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4.3 Movimento e non essere della materia (7, 1-19, 43)

Dopo aver messo in evidenza la differenza fra i corpi e l'essere in senso proprio, l'argomentazione prosegue nel tentativo di mostrare a che titolo il sostrato materiale possa rientrare nell'ambito degli ἀσωμάτων insieme a realtà di tutt'altra natura: tale operazione ha proprio la funzione di specificare l'alterità profonda fra la materia e gli esseri intelligibili, nonostante entrambi possano essere ricondotti ad un medesimo ambito; certo, sarebbe più corretto affermare che la materia rientra nel rango degli incorporei, non in virtù del suo essere, ma piuttosto a titolo del suo non essere (μὴ εἶναι, 7, 2):

«Ma oltrepassando i confini di tutte queste cose, neppure potrebbe ricevere correttamente la denominazione di ente, e sarebbe più appropriato chiamarla non ente; non nel senso però in cui è non essere il movimento e la stasi, bensì veramente nel senso di non ente, simulacro, parvenza di massa, desiderio di realtà sussistente, stabile senza essere in quiete, in se stessa invisibile»

«ἀλλὰ ταῦτα ὑπερεκπεσοῦσα πάντα οὐδὲ τὴν τοῦ ὄντος προσηγορίαν ὀρθῶς ἂν δέχοιτο, μὴ ὂν δ' ἂν εἰκότως λέγοιτο, καὶ οὐχ ὥσπερ κίνησις μὴ ὂν ἢ στάσις μὴ ὄν, ἀλλ' ἀληθινῶς μὴ ὄν, εἴδωλον καὶ φάντασμα ὄγκου καὶ ὑποστάσεως ἔφεσις καὶ ἑστηκὸς οὐκ ἐν στάσει καὶ ἀόρατον καθ' αὑτὸ καὶ φεῦγον» (7, 9-14).

Rileviamo all'interno del nostro passo una nuova occorrenza di κίνησις:

i. alla l. 7, 12 del nostro sostantivo è predicato il non essere, κίνησις μὴ ὂν; è importante sottolineare due dati: in primo luogo, il riferimento immediatamente successivo alla “stasi” per cui è ripetuta la medesima formula, στάσις μὴ ὄν, rievoca la coppia dei generi dell'essere intelligibile, i quali non sono “non essere” in senso assoluto, bensì sono distinti e al contempo identici nell'unità del pensiero; in secondo luogo, notiamo come il riferimento al nostro sostantivo sia introdotto da negazione, il che fa del non essere di κίνησις e στάσις un caso da

escludere.

Il nostro passo s'incentra sul modo in cui deve essere definito il non essere della materia159; per farlo il nostro pensatore si avvale di un richiamo di antica memoria, quello

alla coppia dei sommi generi del Sofista platonico160. A mio parere qui il riferimento è a quei

luoghi del dialogo in cui movimento e quiete sono chiamati a mettere in evidenza la distinzione fra i diversi significati dell'essere (250 a ss.): moto e quiete “non sono” in quanto entrambi si distinguono dall'essere, e tuttavia entrambi “sono” in quanto partecipano di esso.

Ora, il centro nodale della trattazione è che il “non essere” della materia non è il “non essere” di movimento e stasi, al contrario si tratta di un ἀληθινῶς μὴ ὄν (7, 12-13); insomma, la materia pur rientrando nel medesimo ambito degli incorporei in cui rientrano anche l'anima e l'Intelligenza si differenzia radicalmente rispetto a questi, proprio in virtù del suo “non essere”. La ὕλη infatti non è né anima (οὔτε δὲ ψυχὴ οὖσα, 7, 7), né Intelligenza, (οὔτε νοῦς), né vita (οὔτε ζωὴ), né forma, (οὔτε εἶδος), né ragione formale, (οὔτε λόγος, 7, 8): il che la rende priva di qualsiasi determinazione e di qualsiasi limite,

