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Il godimento e il suo rovescio L’angoscia

4.3 Con lo stomaco pieno e i genitali svuotati La grande abbuffata

Quello che ci interessa adesso, rispetto alla questione dell’eccesso che conduce all’angoscia, è l’analisi di un caso cinematografico particolarmente illuminante: La grande abbuffata di Marco Ferreri.

«Entrati nei campi di Eros, noi scorgiamo per prima cosa una coorte di personaggi stomachevoli, disarmati, degradati – e distrutti – dalla ricerca del piacere. È possibile, anzi, è inevitabile riderne, ma il terrore si sostituisce presto all’allegria. Il terrore, la disperazione, le lacrime…»25

, scrive Bataille, mettendo in luce ancora una volta con quanta facilità il godimento si possa capovolgere nel suo rovescio, l’angoscia; fatto di cui un film come quello di Ferreri incarna a pieno lo scandalo (meglio godere che vivere…), raccontando il progetto folle di un gruppo di amici che decidono di rinchiudersi in una casa a mangiare fino alla morte.

Non è un caso se Pasolini definisce La grande abbuffata «un’opera sugli estremi che si ribaltano e si annullano», cioè un’opera in cui le funzioni vitali sono esasperate al punto di rivolgersi contro la vita stessa26. Così per Lino Micciché, che individua a sua volta il motivo peculiare del film esattamente in «quella dolce ferocia fatta di esplosivi paradossi»27; lo stesso regista, d’altra parte, afferma che il suo film avrebbe anche potuto rappresentare l’estremo opposto, cioè il digiuno totale dei monaci buddisti28. E tuttavia, Ferreri sceglierà le vie dell’eccesso. È per questo motivo che possiamo considerare La grande abbuffata un perfetto film di godimento, collocandolo idealmente al polo opposto del Fascino discreto della borghesia (Le Charme discret de la burgeoisie, 1972) di Buñuel, film nel quale, al contrario, era impossibile mangiare, e a prevalere era piuttosto il registro della privazione, della mancanza, del desiderio continuamente rinviato29.

24 F. Strauss, Le choix des armes, «Cahiers du cinéma», 516, 1997, pp. 66-67. 25 G. Bataille, Le lacrime di Eros, cit., p. 240.

26 Ce lo ricorda Stefania Parigi, Il corpo pneumatico, in Ead. (a cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, Marsilio,

Venezia 1995, p. 44.

27

L. Micciché, Il cinema italiano degli anni ’60, cit., p. 138.

28 M. Ferreri, Perché ho fatto un film fisiologico, «Cineforum», 132, 1974, p. 328.

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«Il soggetto bulimico non mangia per il piacere di mangiare, ma per il godimento di scoppiare, di mangiare sino a morire»30, afferma Massimo Recalcati nel descrivere la clinica di alcune delle psicopatologie odierne, quali anoressie e bulimie, disturbi i cui sintomi – diversamente dalle forme patologiche classiche di nevrosi, psicosi e perversione – sono senza storia e senza racconto, votati alla ripetizione piuttosto che alla narrazione, completamente sganciati dall’Altro e pienamente autoreferenziali nell’afflizione monocorde che producono sul soggetto31

.

Qualcosa di simile avviene nella struttura del film di Ferreri, nel quale, come scrive Sandro Bernardi, «l’azione è una sola, infinitamente ripetuta e variata, come in una serie visiva di variazioni Goldberg, o di poesie epanalettiche in cui ricorrono sempre gli stessi versi»32. E ancora, ricorda l’autore, «è nota […] la durata oltremodo protratta delle inquadrature e delle sequenze ferreriane», altro tratto che avvicina questo cinema – nelle sue forme votate all’eccesso – alla nostra clinica del godimento33.

Del godimento si fa carico inoltre quell’atmosfera di monomania e di allegria disperata e iperreale – da «funerale festoso»34 – che domina il film e il suo progetto allucinante fin dai primi minuti, quelli in cui prendono avvio i preparativi e l’organizzazione maniacale di ogni dettaglio del rituale a venire: scorte alimentari immense, affilamento dei coltelli, preparazione di portate abnormi e gigantesche in vista di ingestioni folli e meccaniche.

