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Il godimento del corpo Iperidentificazioni, dismorfismi e altri delir

1.3 Cinema e psicopatologie contemporanee

Riteniamo che alcune forme della clinica psicogena contemporanea – e in particolare quelle delle personalità prepsicotiche, che agiscono a imitazione di qualcuno designato come il proprio doppio speculare – possono essere prese in considerazione e fatte interagire con la questione dell’identificazione cinematografica, particolarmente in alcuni film.

In questi nuovi mali contemporanei il soggetto aderisce addosso al proprio godimento come una colla, incarnando un sintomo che non è più una formazione di compromesso con il proprio desiderio né il sostituto della sua attività sessuale, come indicava la dottrina freudiana, ma «si configura in una coincidenza clinicamente inedita col carattere stesso del soggetto, con la sua personalità, con la sua identità»31. Emerge ancora una volta con forza il carattere massivo e monoreferenziale del godimento, prodotto da un sintomo sempre meno interessato a interagire con l’esterno.

La personalità multipla a scissione verticale ad esempio – ci ricorda Recalcati, riprendendo il libro di Massimo De Carolis Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica (2008) – è una delle figure più caratteristiche della psicopatologia contemporanea, non più riducibile alla clinica nevrotica della rimozione32. Accanto a questa e alle già citate personalità “come se”, in cui l’identificazione del soggetto tende ad assumere un carattere rigido, adesivo e desoggettivato, modellandosi plasticamente e adattativamente sull’altro ma senza porre all’altro alcuna domanda, Recalcati colloca le personalità del falso Sé di Winnicott: si tratta, in questi casi,

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I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 290. A proposito della nostalgia – etimologicamente, “dolore del ritorno” – Jean Allouch fa notare che si tratta di uno stato d’animo avvertito in misura speciale tanto nel caso di abbandono da parte della persona amata quanto in quello del lutto. Lo stesso Freud tendeva poi ad assimilare sofferenza psichica e dolore fisico sostenendo che l’oggetto perduto – nel lutto così come nell’amore deluso – rivestirebbe una stessa funzione, dando luogo in sostanza a un malessere simile a quello provocato da una parte del corpo dolorante; cfr. J. Allouch, Douleur, plaisir et jouissance, in AA. VV., Plaisir, souffrance et sublimation, Pleine Page, Bordeaux 2008, pp. 339-353.

31 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 183. I pazienti psicotici dicono spesso di sentirsi «collés à leur image»,

incollati alla propria immagine; D. Vasse, La dérision ou la joie, cit., p. 250.

32 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 155. A differenza del modello a scissione orizzontale che definiva la

versione classica della clinica delle nevrosi e che stabiliva una netta distinzione tra un sopra e un sotto (cioè rimozione/ritorno del rimosso), il modello individuato da De Carolis propone una nuova topica “verticale” che divide irreversibilmente e senza alcuna possibilità di intersezione ciò che la rimozione aveva separato: mondi, micromondi, nicchie, parti scisse. Ne deriva, per il soggetto, un processo di dissociazione felice, attraverso il quale egli «si protegge dal flusso indifferenziato degli stimoli generando una nicchia operativa sua propria», quale ad esempio il gioco, oppure, nel nostro caso, il cinema.

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di una vera e propria organizzazione della personalità che tende a riparare il soggetto dall’angoscia ingessandolo in identificazioni rigide e monolitche e annullandolo nella sua originalità e capacità creativa, producendo così un soggetto vuoto, completamente aspirato dalle convenzioni.

Mentre nella psicosi freudiana classica – di cui quella schreberiana, basata sulla disgregazione e l’esplosione della soggettività, rappresentava il modello assoluto – il soggetto rompeva del tutto con la realtà, alienandosi nel proprio esclusivo delirio, l’alienazione del “falso Sé” non allontana il soggetto dal mondo, ma fa sì che vi aderisca eccessivamente, svuotandosi della propria soggettività. «Se per Schreber è la realtà che si eclissa di fronte a uno straripare della soggettività delirante, per il falso Sé winnicottiano è il soggetto che si eclissa di fronte a un adattamento impersonale e totalmente alienato alla realtà»33.

In queste patologie infatti il sintomo non è più un fattore di divisione della soggettività in attesa di essere decifrato, ma un’istanza massiccia di unificazione e solidificazione che impone al soggetto un’eccessiva adesività – acritica e impersonale – al sistema, fatto che lo allontana sempre più dal rapporto autentico e compromissorio con il proprio desiderio e con il desiderio dell’altro.

