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Nel nono trattato preso in considerazione, II, 1 (40), sono due le occorrenze di κίνησις che sono state prese in considerazione384; il tema centrale della trattazione è quello dell'eternità del cosmo: se non ci sono

dubbi che la permanenza dell'universo sia da concepire nei termini di “ciò che sempre è stato e sempre sarà”, rimane, tuttavia, da spiegare in che modo questa eternità si realizzi; non è forse vero che una parte di questo “tutto” è soggetta a continua trasformazione delle parti, tant'è che per la sua componente corporea risulta mortale e distruttibile? E la parte più divina del cosmo, il cielo, non è forse anch'essa provvista di corpo? E non risulterà, per questa sua componente materiale, soggetta a cambiamento e distruzione? È evidente da queste considerazioni come l'eternità dell'universo risulti strettamente connessa al modo di permanere delle sue parti; la chiave per assolvere al compito che si prefigge lo scritto – quello di mostrare come sia concepibile l'eternità del cosmo nella sua interezza – è certamente inscritta nell'eternità del cielo: è scrutando il moto circolare e vitale del cielo che si può cogliere la vera causa della permanenza siffatta del tutto.

9.1 Eternità del cosmo, eternità del cielo, eternità della sfera terrestre:

posizione del problema (1, 1-3,12).

In che modo, dunque, il movimento acquista un qualche ruolo all'interno della trattazione finalizzata alla considerazione dell'eternità del cosmo, che sempre è stato e sempre sarà (κόσμον ἀεὶ λέγοντες καὶ πρόσθεν εἶναι καὶ ἔσεσθαι, 1, 1-2)385?

In relazione all'eternità del cosmo è importante soffermarsi su due considerazioni fondamentali. In primo luogo, è necessario stabilire quale tipo di eternità debba essere attribuita all'universo: non si tratta di un tipo di eternità secondo la forma (κατ'εἶδος, 1, 19), che ben si confà alla permanenza degli esseri nella sfera sublunare, bensì di un'eternità individuale (κατὰ τὸ τόδε, 1, 9)386; questa distinzione, oltre che richiamarsi nel contenuto e

nella forma all'ampio dibattito tradizionale, permette di concepire quella dell'universo come un'eternità che lo riguarda tanto nella sua interezza quanto nelle sue parti, eternità che vale tanto in riferimento alla forma, quanto in riferimento al corpo. In secondo luogo, se è vero

383All'interno di Porfirio, VP, IV, 47 e XIV, 40, il titolo riportato è περὶ τοῦ κόσμου, titolo attestato anche in

Simplicio, Commentario al De caelo I 2, 12, 3 e in Filopono, De aeternitate mundi, XIII, 14; pare quindi che lo scritto sia stato nominato con entrambi i titoli, nell'antichità come tutt'oggi. Per uno studio più approfondito, oltre il celebre scritto di P. Henry, Les états du texte de Plotin, Desclée de Brower, Paris 1938, rimando al commentario R. Dufour, Plotin. Sur le ciel. Ennéade II, 1 (40), J. Vrin, Paris 2003, p. 17-24.

384 In particolar modo: II, 1 (40) 3, 20; 4, 14; 6, 54; non ho riservato all'ultima occorrenza uno spazio di

trattazione, considerando l'espressione in oggetto (ἀλλὰ κινήσομεν τὸ πᾶν ζῷον ἐκ πάντων τὴν σύστασιν ἔχειν) in riferimento al mutamento del pensiero o di un punto vista, espressione che, a mio parere, richiama un ambito differente di utilizzo del nostro termine e che troppo discosta dalla presente trattazione incentrata sull'eternità del cosmo.

385 Come indica H. S.² il riferimento è a Platone, Tim., 41 b 4.

386 Si tratta della distinzione fra l'eternità numericamente individua e quella secondo la specie, distinzione

resa tramite espressioni come ἓν ἀριθμῷ o κατὰ τὸ τόδε (1, 9-11) di contro all'eternità κατὰ τὸ εἶδος; medesimo linguaggio sottende a questo tipo di distinzione in Aristotele, Metaph. 1016 b 31-36; Id., De generatione animalium, II, 1, 731 b 31-732 a 1; si veda su questo punto il commento di J. W. Wilberding, Plotinu's Cosmology. A study of Ennead II.1 (40), Oxford University Press, New York 2006, p. 105.

che da un lato va distinta l'eternità dell'universo da quella della sfera terrestre, dall'altro lato è anche necessario distinguerla dall'eternità propria delle realtà intelligibili: il cosmo non ha, infatti, la medesima autosufficienza di quelle realtà. In questo senso, l'eternità del cosmo sensibile, che sempre è stato e sempre sarà, necessita comunque di una causa del proprio essere e delle propria sussistenza, causa che non precede l'essere del cosmo in un senso meramente temporale, bensì secondo un ordine di tipo ontologico.