In questa prima parte del film compare inoltre un’immagine importante, in cui Rosamaria Salvatore ha individuato il momento inaugurale del destino dei quattro protagonisti. Si tratta della scena in cui

30 M. Recalcati, Elogio dell’inconscio, cit., p. 113. Ricordiamo che l’autore cita esplicitamente il film di Ferreri in Id.,

Clinica del vuoto. Anoressie, dipendenze, psicosi, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 220-221.

31 Sul tema cfr. l’intervento dello psicoanalista Sergio Sabbatini tenutosi a Roma il 26 novembre 2011 in occasione

della giornata di studi dell’Istituto di Studi avanzati di Psicoanalisi.

32

S. Bernardi, I luoghi del cinema nell’opera di Ferreri, in S. Parigi (a cura di), Marco Ferreri, cit., p. 21. Bernardi chiama dunque in causa l’epanalessi, figura retorica che potremmo classificare senz’altro come una figura del godimento, dell’intensificazione, basandosi sulla ripetizione di una stessa parola nel corso di un unico segmento testuale sintattico o ritmico.

33 Ivi, p. 20. Bernardi ripercorre poi tutta una serie di cucine “mostruose” nel cinema di Marco Ferreri; così Andrea

Martini: «Si potrebbe obiettare […] che il primo quarto d’ora di quasi tutti i film di Ferreri, propriamente o impropriamente, si passa a tavola» (A. Martini, Il cochecito di Rabeleis. Marco Ferreri e l’humour nero, in S. Parigi, a cura di, Marco Ferreri, cit., p. 53). L’ossessione del cibo in tutta la filmografia di Ferreri è inoltre messa in luce da Tinazzi (G. Tinazzi, Il tempo del non ritorno, in S. Parigi, a cura di, Marco Ferreri, cit., p. 79). Segnaliamo a questo proposito l’originale studio di Gianni-Emilio Simonetti intitolato, certo non a caso, Le figure del godimento. Cultura materiale e arti cucinarie, Derive Approdi, Roma 2008, in cui le rappresentazioni della tavola e le forme del cibo – dall’abbondanza mercantile della modernità fino al consumismo dei giorni nostri – vengono fatte interagire con la questione dell’opera d’arte in un testo che integra la storia della cultura alimentare e la critica del gusto con ricette di cucina e una ricca iconografia .

34 L’espressione è di Marcello Mastroianni, che in un’intervista di Fabio Ferzetti ricorda il clima del film durante le

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la balia di Philippe – che lo ama di un amore morboso e lascivo – lo masturba e lo porta al suo seno. L’uomo, senza troppo entusiasmo, la lascia fare: il primo piano del suo volto tuttavia non ci mostrerà un orgasmo felice. «I seni enormi della donna – scrive Rosamaria Salvatore – che sembrano traboccare dallo schermo mentre masturba l’uomo, sono segno di un’alterità tesa a manifestarsi come puro comando di godere, sorta di Super Io materno» che assoggetterà i protagonisti «alla reiterazione di un movimento in cui la perdita e il vuoto vengono sempre riciclati al fine di essere negati»35. Una simile meccanica di riempimento e svuotamento porterà ad avere «lo stomaco traboccante e i genitali svuotati»36, trasformando quella purezza della sopravvivenza animale dei protagonisti nella loro ineluttabile vocazione all’autosoppressione.