(οὔτε πέρας, 7, 8); né può esserle attribuita alcuna potenza (οὔτε δύναμις), poiché non è

capace di produrre alcuna cosa, (7, 9). Il suo essere è relegato ad esprimersi unicamente secondo la natura dell'immagine, εἴδωλον: è fantasma della massa, mero desiderio di essere realtà, (ὑποστάσεως ἔφεσις, 7, 13), inerme ma priva di qualsiasi stabilità (ἑστηκὸς οὐκ ἐν

στάσει, 7, 14); insomma, una materia priva di ogni specie di essere non può che manifestarsi

nel segno della mera parvenza: appare a chi non vuole vederla, e si cela a chi la cerca; quando sembra grande è piccola, quando è maggiore è minore: il suo è un gioco ingannevole e fugace (οἷον παίγνιον φεῦγον, 7, 23), in cui immagini di forme sempre contrarie si avvicendano riflettendosi costantemente: è come uno specchio che sembra essere tutto e che invece non è nessuna delle cose che appare (ἔχον οὐδὲν καὶ δοκοῦν τὰ

πάντα, 7, 26-27)161.

In questo gioco illusorio neanche le realtà riflesse sono veramente essere, ma immagini di immagini (εἴδωλα ἐν εἰδώλῳ, 7, 24), mere copie degli esseri che sono veramente; è l'apparenza che diviene (ψεῦδος, 7, 38): esseri inautentici riflessi nell'inautentico (εἴδωλον

ὂν καὶ εἰς οὐκ ἀληθινὸν οὐκ ἀληθές, 13, 32).

Ma è soltanto in virtù del suo essere completamente amorfa (7, 29), che la materia può dare l'illusione di accogliere l'essere di tutte le cose: può essere così inscenato il divenire nel

159 In merito alla concezione di non-essere rinvio allo studio di J.-M. Narbonne, Le non-être chez Plotin et

dans la tradition greque, «Revue de philosophie ancienne», 10 (1992), pp. 115-133, e D. O'Brien, Le non-être dans la philosophie greque: Parménide, Platon, Plotin, in: P. Aubenque, M. Narcy (édit.) Études sur le Sophiste de Platon, Bibliopolis, Napoli, 1991, pp. 317-364; L. Lavaud, D'une métaphysique à l'autre: figures de l'altérité dans la philosophie de Plotin, Vrin, Paris 2008, pp. 22-54. Sull'interpretazione plotiniana del dialogo platonico si veda l'analisi di VI, 1 (42), 1 e VI, 2 (43); su questo concetto rimando a J.M. Charrue, Plotin lecteur de Platon, Les Belles Lettres, Paris 1978, pp. 205-229; T. A. Szlezák, Platone..., p. 170 e ss.;; L. Brisson, De quelle façon Plotin interpre-t-il les cinq genres du Sophiste? (Ennéades VI 2 [43], 8), in: P. Aubenque, M. Narcy (édit.) Études..., pp. 449-473.

160 Cfr. Platone, Soph., 254 d-e.

161 Si veda su questo punto l'analisi di F. Fauquier, La matière comme miroir: pertinence et limites d'une image

suo continuo fluire: secondo la formula platonica, realtà che entrano e che escono, mere imitazioni degli esseri reali (εἰσιόντα καὶ ἐξιόντα τῶν ὄντων μιμήματα, 7, 27-28)162, che non

hanno vera consistenza, infatti né dimorano veramente nella materia, né possiedono davvero la capacità di fuggirle, (εἴδωλον οὐ μένον οὐδ' αὖ φεύγειν δυνάμενον, 7, 18-19): appaiono e scompaiono: sono parvenze vacue, instabili, aleatorie (7, 30-31). Il loro essere presenti alla materia (11, 7-8) è paragonato all'azione della luce che non apporta alcuna alterazione di forma a ciò che illumina (9, 10); infatti non sortiscono nessun effetto reale sulla materia, ma, come se questa fosse una superficie d'acqua, l'attraversano senza dividerla; si tratta di copie che non hanno alcuna parte del potere di cui dispongono gli esemplari (7, 34-35), poiché vi è una radicale differenza fra le immagini viste e gli enti che le originano (7, 36-37): a questi esseri inautentici non è dato alcun potere di incidere sulla materia, di influenzarla o alterarla in qualche modo: il loro continuo avvicendamento è simile al passaggio di forme nel vuoto.