Queste considerazioni avvicinano il nostro scritto a una possibile lettura del Timeo platonico: il cosmo, pur non avendo un inizio temporale, non può prescindere dal principio che lo pone e lo mantiene in essere387.

Pertanto, se si vuole realmente comprendere e dimostrare l'eternità del cosmo, l'argomentazione non può esimersi dalla ricerca della causa di questa eternità, causa che deve soddisfare le due istanze sopra menzionate.

Vengono, quindi, richiamate alcune argomentazioni che furono fornite in precedenza nel tentativo di rispondere dell'eternità del cosmo. La prima individua tale causa nella volontà divina (βούλησιν τοῦ θεοῦ, 1, 2): il richiamo al Timeo sembra anche in questo caso esplicito388; tuttavia, questa giustificazione oltre che mancare di chiarezza non sembra

neppure in grado di rispondere della permanenza dell'universo nella sua individualità. Infatti, esattamente come accade nel caso dell'avvicendarsi degli elementi o nella distruzione dei viventi di quaggiù, la volontà divina posta difronte alla natura effimera e transeunte del corpo (1, 8) risulta incapace di conservare il cosmo eternamente se non secondo la specie, imponendo e conservando sempre un identica forma in ciò che è soggetto a continua trasformazione. In questo modo, tanto gli esseri di quaggiù quanto quelli di natura celeste – quindi il cosmo tutto –, in nulla differirebbero secondo un tale tipo di eternità.

La seconda argomentazione che viene ricordata è quella che accomuna l'incorruttibilità del cosmo a quella della sfera celeste in virtù di questo secondo motivo: il cielo, come il cosmo, è incorruttibile (μὴ φθαρῆναι, 1, 16) in quanto racchiude ogni realtà (1, 12-13) e non vi è nulla d'altro in cui possa trasformarsi o che dall'esterno possa distruggerlo. Quest'argomento porge il fianco a due possibili considerazioni: infatti, vale unicamente per ciò che non ha altro al di fuori di sé: lascia, per così dire, estraneo a questa eternità le parti, come ad esempio gli astri, che hanno qualcosa al di fuori in cui possono sempre mutare. In questo caso, se al sole e agli altri corpi celesti si vuole assegnare un'eternità questa sarebbe soltanto un'eternità secondo la forma, che, in questo modo, spetterebbe anche all'universo

387 Potrebbe essere questa una possibile lettura che il nostro pensatore attribuisce allo scritto platonico:

Timeo nel suo discorso sostiene che «ora, per quanto concerne tutto il cielo o il mondo [...] bisogna considerare ciò che fin da principio si deve esaminare riguardo ad ogni cosa, ossia se fu sempre, non avendo mai alcun principio di generazione, oppure se fu generato cominciando da qualche principio. Esso fu generato. Infatti è visibile e tangibile ed ha un corpo; ma tutte le cose di questo tipo sono sensibili, e le cose sensibili si apprendono con l'opinione mediante la sensazione, ed è risultato che sono generate e in divenire. E ciò che è generato abbiamo detto che è necessario che sia generato da una causa», Platone, Tim., 28 b 3-c-7; da quanto detto non è necessario che il cosmo abbia un inizio temporale, ma una causa che ne risponda in un senso ontologico: tale causa è secondo il nostro pensatore l'anima che lo genera e lo mantiene nell'essere (cfr. III, 2 (47) 2-3 e IV, 8 (6) 7); su questo punto R. Dufour, Plotin. Sur le ciel..., p. 74 e ss.

tutto; in secondo luogo bisogna pur considerare l'ipotesi che l'universo si distrugga in se stesso. Pertanto, anche quest'argomento non sembra sufficiente a spiegare la permanenza individuale del cosmo.

L'obbiettivo della trattazione è proprio quello di mostrare la causa della permanenza individuale dell'universo, capace di rendere anche ragione della distinzione fra la parte sublunare del cosmo che permane secondo la forma e della sfera celeste a cui spetta, invece, la permanenza secondo il numero389.