I quattro brevi prologhi che precedono il corpo del racconto del film, ci dice Pasolini, sono quattro brevi lussuosi ritratti di personaggi fissati per sempre «nella ontologicità allucinatoria dell’esistenza corporea». Si tratta di uomini illustri appartenenti alla buona borghesia degli anni Settanta (un alto magistrato, un coreografo raffinato, un pilota di aerei e un cuoco prestigioso), e tuttavia essi sono personaggi dalla «carne insana», «resi enigmatici dalla loro eccessività»37. Il fatto stesso di aver mantenuto, per i personaggi, i veri nomi degli attori – Ugo Tognazzi, Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret – conferisce peraltro al film un tratto di realtà piuttosto inquietante, attraverso un meccanismo che ricorda la scelta non casuale di Tom Cruise e Nicole Kidman in Eyes Wide Shut da parte di Kubrick, dove il fatto che la coppia fosse tale anche nella vita reale, ha sicuramente intensificato la complessità della loro interazione sul set.

I quattro amici si riuniscono quindi nella casa: la villa di Neuilly, luogo solitario e a sé stante, perfettamente autoreferenziale e come votato all’implosione, dotato dell’esattezza poligonale del diamante, tutto ripiegato su se stesso, e soggetto a una forza centrifuga di risucchio che mira anch’essa a inghiottire e fagocitare tutto e tutti, senza rigurgiti e senza scampo, nella tagliola infernale del godimento.

Arriva il cibo, arrivano camion di cibo: carne, frutta e verdura in quantità industriali, che si tradurranno – su tavole ricolme di piramidi di cibo d’ogni sorta – in un continuo masticare, affettare, sorseggiare, un divorare forsennato e ripetuto, competitivo, ininterrotto. Al folle banchetto si uniranno tre prostitute, seguite poi dalla maestra Andréa (Andréa Ferréol), l’unica delle quattro

35 R. Salvatore, La distanza amorosa, cit., p. 74. Secondo l’autrice, il rituale cannibalico presente in molto cinema di

Ferreri, così come il corpo della donna nelle sue infinite declinazioni, costituirebbe in definitiva il tentativo disperato e ultimo di coprire e saturare l’angoscia del vuoto strutturale che sovrasta i personaggi maschili.

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L’espressione, che è di Moravia, viene ripresa da Mario Sesti, La grande abbuffata, in S. Parigi (a cura di), Marco Ferreri, cit., p. 225.

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donne che deciderà di restare anche dopo aver compreso le brutali intenzioni degli uomini (si noti a questo proposito che saranno proprio le prostitute, disgustate da simili eccessi, le sole donne pronte a sottrarsi al progetto estremo di godimento). Il ripetuto motivetto musicale di un disco sul grammofono – triste riverbero della monomania impietosa a cui i quattro resteranno inchiodati – risuonerà come sottofondo lungo tutto il film.

Ha inizio un erotismo sfrenato e orgiastico, senza distinzioni di coppie né predilezione di posti della casa. Inevitabile mostrare le conseguenze fisiche dell’abbuffata di sesso e cibo: vomito, coliti, congestioni, dolori di pancia, lamenti, aerofagie dalla violenza squallida e tristemente risibile, fino ad arrivare all’esplosione del gabinetto: spaventosa, immonda, coi liquidi e la merda che si espandono per casa, cui fa da contrappunto la risata sfrenata e isterica di Ugo che ride tossisce e vomita tutto assieme. L’eccesso – principale cifra stilistica e contenutistica del film – è avvertito come tale proprio perché disturba, esagera, “eccede”, appunto. A questo proposito, nel suo studio sull’importante funzione ecfrastica dei titoli dei film, collocati a metà tra l’universo visivo e quello verbale, Noëlle Rouxel-Cubberly fa notare che i titoli degli anni Settanta – tra i quali, per l’appunto, La grande abbuffata – rendono conto di un momento particolarmente libero e irriverente di una società che osa in questo momento «montrer ses fesses», volgarmente: mostrare il culo38.