Così accade nella malattia normotica descritta da Christopher Bollas, nella quale il soggetto, come “disumanizzato”, tende a “farsi oggetto” tra gli oggetti concreti della realtà, sganciandosi completamente dal desiderio come espressione della mancanza a essere poiché le cose di cui è circondato, nella loro più acerba materialità, sembrerebbero promettere e garantire quell’estinzione del vuoto che il godimento innanzitutto insegue e comporta34.

Questa vera e propria iperidentificazione alla realtà può trovare un corrispettivo anche nel cinema. Lucilla Albano ricorda ad esempio il caso, riportato da Musatti, di uno spettatore che durante la proiezione di Io ti salverò (Spellbound, Alfred Hitchcock, 1945) si identificò a tal punto con il film da dover essere trasportato d’urgenza in una clinica a causa di un «acuto malore» (il film richiamava in maniera forte alcuni episodi della sua vita)35.

Un esempio inverso rispetto a quello appena considerato viene riportato da Marco D’Agostini e Franco Fabbro nella loro recente ricerca consacrata alla “psicologia degli enneatipi” – sostanzialmente, lo studio delle tipologie generali di personalità e dei loro sottotipi – attraverso

33 Ivi, p. 186. 34 Ivi, p. 190.

35 L. Albano, Lo schermo dei sogni, cit., p.188. Ricordiamo a tale proposito anche una dichiarazione molto intima di

Giuseppe Bertolucci, che nel rievocare un ricordo d'infanzia legato al cinema – quando un giorno, in compagnia della madre, vedeva Ordet di Dreyer (1955) – afferma: «non credo di aver mai provato una commozione così forte al cinema, né di aver mai più sperimentato un fenomeno di identificazione così totale come quello che avvenne quel pomeriggio tra il personaggio della madre del film e la mia mamma, seduta accanto a me, in prima fila nella galleria del Rialto: morta e risorta, perduta e ritrovata»; G. Bertolucci, Cosedadire, Bompiani, Milano 2011, p. 187.

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l’analisi di personaggi cinematografici significativi, in grado di attivare nello spettatore forti meccanismi di dissociazione, regressione, conversione, annullamento e rimozione. In particolare, gli autori raccontano di un loro amico che avrebbe più volte negato di conoscere il film Gente comune (Ordinary People, Robert Redford, 1980) sebbene lo avesse visto almeno due volte, esperienza che avrebbe completamente rimosso «perché nella sua vita aveva subito una tragedia quasi identica a quella descritta nella pellicola»36.

Sempre per quanto riguarda le reazioni degli spettatori ai film – e, più nello specifico, le reazioni dei pazienti in cura psichiatrica – Glen e Krin Gabbard ricordano invece i seguenti episodi:

Dopo aver assistito a Qualcuno volò sul nido del cuculo [One Flew Over the Cuckoo’s Nest, Milos Forman, 1975], un paziente ricoverato in un ospedale psichiatrico revocò l’assenso dato in precedenza al trattamento con elettroshock […]. Un’altra paziente ospedalizzata uscì da Frances [Graeme Clifford, 1982] dopo una scena in cui le pazienti venivano violentate da un gruppo di marinai che erano stati spacciati all’interno dell’ospedale come assistenti psichiatrici. La paziente, che disse che il film l’aveva fatta sentire come se “tutto il mondo si fosse rivelato contro di me”, affermò che fino ad allora aveva percepito il proprio reparto d’ospedale come un luogo sicuro, ma che il film le aveva fatto mettere in dubbio sia le ragioni dei professionisti della salute mentale sia il fatto che fossero degni della sua fiducia37.

In generale, affermano gli autori, «la forza del cinema è particolarmente evidente quando un paziente in trattamento afferma di sentirsi “guarito” da una psicoterapia rappresentata in un film. Alcuni fra gli spettatori si identificano a tal punto con i personaggi del film, da vivere la terapia come se coinvolgesse direttamente loro stessi»38.