La ὕλη dal canto suo, si comporta come una superficie d'acqua, come i corpi trasparenti, che non subiscono alcuna influenza dalle immagini che mettono in mostra (9, 17).

In questo grande spettacolo dello ψεῦδος (7, 38) anche quelle che sembrano affezioni della materia non sono che finzione: questa infatti non patisce affatto (7, 37). Invero, la condizione perché si dia il patire è che ciò che subisce sia tale da possedere qualità e potenze opposte a quelle che sono capaci di farlo patire (8, 1-3); e il patire è un effetto di contrari rivolto a contrari (9, 32-33)163; come illustra l'esempio, solo se il calore è inerente ad

un oggetto (8, 3) può esserci mutamento ad opera di ciò che è freddo, e per ciò che è umido ad opera di ciò che disseca.

Ma la materia è priva di qualunque forma! Certo può apparire - sempre secondo quel gioco fugace - che raffreddamento e riscaldamento si producano in essa, ma non bisogna in alcun modo credere che sia proprio questa a raffreddarsi e a riscaldarsi. A subire è invece ciò che viene dopo, ὕστερον (7, 4), il composto, συναμφότερον (9, 36) di materia e ragione formale (12, 43), che patisce secondo quel rapporto di qualità opposte che gli vengono a mancare (11, 12-15).

Così, mentre un corpo può essere diviso perché partecipa della grandezza, così non è per la materia indeterminata, e in generale si deve dire che a ciò che non è corpo non appartengono in nessun modo le affezioni del corpo (11, 25).

Pertanto la materia si mantiene sempre identica, senza subire influsso alcuno; non si accresce per l'aggiunta di qualcosa né muta quando qualcosa se ne va (11, 17): rimane invece ciò che è fin dall'origine (μένει γὰρ ὃ ἐξ ἀρχῆς ἦν, 11, 18), inalterata (11, 19).

In questo modo l'antico problema della partecipazione, μετάληψις, delle forme alla materia è qui risolto nel senso dell'apparenza e dell'immagine, οἷον δοκεῖν (11, 29-31): permette, così, da un lato, di comprendere e spiegare la consistenza del divenire, dall'altro di mantenere l'integrità delle forme e, a suo modo, del sostrato.

Allora si deve dire che così come le forme non subiscono alcun mutamento sostanziale (εἴδεσιν οὖσιν οὐκ ἔστιν ἀλλοιοῦσθαι κατὰ τὴν οὐσίαν, 10, 23), in quanto la loro sostanza

162 La formula utilizzata «τὰ δὲ εἰσιόντα καὶ ἐξιόντα τῶν ὄντων μιμήματα» sembra richiamare Platone,

Tim., 52 C 4.

consiste nell'essere tali, così anche l'essere della materia consiste proprio nel rimanere qual'è (ἀλλὰ μένειν, 10, 26), nel conservarsi identica senza subire affezioni: così come lassù è inalterabile la forma, quaggiù lo è la materia.