Ferreri, del resto, definisce significativamente il suo film un’opera fisiologica. «Il mio compito – dichiara – sarà quello di cercare delle immagini che non siano […] rassicuranti ma che tocchino, fisicamente, chi le riceve»39. «È proprio questa la parola esatta […]. Facciamo un po’ vedere alle persone il loro lato materiale, fisico, senza tanti sentimenti adatti solo a nascondere la vera realtà, quella del corpo. […] è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico»40. L’uomo di Ferreri è allora l’uomo del godimento, l’uomo del corpo, lo stesso che porta Franco Vigni a dire che i suoi film

assumono le fattezze di corpi essi stessi, dati in pasto […] allo spettatore, al pubblico, alla critica; e, talvolta, possono risultare “inconsumabili, indigesti, e indigeribili”, secondo un’efficace affermazione di Pasolini riferita ai propri film ma che si attaglia, ci sembra, anche a quelli di Ferreri: “i consumatori li mettono in bocca, ma poi li sputano, o passano la notte col mal di pancia”41.

38 N. Rouxel-Cubberly, Les titres de film, Michel Houdiard, Parigi 2011, p. 65.

39 R. Salvatore, Il vuoto come origine e come perdita, in S. Parigi (a cura di), Marco Ferreri, cit., p. 93.

40 M. Ferreri, Perché ho fatto un film fisiologico, cit., p. 323. L’autore afferma ancora, provocatoriamente, di aver

voluto, con questo film, «sbattere in faccia allo spettaore la sua vera faccia, quella che i sentimenti gli nascondono, e cercare di fare in modo che abbia una reazione. Per questo sono contento quando fischiano e urlano al mio film, vuol dire che ho colpito proprio giusto»; ivi, p. 324.

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E allora, nella Grande abbuffata, si continua a mangiare a oltranza, si deve continuare a mangiare a oltranza. Con gioia, con golosità, con tristezza, con eleganza, con disgusto o con rabbia, si mangia per tutto il film: mentre si parla (le ricette da cucina vengono recitate come brani di letteratura), mentre si fuma, mentre si suona il piano, mentre si fa l’amore, sempre. Sdraiati, seduti, in piedi, ovunque. E tuttavia, commenta Pasolini, l’assunto di base del film – suicidio comune per indigestione – resta «incapace di sviluppi, cioè di proliferare metafore. Esso pare non avere altra possibilità che iterare l’affermazione di sé all’infinito». Tutto finisce lì, nell’impostazione (dati quattro uomini che hanno deciso di suicidarsi…), nei dati di partenza, non negli effetti o nei loro significati. Ecco ancora un buon esempio di olofrase in luogo della metafora, di un’antimetafora. «Bisognerà dedurne che il “principio metafisico e metaforico” di Ferreri è inarticolato, arbitrario e non dialettico, tale da produrre ripetizioni e non evoluzioni»42, assimilabile pertanto ad una perfetta modalità del godimento che, come abbiamo osservato, rade al suolo ogni dialettica e non ammette mediazioni: esso non aspira che a ripetersi. Ferreri non ama la metafora né la sovrapposizione didascalica; se vi è un senso nei suoi film è infatti letterale, va cercato nei segni che lo istituiscono testualmente, non nel commento43.

Pasolini analizza ancora i dialoghi del film, «dove mai la parola è pregiata, a causa dell’assoluto privilegio conferito alla chiacchiera. La lingua di tutto il film non è mai non solo espressiva, ma nemmeno referenziale: essa è solo e semplicemente “fàtica”. Si parla solo per parlare, e si parla sempre d’altro: ma questo “altro” è insignificante»44

. Viene in mente a questo proposito il “godimento del blablabla”, l’intuizione lacaniana di questa lingua che è una non-lingua, non volendo comunicare nulla.

Ma le tracce del godimento nella Grande abbuffata si possono rinvenire facilmente anche dal punto di vista figurativo, a cominciare dalla messa in scena: la voluttuosità degli arredi e l’eleganza degli interni della casa – legni lucidi e scuri, tappezzerie dorate, specchi, cornici, lampade, quadri e pesanti tendaggi – non lasciano un solo angolo vuoto nell’inquadratura, che risulta così completamente sovraccarica di dati. Si pensi, ancora, alle forme giunoniche di Andrèa, che col suo corpo generoso di donna si offre in maniera genuina e procace al piacere di ciascuno dei quattro uomini, da questo punto di vista assolutamente equivalenti, interscambiabili. In una simile

42

P. P. Pasolini, Le ambigue forme della ritualità narrativa, cit., p. 347.

43 Cfr. la scheda del film a cura di Adelio Ferrero, «Cineforum», 132, cit., pp. 315-329. 44 P. P. Pasolini, Le ambigue forme della ritualità narrativa, cit. p. 346.