Due sono gli ostacoli principali di cui deve rispondere un tale asserto: a) il primo è quello della natura corporea del cielo: in che modo questo può conservare il suo essere numericamente individuato, dal momento che è provvisto di un corpo la cui natura è un continuo fluire (2, 6)? Ciò vale a maggior ragione se si sostiene, contrariamente a quanto hanno fatto alcuni, che il corpo celeste è costituito dagli stessi elementi che formano i viventi del nostro mondo (2, 15)390; in questo caso, come rendere ragione del fatto che il cielo

sussiste eternamente, mentre così non è per la sfera terrestre? b) il secondo problema riguarda, invece, la natura delle parti, le quali costitutivamente sono soggette ad affezione e a distruzione391.

La risposta a queste questioni può essere trovata unicamente nella natura stessa del vivente: col termine ζῷον, infatti, si fa riferimento all'unione di un'anima a una natura corporea (συγκειμένου ἐκ ψυχῆς καὶ τῆς σώματος φύσεως, 2, 17)392. Poiché il cielo va

considerato in quanto vivente, la causa della sua eternità individuale va ricercata o in una delle sue componenti, l'anima o il corpo, o in entrambe; se il corpo fosse di per sé incorruttibile il vivente non necessiterebbe affatto di un'anima: ciò basta a candidare l'anima come ciò in cui va ricercata la causa dell'incorruttibilità del cielo; e dal momento che si tratta della permanenza “secondo il numero”, è necessario provare che la costituzione del corpo non si oppone all'unione del composto e alla sua stabilità e che non c'è disarmonia nelle realtà che stanno insieme secondo un vincolo naturale (κατὰ φύσιν, 2, 27), quindi che la materia stessa si predispone a quella volontà di perfezione.

9.1.1 Il movimento del corpo del cielo: l'eternità del cielo (3, 1-30)

Una immediata esemplificazione di come possa agire questa causa, nonché dell'apporto sinergico del corpo, viene fornita in relazione al movimento del cielo:

«Il fuoco, poi, è acuto e rapido, poiché non può rimanere quaggiù, proprio come la terra non può rimanere in alto; ora, quando giunge là dove bisogna che si arresti, non si deve credere che esso, stabilitosi così nel suo luogo proprio, non cerchi, al pari degli altri elementi, di

389 Secondo la concezione comunemente diffusa nell'antichità, gli astri sono considerati come dèi immortali

a cui non spetta la stessa sorte delle realtà di quaggiù. Su questo punto si veda quanto già affermato negli scritti IV, (27) 3 e IV, 4 (28).

390 In riferimento a questo secondo punto la polemica è diretta al quinto corpo ammesso da Aristotele, De

caelo I, 3.

391 Come dimostrano IV, (28) 32, 26 e 43, 12. 392 Ivi, 32.

collocarsi su entrambi i lati. Certo, non potrebbe andare più in alto poiché oltre non c'è più nulla; d'altra parte non è nella sua natura andare in basso. Non gli rimane allora che essere docile e farsi attirare dall'anima, in forza di un'attrazione naturale, per vivere une vita felice in un luogo meraviglioso, e muoversi. E se qualcuno temesse che precipiti, si rassicuri: il movimento circolare dell'anima previene ogni tendenza all'inclinazione, come un principio che dominando lo sostenga». «πῦρ δὲ ὀξὺ μὲν καὶ ταχὺ τῷ μὴ ὧδε μένειν, ὥσπερ καὶ γῆ τῷ μὴ ἄνω· γενόμενον δὲ ἐκεῖ, οὗ στῆναι δεῖ, οὔτοι δεῖν νομίζειν οὕτως ἔχειν ἐν τῷ οἰκείῳ ἱδρυμένον, ὡς μὴ καὶ αὐτὸ ὥσπερ καὶ τὰ ἄλλα στάσιν ἐπ' ἄμφω ζητεῖν. ἀνωτέρω μὲν γὰρ οὐκ ἂν φέροιτο οὐδὲν γὰρ ἔτι· κάτω δ' οὐ πέφυκε. λείπεται δὲ αὐτῷ εὐαγώγῳ τε εἶναι καὶ κατὰ φυσικὴν ὁλκὴν ἑλκομένῳ ὑπὸ ψυχῆς πρὸς τὸ ζῆν εὖ μάλα ἐν καλῷ τόπῳ κινεῖσθαι ἐν τῇ ψυχῇ. καὶ γάρ, εἴ τῳ φόβος μὴ πέσῃ, θαρρεῖν δεῖ· φθάνει γὰρ ἡ τῆς ψυχῆς περιαγωγὴ πᾶσαν νεῦσιν, ὡς κρατοῦσαν ἀνέχειν» (II, 1 (40) 3, 13-22).