Allora, anche di quest'ultima si deve dire che è incorruttibile, ἄφθαρτος (10, 11), poiché è prima del divenire e del cambiamento (πρὸ γενέσεως οὖσα εἴη ἂν καὶ πρὸ ἀλλοιώσεως, 13, 14-15); fugge di continuo e per sua natura forma (13, 9); e senza uscire da se stessa, permanendo sempre ciò che è, possiede la forma senza possederla164, e tutto appare senza

essere niente di ciò che appare; è ricettacolo e nutrice (ὑποδοχὴ καὶ τιθήνη γενέσεως

ἁπάσης, 13, 12-13)165, perché accoglie tutte le cose pur conservandosi nella sua impassibilità;

o il che è uguale, è il luogo «in cui ciascuna cosa appare nascendo e di nuovo da lì esce»166.

La sua è una differenza assoluta rispetto a tutte le altre cose. Ora la materia:

«non s'identificherà neppure con la grandezza in sé. La grandezza è infatti una forma, non qualcosa di ricettivo; la grandezza è tale di per sé e non al modo del sensibile. Ma dato che posta nell'Intelletto o nell'Anima vuole essere grande, ha concesso agli esseri che in un certo senso vogliono imitarla – per desiderio verso di essa o per impulso verso di essa – il potere d'inserire in altro la loro affezione».

«οὐδ' αὖ μέγεθος αὐτὸ ἔσται. εἶδος γὰρ τὸ μέγεθος, ἀλλ' οὐ δεκτικόν· καὶ καθ' αὑτὸ δὲ τὸ μέγεθος [ἀλλὰ καὶ εἴ τι μίμημα αὐτῶν καὶ τούτου ἄμοιρον εἰς οἰκείωσιν εἶναι], οὐχ οὕτω μέγεθος. ἀλλ' ἐπεὶ βούλεται ἐν νῷ ἢ ἐν ψυχῇ κείμενον μέγα εἶναι, ἔδωκε τοῖς οἷον ἐθέλουσι μιμεῖσθαι ἐφέσει αὐτοῦ ἢ κινήσει τῇ πρὸς αὐτὸ τὸ αὐτῶν πάθος ἐνσείσασθαι εἰς ἄλλο» (17, 1-8).

Rileviamo all'interno del passo una nuova occorrenza del termine κίνησις:

i. alla l. 17, è fatto riferimento al movimento degli esseri verso la grandezza, s'intende la grandezza in quanto tale, κινήσει τῇ πρὸς αὐτὸ [τὸ μέγεθος εἶδος]; si tratta di una tensione e di un desiderio “mimetico” delle realtà di quaggiù nei confronti di quelle di lassù.

In questo passo il termine κίνησις è riferito al movimento di quelle realtà che imitano i veri esseri: è un movimento di desiderio e di tensione verso ciò da cui provengono. È messo in evidenza in un certo senso il potere propulsivo che appartiene ai veri esseri: questi infatti, da un lato, è necessario che permangano in se stessi (μένει ἐκεῖνα, 14, 6), mentre d'altra parte è necessario che vengano riflessi in altro (ἐμφαντασθήσεται ἐν ἄλλῳ, 14, 6)167. Così 164 È importante segnalare come le espressioni “non uscire da sé”, “permanere” e “possedere senza

possedere” sono le stesse usate per definire l'impassibilità dell'anima e della materia, entrambi essere incorporei, uno a titolo del suo essere, l'altro del suo non essere.

165 Cfr. Platone, Tim., 49 a 5. 166 Ivi, 49 e ss.

dalla grandezza quale forma in sé (17, 1-2), procede un'immagine (προόδῳ φαντάσεως, 17, 6-7) che fa convergere ciò che nella materia è privo di grandezza proprio verso di essa, e quasi distendendola (πεποίηκεν αὐτὸ τῇ παρατάσει δοκεῖν εἶναι μέγα, 17, 9-10), la fa apparire grande.

Così tutti i veri esseri producono un riflesso di sé in altro, (17, 13) e tutte le cose sono grandi perché partecipano della grandezza. Vanno così poste in relazione ciò che è μέγεθος

αὐτὸ e la grandezza di ciascuna ragione formale168 di cui gli esseri di quaggiù partecipano.