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ammucchiata di personaggi grotteschi e di «paccottiglia scenografica»45, in una tale sovrabbondanza di corpi, di oggetti e interni pieni fino a straripare, risuona senz’altro una forte eco felliniana, come un eccesso di godimento.

Maurizio Grande ha descritto a questo proposito, nel cinema di Marco Ferreri, due tipi di spazi interni: densi o dilatati. Mentre gli spazi dilatati stanno a indicare la persistente disunione degli individui e la distanza incolmabile che separa i soggetti, quelli densi comprimono, al contrario, persone e oggetti in maniera soffocante e intollerabile, ammassando individui e cose. Sono gli spazi del primo Ferreri e, ovviamente, quelli della Grande abbuffata, che si delineano «quasi a siglarne visivamente il tema dell’intasamento mortale […]. Spazi sovraccarichi di mobilia, di ninnoli […]; spazi compressi dall’abitudine […] a non cambiare né una tappezzeria né un ordine consacrato al ritornello del sempre-uguale», ritornello tipico della jouissance46.

Del resto, come osserva Giorgio Tinazzi, nel film anche «i comportamenti si accumulano, così come gli oggetti si sommano. La tendenza a ripetere si complica in una vera coazione (l’Abbuffata), forma rituale che tenta di esorcizzare la paura del vuoto, cioè la presenza della morte». Il film costituirebbe allora una vera «teatralizzazione per eccesso dell’autoannientamento», che ha come cifre stilistiche salienti la circolarità e la chiusura47.

Andando ancora più a fondo, capiamo che questa dinamica – che è una dinamica di godimento – oltre agli oggetti e ai comportamenti, arriva a comprendere anche (e soprattutto) i corpi.

Stefania Parigi ha messo in evidenza la ricerca costante dei corpi nel cinema di Marco Ferreri. Specialmente nel primo Ferreri, «dove persone, animali e cose si mescolano quasi organicamente e si confondono come se fossero emanazioni reciproche»48. Un’attenzione viva e tangibile alla percezione fisica dei personaggi nello spazio – al contatto con cose, luoghi e corpi – era rinvenibile già ne L’ape regina (1963), in cui «cibo e sesso, come sempre uniti in quanto funzioni vitali e generatrici, si rovesciano nel loro contrario»49, divenendo quasi strumenti di morte; o in Dillinger è

45

L’espressione è, ancora una volta, di Pasolini; ivi, p. 347.

46

M. Grande, La scrittura celibe, in S. Parigi (a cura di), Marco Ferreri, cit., p. 6. Adelio Ferrero individua negli interni del film dei forti sentori di morte, definendoli «sovraccarichi di fregi e tendaggi, lampade e decorazioni che stanno, ambiguamente, tra la cripta sepolcrale e il mausoleo liberty». Anche il lettino di Michel, incassato nel muro, ricorda «un loculo caldo e segreto» (cfr. la scheda del film in «Cineforum», 132, cit., pp. 317-318).

47 G. Tinazzi, Il tempo del non ritorno, cit., p. 78. Ricordiamo ancora una volta l’affermazione di Roland Barthes per cui

teatralizzare «non è decorare la rappresentazione, ma illimitare il linguaggio»; R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola seguito da Lezione, cit., p. XXIV.