Alla l. 20 compare una nuova occorrenza del verbo κινέω:

i. il riferimento è al corpo del cielo, il fuoco, che si muove all'interno dell'anima,

κινεῖσθαι ἐν τῇ ψυχῇ (3, 20).

Cosa significa l'espressione secondo cui il il fuoco si muove all'interno dell'anima? Per comprenderla appieno è necessario soffermarci, in un primo tempo, sul movimento che il fuoco compie, mentre successivamente è opportuno chiarire a cosa faccia riferimento la designazione dell'anima come ciò in cui il fuoco compie il proprio moto.

In riferimento al primo punto, il trattato precedentemente analizzato, II, 2 (14), risulta estremamente utile, perché fornisce preziose caratterizzazioni in relazione al moto del cielo393. Da questo scritto si apprende come la rivoluzione celeste costituisca il movimento di

un corpo animato e vivo (ἔμψυχον καὶ ὡς ζῷον)394; l'aspetto spaziale del moto celeste non

può essere colto prescindendo dall'aspetto vitale che lo caratterizza: è un movimento

συναισθητικὴ, συννοητικὴ, ζωτικὴ395. A queste determinazioni potremmo aggiungere che si

tratta di un movimento compiuto in se stesso, perché in nessun caso fuoriesce da sé (οὐδαμοῦ ἔξω οὐδ' ἄλλοθι)396; quest'ultimo risulta essere un punto fondamentale se si

considera che nel presente scritto la prova dell'eternità individuale del cielo si basa proprio su tale compiutezza.

393 R. Dufour, Plotin. Sur le ciel..., p. 98 n. 1 nota che «L'opinion de Plotin sur la composition du ciel n'a

presque pas varié du traité 14 au traité 40. La seule différence notable est l'admission, dans le traité 40, d'un feu spécial dans le ciel. Plotin finira en effet par affirmer que les astres ne se composent pas du même feu que celui qui existe ici-bas (7, 33-43)»; si veda ugualmente Id., Sur le monde, in: L. Brisson, J. F. Pradeau, Plotin..., vol. VI p. 353 n. 33. Su questo punto si vedano inoltre le analisi di A. Linguiti, Il cielo..., p. 255 ss.

394 Come si legge in II, (14) 2, 1, 16. 395 Ivi, 1, 10.

Per comprendere come il moto celeste permanga in se stesso è necessario considerarlo, non tanto per quell'aspetto concomitante del suo spostamento locale, ma per ciò che è propriamente, ovvero un moto vitale, che risulta sia dalla componente corporea ma soprattutto di quella psichica.

Tenuto conto di ciò è possibile tentare di chiarire il secondo punto prospettato: l'espressione secondo cui il fuoco compie il proprio movimento nell'anima richiama proprio quest'aspetto vitale del moto celeste: il fuoco è condotto a una vita migliore (πρὸς τὸ ζῆν εὖ

μάλα), in un luogo meraviglioso, cioè l'anima, in cui esplica il proprio movimento vitale (ἐν καλῷ τόπῳ κινεῖσθαι ἐν τῇ ψυχῇ, 3, 19-20). Queste considerazioni possono essere integrate

proprio facendo riferimento allo scritto 14 (II, 2), dove il movimento del corpo del cielo è ricondotto a quell'anima proveniente dalla terra e intrecciata all'intero universo: questa, a sua volta, è in se stessa e rivolta a se stessa grazie a quell'anima di natura sensitiva che l'avvolge nel proprio movimento attrattivo, di tensione intorno al proprio centro; in questo modo, il moto del cielo si costituisce come il risultato di questa forza attrattiva e dinamica dell'anima, per il desiderio della quale il fuoco si muove in circolo alla volta dell'anima ovunque diffusa397; certo, non va tralasciata quella dimensione “accidentale” che assegna

alla rivoluzione celeste un risvolto locale: si tratta, infatti, di un movimento che avviene in un certo spazio fisico, come designato dalle espressioni “ἐκεῖ“(3, 14) o “ἐν τῷ οἰκείῳ“(3, 15); specialmente quest'ultima espressione si richiama al linguaggio utilizzato per designare il luogo naturale degli elementi, quelli qui citati sono la terra (3, 13) e il fuoco.