Ora la materia, illuminata dalla grandezza in sé, per il tramite dei λόγοι che si riflettono in essa, diviene grande e grandi possono dirsi ciascuna delle sue parti (17, 15-17). Certo, anche in questo caso quella della materia è una ψευδῶς μέγα (17, 10): infatti per la sua natura intrinsecamente incapace di fare tutt'uno con l'essere (14, 23) partecipa di esso pur non partecipando (μὴ μετέχον μετέχει, 14, 21-22), e rimane intrinsecamente altro da ciò che fa apparire (14, 13-14): certo, non riesce a impadronirsi realmente della grandezza ma tende per quanto le è possibile verso di essa, e in tale distensione rimane estesa (τῷ μὴ ἔχειν τὸ

μέγα εἶναι ἐκτεινόμενον πρὸς ἐκεῖνο παραταθῇ τῇ ἐκτάσει, 17, 11-12)169.

Pertanto la materia in quanto tale non si manifesta affatto (15, 26) ma così protesa a tutte le cose inerisce secondo quel suo modo particolare, ora alla sfera delle forme ora a quella delle masse (17, 20); ed è soltanto il potere della forma a far divenire ciò che non è tutte le forme (17, 21); certo, anche la ragione formale che è nella materia rimane pur sempre esterna ad essa in ragione della differenza della sua sostanza.

Tuttavia la natura dell'immagine è quella di inerire ad altro (14, 1-3): ed è la materia nel suo essere che permette a tali immagini di riflettersi e manifestarsi: infatti è causa della generazione (αἰτία τῆς γενέσεως, 14, 34-35) e dell'apparire di tutte le cose (αἰτία ἄλλοις

τοῦ φαίνεσθαι, 15, 27).

Infatti senza la materia nulla potrebbe darsi, così come nessuna immagine potrebbe apparire senza ciò che la riflette.

Ora proprio perché i veri esseri, in quanto tali, si riflettono in altro, si deve comprendere come queste realtà giungano fino alla materia:

«ciò che pertanto procede dal principio razionale superiore possiede ormai una traccia di quello che verrà ad esistere; muovendosi infatti come un'immaginazione raffigurativa, il principio razionale o il movimento che si origina, è già un processo di divisione; altrimenti se fosse un'unica e identica cosa non sarebbe neppure mosso ma resterebbe statico»

Armstrong, Emanation in Plotinus, «Mind», 46 (1937), pp. 61-66; J.-M. Narbonne, La métaphysique de Plotin, J. Vrin, Paris 1994; G. Aubry, Dieu sans la puissance: dunamis et energeia chez Aristote et chez Plotin, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2006; Ch. Rutten, La docrtine des deux actes dans la philosophie de Plotin, in: «Revue philosophique de la France et de l'étranger», 146, (1956), pp. 100-106; A. C. Lloyd, The Anatomy of Neoplatonism, Oxford University Press, Oxford 1990, pp. 98-105.

168 In riferimento alle ragioni formali si veda supra, n. 7.

169 Dall'azione dell'anima e dei logoi dipende tale distensione, παραταθῇ, che sembra richiamare non solo il

concetto di spazio qui evocato ma anche quello di tempo, cfr. su questi argomenti: VI, 4 (22), 12-19, e III, 7 (45), 11, 41.

«τό τε οὖν προιὸν ἐκ τοῦ ἐκεῖ λόγου ἤδη ἴχνος ἔχει τοῦ μέλλοντος γενήσεσθαι· οἷον γὰρ ἐν φαντασίᾳ εἰκονικῇ κινούμενος ὁ λόγος ἢ ἡ κίνησις ἡ ἀπὸ τούτου μερισμός ἐστιν· ἤ, εἰ ταὐτὸν εἴη ἕν, οὐδὲ ἐκινήθη, ἀλλὰ μένει· ἥ τε ὕλη πάντα ὁμοῦ ὥσπερ ἡ ψυχὴ οὐ δύναται εἰσοικίσασθαι· ἢ ἦν ἄν τι ἐκείνων· αὐτήν τε αὖ δεῖ τὰ πάντα δέξασθαι, μὴ ἀμερῶς δὲ δέξασθαι.» (18, 31-37).