48 S. Parigi, Il corpo pneumatico, cit., p. 33. 49 Ivi, p. 34.

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morto (1969), dove le funzioni vitali della carne e della sessualità si fanno «riti riempitivi del tempo, espressione di una mortuaria coazione a ripetere», coazione fondamentale del godimento50. «A me sembra che i suoi film siano tutti variazioni sul tema di un unico, semplice, tragico e mostruoso leitmotiv: la fine del mondo. Trovo in una vecchia recensione una frase paradossale e vera: “Ferreri gira sempre lo stesso film”», afferma Davide Ferrario51

.

La fine del mondo, dunque. Il crollo di un’umanità disperata e delirante in corsa accelerata verso la catastrofe: la Grande abbuffata altro non è, in definitiva, che una macabra celebrazione del trionfo della Morte. A cominciare da quella di Marcello – il primo a morire – che rimarrà congelato sotto una bufera di neve, nell’amata Bugatti azzurra mentre tenta invano la fuga dalla villa, a bocca aperta, rigido e immobile come uno stoccafisso. Sulla scia di questa rigidità ricordiamo ancora una volta quanto sia indissociabile il legame della sessualità con la morte, due concetti antitetici ma «frequentemente collegati attraverso l’idea che la morte irrigidisce le cose», scrive Freud52. Non dimentichiamo che poco prima di morire Marcello aveva imposto, al corpo snello di una delle prostitute, la marmitta metallica della sua Bugatti al posto del proprio pene53.

Seguirà la morte parossistica di Michel, paralizzato da un dolorosissimo peto mentre suona il piano, in una smorfia di sofferenza atroce.

Nonostante la morte dei due amici, il gioco perverso nella villa di Neuilly non si arresta: un’ennesima ricetta è pronta e cattura nuovamente le energie dei tre rimasti, seduti ancora una volta a tavola, sul fondo i due cadaveri con lo sguardo fisso, dal vetro dei congelatori. Si continua allora a mangiare, con fatica, con stanchezza. Philippe e Andréa tuttavia cominciano a cedere, rifiutandosi di ingurgitare l’ultimo pasto preparato con orgoglio e gran gusto da Ugo, che non smette di deliziarsi col suo enorme paté, sotto lo sguardo dei morti. Poi, sdraiato sul tavolo, lo vediamo gemere, godere e soffrire mentre Philippe lo imbocca e Andréa lo masturba piangendo, evocazione macabra di una sorta di trittico delle delizie. È così che muore finalmente, tra gemiti di dolore e di

50 Ivi, p. 38.

51 D. Ferrario, La fine del mondo, in S. Parigi (a cura di), Marco Ferreri, cit., p. 98. A proposito di Break up (1979) –

film che ruota attorno all’interrogativo: quanta aria può contenere un palloncino prima di esplodere? – l’autore afferma che «non si potrà mai sapere, perché la risposta coincide con la distruzione del pallone. Fermarsi prima è troppo presto, fermarsi dopo è troppo tardi». Osserviamo ancora una volta un principio che regola il funzionamento più caratterizzante del godimento (ivi, p. 101).

52 Cfr. l’esemplare annotato da Freud dell’edizione del 1904 di Psicopatologia della vita quotidiana, cit., p. 98.

53 A proposito della peculiarità del godimento maschile rispetto a quello femminile, Ferreri dice che «l’uomo ha un

ciclo complicato come quello del pistone, che ha un tempo morto e, solo successivamente, un tempo di reazione. […] Dopo aver fatto l’amore l’uomo è morto, la sua macchina ha bisogno di un tempo enorme per riprendersi»; R. Salvatore, Il vuoto come origine e perdita, cit., p. 96 (si ripensi al funzionamento del godimento fallico in Lacan e alla nozione batailliana di dépense a indicare il costo enorme dell’emissione dello sperma nell’atto sessuale dell’uomo e il “disavanzo” che gli è connesso).

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piacere, e le sue ultime parole – osserva Monica Sagaria Rossi – saranno «Sì e ancora, le parole dell’affermazione, della gioia e del godimento»54

.

Sarà infine il turno di Philippe, che si affoga con un ultimo vistoso piatto preparatole da Andrèa, a

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