capo o a Pechino può nell’un caso fallire e nell’altro avere successo. Noi non dobbiamo dimenti- care che non agiamo nei confronti di organismi biologi- ci, ma nei confronti di popolazioni con le loro culture e tradizioni.

Qui entra in campo la capacità, fatta di conoscen- ze, sensibilità, rapporti, idealità, che deve saper ana- lizzare le situazioni per procedere poi a depurare le varie esperienze, rimuovendone e modificandone gli aspetti incompatibili con la realtà in cui si agisce. Bi- sogna saper applicare nuove tecniche filtrandole con l’anima dell’igienista.

La routine quotidiana, la burocrazia, qualche scot- tatura, possono averci spento, possono averci portato a rinunciare a noi stessi. Dobbiamo togliere il velo che ricopre le nostre antiche motivazioni e sensibilità. Dob- biamo far ributtare queste radici.

Vorrei concludere con una massima di Henry Bergson, filosofo francese vissuto a cavallo tra fine 800 ed inizio 900: Il corpo dell’uomo, reso smisurato dalla tecnica, attende un supplemento di anima.

La nostra è sicuramente quella meno tecnologi- ca delle discipline mediche. Ha una grande compo- nente sociale e relazionale che ne fanno quasi una scienza umanistica.

Chi sceglie di fare l’igienista è, a mio parere, già naturalmente dotato di questo supplemento di anima, fatto di motivazione e sensibilità: bisogna riscoprirlo e rimetterlo in moto e sarà la chiave del successo futuro.

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