Non solo: è evidente che l’influenza dell’esperienza di visione cinematografica si esercita con forza, oltre che sui pazienti, sui dottori stessi. Uno di questi confessa ad esempio, con qualche imbarazzo, che

era stato così colpito dal ritratto affascinante di Judd Hirsch [il dottor Berger in Gente comune] da aver cercato di inserire alcune delle sue qualità nel proprio comportamento verso i pazienti. Confessò persino di aver preso a prestito letteralmente alcune battute del personaggio […]. Un analista più anziano ammise di aver scelto la

36 M. D’Agostini, F. Fabbro, Enneagramma e personalità. Tipi e sottotipi nei personaggi dei film, Astrolabio, Roma

2012, p. 227. Curioso notare come questo stesso film compaia nell’esempio proposto da Glen e Krin Gabbard che considereremo tra un istante. Sul tema dell’universalità di personaggi, tipi e archetipi dei film cfr. anche W. Indick, Psychology for Screenwriters [2004], tr. it. Psicoanalisi per il cinema. Teorie psicologiche e psicoanalitiche per costruire storie e personaggi universali, Dino Audino, Roma 2005.

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G. O. e K. Gabbard, Cinema e psichiatria, cit., pp. 234-235.

38 Ivi, p. 239. Sulle virtù salvifiche e curative delle immagini e sui film dalle proprietà terapeutiche e post-traumatiche

91 psichiatria a causa del ritratto fornito da Claude Rains al dottor Jaquith di Perdutamente tua. Più probabilmente era stato sensibile all’aura del personaggio, giacché il dottor Jaquith non si impegna mai nell’attività psicoterapeutica nel corso di tutto il film. Un altro psichiatra […] riconosceva che l’aver visto da ragazzino La donna dai tre volti l’aveva convinto a diventare uno psichiatra39.

Glen e Krin Gabbard dimostrano così – riguardo ai temi della cura e della malattia mentale – quanto l’impatto delle rappresesentazioni cinematografiche sia influente e decisivo per il paziente, per il terapeuta e spesso per il trattamento stesso.

Recentemente, anche lo psicoanalista Serge Tisseron, in Comment Hitchcock m’a guéri. Que cherchons-nous dans les images?, ci ha dato un resoconto prezioso, in prima persona, di quanto possa essere decisiva l’influenza dell’immagine cinematografica nell’affrontare il proprio vissuto interiore e nel fare i conti con le esperienze personali più intime. Secondo l’autore uno dei modi essenziali per elaborare e risolvere in qualche modo i traumi passati consisterebbe non tanto nel tentare di riviverli o di fare in modo che qualcun altro li subisca al posto nostro, quanto piuttosto nell’andarli a vedere rappresentati al cinema40

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Prenderemo adesso in considerazione alcuni particolari fenomeni di malfunzionamento visivo, percettivo e propriocettivo (come ad esempio anosognosia, dismorfofobia e transitivismo) per metterli in relazione al processo di ricezione di un film da parte dello spettatore.

Se a Freud i casi clinici servivano, per comodità di metodo, a mettere in luce tendenze presenti in misura minore in tutti gli esseri umani, perché allora non ritenere altrettanto utile – per gli studi sul cinema – il prendere in esame casi estremi o particolarmente accentuati di identificazione (o alcuni aspetti delle psicosi) per tentare di ottenerne dati illuminanti relativi al funzionamento percettivo di base dello spettatore “normale”?

39 G. O. e K. Gabbard, Cinema e psichiatria, cit., p. 241.

40 S. Tisseron, Comment Hitchcock m’a guéri. Que cherchons-nous dans les images?, Hachette, Parigi 2003, p. 59.

Oltre al racconto della propria esperienza personale – la riemersione di un episodio traumatico dell’infanzia grazie al rinvenimento, nei film di Hitchcock, di un particolare tipo di sguardo che gli avrebbe permesso di rivivere quello terrorizzato della madre davanti al rischio della sua morte durante un incidente avvenuto quand’era bambino, e associato da quel momento ad un terribile senso di colpa – l’autore riporta ad esempio il caso di un giovane che si sarebbe reso conto dei tradimenti della madre nei confronti del padre solo dopo aver visto I 400 colpi, o ancora quello di un amico d’infanzia che andava continuamente a vedere Lilli e il vagabondo (Lady and the Tramp, Walt Disney, 1955) nella speranza di costruirsi una sorta di “mitologia personale” che lo riscattasse dall’umiliante sensazione di fallimento e devalorizzazione di sé che la famiglia gli aveva trasmesso (ivi, p. 34), fino al caso estremo di Richard Durn, che nel 2002 in preda a una follia omicida uccise otto membri del consiglio municipale di Nanterre dichiarando di aver preso questa decisione in seguito alla visione di Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976); ivi, p. 36. Secondo l’autore le immagini sarebbero delle vere e proprie “madri adottive”, capaci di intrattenere con lo spettatore lo stesso tipo di relazione affascinata che il neonato instaura nei confronti dello sguardo materno; ivi, pp. 107-109.