Nell'ultimo passo che presentiamo compaiono tre nuove occorrenze del termine κίνησις: i. alla l. 18, 33 il verbo κινέω è riferito alla ragione formale e caratterizzato nei termini di una rappresentazione immaginativa, ἐν φαντασίᾳ εἰκονικῇ

κινούμενος ὁ λόγος;

ii. alla l. 18, 34 il nostro sostantivo designa il movimento che si origina dalla ragione formale, κίνησις ἡ ἀπὸ τούτου [scil. λόγου]; questo movimento è caratterizzato come un processo di divisione, μερισμός ἐστιν;

iii. la terza occorrenza la troviamo alla l. 18, 35: il verbo κινέω è riferito ancora una volta alla ragione formale; si tratta in questo caso di un apodosi che prospetta, per rigettarla, l'assenza di movimento della ragione formale: laddove questa fosse ταὐτὸν e ἕν (18, 34), allora non dovrebbe essersi mossa ma permanere. Il movimento è riferito alla ragione formale che procede dalle realtà intelligibili portando con sé una traccia di esse fin nella materia; questo movimento è paragonato a quello di una specie di immaginazione rappresentativa (ἐν φαντασίᾳ εἰκονικῇ, 18, 33)170, ad

indicarne lo statuto di immagine riflessa nella materia.

Viene in questo senso richiamata la natura propria dei veri esseri che consiste nell'attività e nella produzione un'altra realtà (14, 20), e in particolar modo l'attività formatrice dell'anima, che proprio attraverso i λόγοι è capace di generare e dare vita al mondo fisico, facendone un'immagine peritura e diveniente, delle realtà di lassù; certo, la materia risulta inadatta e incapace di afferrare questi riflessi dell'essere, e dal canto suo si accontenta di rifletterne le immagini: il suo ruolo è paragonabile a quello di un'ombra, incapace da sola di produrre qualunque cosa, attende invece il potere di un principio agente. La natura, o la ragione formale, capace di strappare la materia al completo oblio, non rimane in sé immobile ma si muove e procede verso ciò che è dopo di lei; il risultato di tale movimento è un grado ulteriore di dispersione: infatti, la materia, incapace di accogliere tutte le forme in modo indiviso come sono nell'anima, è costretta, per così dire, ad andare incontro a ciascuna, rendendosi atta, di volta in volta ad ogni singola estensione. Questo spiega come nella materia non vi sia alcuna sovrapposizione, la materia comprende tutte le forme nella loro successione e divisione: sia la forma dell'universo che è primigenia, che ciascuna in particolare; si può in questo modo spiegare come la materia dell'animale si divide nello stesso momento in cui si divide l'animale.

Tuttavia nessuna di queste forme la muta in qualche modo, né la materia trae vantaggio o svantaggio dal loro arrivo; non subisce nessun urto e nessuna alterazione, perché le potenze agiscono sui contrari (19, 3-4), e non sul sostrato.

Le passioni riguardano dunque i corpi, i quali si alterano in risposta alle qualità e alle

potenze che ad essi ineriscono: il patire è per loro parte del divenire che le avvolge, un non essere più ciò che erano; mentre la materia rimane identica. Essa è definita madre perché non ha il potere di generare nulla, ma solo di accogliere come un ricettacolo e manifestare ciò che si genera.