Mi sembra, quindi, corretto ipotizzare che qui sia in gioco una certa valenza analogica di ciò che si può intendere col termine “luogo”: il luogo del cielo è, dal punto di vista spaziale, la regione celeste, ben separata e non mista a quella sublunare e che non ha nulla al di fuori di sé; propriamente parlando, però, ciò in cui il cielo compie il proprio movimento è l'anima, o forse sarebbe più corretto dire, il movimento dell'anima. Infatti, rivolgendoci ancora a 14 (II, 2), è il movimento d'amore che l'anima compie intorno al bene a trascinare il corpo del cielo in un moto circolare, un moto che è a sua volta tensione verso il proprio centro398. È ricordando queste considerazioni che bisogna intendere l'espressione secondo

cui il cielo si muove nell'anima. Così come accade anche a noi che i movimenti della nostra anima, per quanto di altra natura, siano capaci di ingenerare un moto fisico, allo stesso modo non bisogna considerare come completamente slegati i due sensi di “luogo” in cui al fuoco spetta il proprio movimento399; è, quindi, opportuno esaminare come il cielo si

397 Ivi, 1, 39-40.

398 Si faccia particolare riferimento all'espressione che designa l'anima come il luogo del corpo dl cielo, Ivi,

1, 45-49: «μᾶλλον δὲ αὐτὴ πρὸς αὑτὴν ἄγουσα ἀεὶ ἐν τῷ ἀεὶ ἄγειν ἀεὶ κινεῖ, καὶ οὐκ ἀλλαχοῦ κινοῦσα ἀλλὰ πρὸς αὑτὴν ἐν τῷ αὐτῷ, οὐκ ἐπ' εὐθὺ ἀλλὰ κύκλῳ ἄγουσα δίδωσιν αὐτῷ οὗ ἐὰν ἥκῃ ἐκεῖ ἔχειν αὐτήν». Anche in IV, 7 (2), 4, 7 troviamo un'espressione simile a quella del nostro trattato per indicare che il corpo si trova nell'anima o meglio nella potenza dell'anima: «ὅπου τὰ σώματα ἱδρύσουσιν, ὡς ἄρα δεῖ ταῦτα ἐν ψυχῆς δυνάμεσιν ἱδρῦσθαι».

399 Si faccia particolare riferimento all'espressione che designa l'anima come il luogo del corpo dl cielo, Ivi,

1, 45-49: «μᾶλλον δὲ αὐτὴ πρὸς αὑτὴν ἄγουσα ἀεὶ ἐν τῷ ἀεὶ ἄγειν ἀεὶ κινεῖ, καὶ οὐκ ἀλλαχοῦ κινοῦσα ἀλλὰ πρὸς αὑτὴν ἐν τῷ αὐτῷ, οὐκ ἐπ' εὐθὺ ἀλλὰ κύκλῳ ἄγουσα δίδωσιν αὐτῷ οὗ ἐὰν ἥκῃ ἐκεῖ ἔχειν αὐτήν». Anche in IV, 7 (2), 4, 7 troviamo un'espressione simile a quella del nostro trattato per indicare che il corpo si trova nell'anima o meglio nella potenza dell'anima: «ὅπου τὰ σώματα ἱδρύσουσιν, ὡς ἄρα δεῖ ταῦτα ἐν ψυχῆς δυνάμεσιν ἱδρῦσθαι».

comporti in entrambi.

Per quanto riguarda l'accezione in senso spaziale del “luogo” in cui il fuoco viene a trovarsi, questo una volta giunto qui dove deve arrestarsi, si comporta alla stregua degli altri elementi: cerca, cioè, una stasi fra le due tendenze che gli sono intrinseche (στάσιν ἐπ'

ἄμφω ζητεῖν, 3, 16): quella di muoversi ulteriormente verso l'alto, che non può essere

soddisfatta in quanto non vi è un altro luogo in cui procedere, e l'impossibilità di muovere verso il basso, in quanto tendenza del tutto contraria alla sua natura. Poiché la condizione naturale del fuoco è quella di essere in movimento400, la stasi fra queste forze opposte

coincide con l'abbandono del fuoco nell'anima, in quella vita ottima e in quel luogo meraviglioso. Quest'abbandono è un abbandono al movimento psichico, quel moto circolare con cui l'anima avvolge il tutto (ψυχῆς περιαγωγὴ, 3, 21): con questo movimento l'anima domina e sorregge il moto celeste, impedendogli di precipitare o di assumere una qualunque inclinazione.