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La psicopatologia non illustra supposti deficit dello sviluppo, quanto qualcosa di essenziale della natura umana. Lo stesso Freud afferma che «la patologia ci ha sempre reso il servizio di farci distinguere, isolandole ed esagerandole, condizioni che nella normalità sarebbero rimaste nascoste»41. Ricorderemo del resto che anche Raymond Bellour, parlando dell’hypnose-cinéma, concludeva sostenendo che «è la realtà della trance profonda a permetterci di far luce su quella della trance leggera, così come per Freud è stato possibile delineare le condizioni della “normalità” a partire da quelle della “patologia”»42

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Dal punto di vista strettamente neurologico, ad esempio, sappiamo che i segnali provenienti dalla retina permettono la formazione delle immagini all’interno delle cortecce visive di ordine inferiore. Quando tali cortecce sono lese – ricorda Damasio – la capacità di formare immagini viene gravemente compromessa, lasciando tuttavia un residuo di sensibilità sensoriale dal momento che le strutture subcorticali connesse sono rimaste intatte. Questo vuol dire che anche in caso di un’estesa distruzione delle cortecce visive di ordine inferiore, alcuni pazienti riescono a puntare lo sguardo in direzione di bersagli luminosi che tuttavia dichiarano di non vedere: è la cosiddetta vista cieca43. Il deficit percettivo può essere decisamente specifico; si parla ad esempio di acromatopsia nei casi di incapacità di vedere i colori.

Viene subito in mente Blue di Derek Jarman (1993), film in cui lo spettatore si trova per circa ottanta minuti di fronte ad un unico monocromo fotogramma di colore blu (è la caratteristica tonalità di blu oltremare creata da Yves Klein) mentre l’autore descrive con la propria voce44

– altra suprema forma di autoreferenzialità del godimento – il progredire inquietante della malattia su di sé (Jarman era ammalato di AIDS e Blue rappresenta il suo testamento filmico), malattia che ne compromise la vista fino al distacco della retina.

Ricordiamo in secondo luogo che, tra le figure dominanti delle apocalissi intime cui accennavamo nell’Introduzione in riferimento alla centralità del corpo nel cinema, assieme a manifestazioni fisiche quali piaghe, lacerazioni o ferite, Laurence Schifano e Sylvie Robic prendono in considerazione forme di alterazione psicofisiche come il mutismo (nel caso di Persona) o la balbuzie (ne Lo specchio [Zerkalo, Andrej Tarkovskij, 1974]), nonché arresti, disequilibri o stati limite del corpo – stupore, vertigine, meraviglia, folgorazione, catalessia, afasia – e altre figure

41 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 525 42 R. Bellour, Le corps du cinéma, cit., p. 89. 43

A. R. Damasio, L’errore di Cartesio, cit., p. 153.

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Sull’utilizzo della propria voce, ricordiamo che Lacan era profondamente affascinato dalla relazione del soggetto con la sua stessa parola, se non altro per il fatto puramente acustico che egli «non potrebbe parlare senza sentirsi»; J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., p. 529.

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dell’incanto o del disastro (colpo di fulmine, siderazione, trauma, shock) che trovano nel corpo o nell’immagine del corpo il veicolo di espressione più fecondo.

Anche Nestor Braunstein del resto, nella sua definizione di jouissance, propone di considerare innanzitutto i casi di godimento extradiscorsivo, non regolati dallo sfintere della parola e del linguaggio, cioè quelli dei corpi ridotti alla loro esistenza fisica negli stati estremi di ubricachezza, nell’autismo, nella prima infanzia, nelle psicosi45

. Lo psicotico infatti vive nel godimento: la borsa e la vita, non sceglie. Le parole sono per lui le cose, poichè tra percipiens e perceptum regna l’indistinzione più assoluta. È proprio nei casi di rottura fra soggetto e discorso che si ha godimento, poiché si è liberi dalla parola, quindi dalla necessità di scegliere46.

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