4.4 Conclusioni

Nei capitoli 1-4 dello scritto il termine κίνησις acquista una forte valenza in riferimento all'universo psichico; con movimenti dell'anima è designato tanto l'ambito emotivo (attrazione, repulsione, dolore, piacere, gelosia, brama etc.) quanto quello in cui sono coinvolte le facoltà superiori dell'anima (opinione e ragione). La natura incorporea dell'anima è tale in virtù della sua appartenenza all'essere che è veramente: uno degli aspetti intrinseci di quest'essere è proprio la vita, vita che nell'anima corrisponde ai suoi movimenti e alla sua propria attività; il terreno più scivoloso della trattazione si è dimostrato proprio quello in riferimento alla riflessione sui πάθη: si tratta di sciogliere il paradosso fra l'asserzione dell'impassibilità dell'anima e il carattere passivo delle affezioni, paradosso a cui sottende la questione ben più spinosa del modo in cui l'anima è presente al corpo e, in un certo senso, condivide con esso certi stati, risponde o corrisponde a ciò che viene da esso. La κίνησις si è rivelata il centro nodale di questo orizzonte concettuale: quelli che comunemente vengono definiti movimenti dell'anima, le sue passioni, devono essere concepiti in un'accezione differente: sono i suoi stessi atti, e gli atti delle realtà incorporee non comportano affezione, aggiunta, o alterazione. Proprio in riferimento al caso più problematico, quello inerente la parte dell'anima conosciuta come il luogo in cui si generano le affezioni, è messo in evidenza come questa facoltà rientri, come le altre nell'ordine dell'εἶδος, una forma che in virtù della sua presenza, permanendo nella propria stabilità, è causa dei movimenti del corpo; l'anima dimorando, μένειν (10, 26) nella sua impassibilità e nella sua immobilità si è rivelata la causa dei movimenti e delle affezioni del corpo, proprio come l'opinione è causa efficiente dei movimenti del corpo, e come la presenza dell'armonia è causa del movimento delle corde. Tuttavia l'immobilità dell'anima è tale solo in relazione al movimento del corpo; infatti, il movimento e la vita hanno un significato antecedente a quello che riscontriamo nel dominio sensibile; un'accezione propria di movimento e di vita che deriva all'anima dal suo rapporto col principio.

È proprio l'eterogeneità dell'anima – l'opposizione fra la natura intelligibile e quella sensibile – che permette di salvaguardarne l'impassibilità, di spiegare il fenomeno delle affezioni, il principio psichico come causa efficiente delle affezioni.

Anche nel corpo il movimento costituisce un immagine di una certa vita; il che rende evidente il legame del corpo al suo principio, l'anima che tramite le ragioni formali genera e dà la vita al cosmo sensibile; è la costituzione stessa dei corpi, in quanto composto di materia e forma, a rendere possibile il patire come il passaggio da certe qualità e potenze a quelle opposte. L'alterazione è infatti propria di quelle realtà che possiedono grandezza e sono quindi suscettibili di scomposizione e distruzione

L'eterogeneità della natura dell'anima è ancora più forte se la si confronta con la materia, nonostante anche quest'ultima si sia rivelata impassibile e incorporea. Evidente in questa sede il riferimento al Timeo platonico (50 c), allorché si fa più intensa l'esigenza di una

riformulazione del rapporto di partecipazione dell'intelligibile al sensibile, dell'anima al corpo, problematica contenuta in nuce nella riflessione sui πάθη; la materia, il cui “non

essere” è quanto di necessario a riflettere le immagini delle ragioni formali; la sua impassibilità non deriva se non dalla sua intrinseca incapacità ad accogliere l'essere: la sua è un'indigenza profonda, un'alterità radicale rispetto a tutte le cose che sono, anche rispetto a quelle che sono delle mere copie. La materia si nutre dell'apparenza, mette in scena un falso gioco fugace: appare sempre ciò che non è, partecipa e non partecipa di ciò che mette in mostra, possiede e non possiede le immagini dei veri esseri; in questo senso, al pari dell'anima, non esce da se stessa (13, 13), ma permane nella sua assoluta mancanza di essere e di forma, ladra che non riesce mai a far proprio ciò che riflette.