Ecco il cuore della dimostrazione dell'eternità individuale del cielo: è l'anima col suo movimento a rendere il moto celeste compiuto in se stesso, impedendogli di scorrere via: (μὴ ἀπορρέοι, 3, 26). Sono, dunque, vane le credenze di coloro che pongono la necessità del nutrimento della sfera celeste (οὐδὲν δεῖ τρέφεσθαι, 3, 26): se nulla scorre via da lassù, nulla è necessario che vi giunga: se il fuoco né si spegne né discende da lassù non vi è bisogno dell'accensione di un nuovo fuoco401.

Il nostro passo sembra rispondere all'esigenza precedentemente formulata: mostra, infatti, il ruolo fondamentale dell'anima quale causa dell'eternità individuale del cielo: è l'anima col suo movimento a sorreggere il fuoco nel suo moto circolare, impedendogli di disperdersi; ma mostra, altresì, il ruolo cooperativo del corpo del cielo: il fuoco si abbandona al moto psichico secondo un legame naturale (κατὰ φυσικὴν, 3, 19), potremmo aggiungere, in virtù della sua stessa costituzione che lo rende docile (3, 19), mobile e sottile, (ὀξὺ μὲν καὶ ταχὺ, 3, 13). Inoltre, il fuoco da se stesso non compie alcuna inclinazione verso il basso, e dunque permane lassù, nel proprio luogo, senza alcuna tendenza contraria (οὐκ

ἀντιτεῖνον μένει, 3, 23): il suo farsi trascinare dall'anima in un moto circolare non esprime

un movimento contrario alla sua natura e al suo moto ascensivo: rappresenta, invece, l'esito naturale, da un lato della sua impossibilità a procedere o a discendere, dall'altro della sua naturale tendenza al movimento che è la vita del corpo stesso.

9.1.2 La vera causa dell'eternità del cosmo: l'anima (4, 1-5, 23)

L'argomento secondo cui gli astri non necessitano di alcuna nutrizione è risultato di fondamentale importanza per comprendere l'eternità individuale del cosmo; non solo: se lo si analizza ancor più accuratamente si scorgerà in esso la chiave per cogliere adeguatamente

400 Come suggerisce ancora una volta II, 2 (14) 1, 24.

401 L'argomento della nutrizione degli astri sembra giocare un ruolo importante nella dimostrazione

dell'eternità individuale del cielo e, come avremmo modo di vedere, in senso analogo anche per la dimostrazione dell'eternità del cosmo; si tratta di una teoria estremamente diffusa nell'antichità di cui certamente, i portavoce più noti risultano essere Cleante e Crisippo: si vedano a tal proposito SVF II, frr. 652, 663, 677, 690. Per un'analisi più dettagliata a riguardo si veda J. W. Wilberding, Plotinu's Cosmology..., p. 152 ss.

anche la differenza fra le realtà sublunari e quelle celesti, perché permette di comprendere il loro differente modo di permanere. Si prendano ad esempio le parti del nostro corpo, (ἡμέτερα μέρη, 3, 24): queste non riescono a tenersi salde nella figura in cui sono racchiuse ed esigono apporti differenti per potersi sostentare, come testimonia la necessità di alimentarsi continuamente. Un ricambio costante sopraggiunge nei nostri corpi per tutta la durata della nostra vita, continuo ricambio corporeo che certamente consente alla nostra esistenza di esprimersi secondo una durata, ma che inevitabilmente porta al deterioramento e alla distruzione402.

Durata secondo la specie nella sfera terrestre, eternità numericamente individuata del cosmo e del cielo, si basano in ultima istanza sulla possibilità o meno di assicurare la permanenza del costituente corporeo; e la causa più importante (κυριωτάτην αἰτίαν, 4, 7), la ragione ultima che determina tale condizione è, appunto, l'anima.

«Ma la questione più importante è che, posta nell'anima a continuazione delle realtà migliori e muovendosi con una potenza meravigliosa, come può qualcuna delle cose che una volta furono disposte in lei fuggire verso il non essere? Ritenere poi che l'anima, che