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D’amore si vive Godimento e tenerezza nella storia di un discorso

Sua Maestà il Linguaggio: il godimento nei dispositivi di visione e nel discorso d’amore

2.5 D’amore si vive Godimento e tenerezza nella storia di un discorso

Se in Comizi d’amore abbiamo visto Pasolini formulare e porre in prima persona le domande sul sesso, nel documentario D’amore si vive di Silvano Agosti (1984) – altro tentativo, seppur molto diverso, di costruire e dare corpo e vita a un discorso su questo tema – non vediamo il regista, quanto piuttosto le immagini d’“amore” costruite e descritte dagli interlocutori che rispondono alle sue domande. Il tono del film è decisamente più intimo e meno collettivo dei Comizi.

D’amore si vive, film autoprodotto e mai distribuito (sono state contate oltre tremila proiezioni non autorizzate), è definito dallo stesso autore – attraverso le scritte che compaiono sulle primissime inquadrature del film – come «un primo tentativo per una discussione più ampia sulla tenerezza, la sessualità, l’amore»63

.

Il film è il frutto di una ricerca durata tre anni e condotta dal regista nella città di Parma interpellando centinaia di persone sugli argomenti d’amore. Dalle nove ore di girato ricavate, Agosti sceglierà soltanto sette interviste: le uniche in cui – a parer suo – le persone incontrate avevano realmente, sui problemi della sessualità, qualcosa da dire. Ci soffermeremo, tra breve, su alcuni di questi interventi.

Il film si apre su quella che potremmo definire una vera e propria immagine di godimento: il primo piano di un neonato e i suoi vagiti di sofferenza (sappiamo che il trauma della nascita è per Freud la prima fonte di angoscia); la mamma porge quindi il seno al suo bambino, in un piano molto ravvicinato, per farlo allattare. Questi pochi, luminosi secondi – girati in esterno, tra i suoni della natura – hanno la dolcezza di un miracolo («Personalmente ogni scena la giro una sola volta ottenendo dagli interpreti un’intensità espressiva altrimenti irraggiungibile»64, afferma l’autore), e possiamo commentarli con importanti parole di Freud sull’allattamento:

Il succhiare al seno materno diventa il punto di partenza dell’intera vita sessuale, il modello inattingibile di ogni successivo soddisfacimento sessuale, al quale la fantasia fa spesso ritorno in periodi di privazione. Esso implica il fare del seno materno il primo oggetto della pulsione sessuale. Non so come darvi un’idea di quanto sia importante questo primo oggetto per ogni successivo rinvenimento di oggetto, dei profondi effetti che produce nelle sue trasformazioni e sostituzioni fin nelle zone più remote della nostra vita psichica65.

63 Cfr. S. Agosti, Cinema bricolage, «MicroMega» Almanacco del cinema, 6, 2011, p. 234. Il film fu pensato

inizialmente per la televisione. Sulle sue motivazioni, la sua genesi, le polemiche che scatenò e i tentativi di sequestro subiti dalla pellicola cfr. l’intervista dell’autore su http://www.gianfrancobertagni.it/autori/silvanoagosti.htm

64

Ivi, p. 223.

65 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino 1976, p. 472. L’importanza di questo

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In controcampo, di profilo, vediamo il volto sorridente della mamma, gli occhi rivolti al figlio che allatta.

Nel capitolo precedente avevamo esaminato alcune osservazioni sull’importanza del rapporto madre/bambino; al fine di interpretarle, più nello specifico, dal punto di vista del godimento, è interessante ora – approfittando di questa bella immagine di allattamento – integrarle con la visione proposta dallo psicoanalista Pierre Marie, per il quale il bambino trarrebbe parte del godimento che prova mentre allatta dal fatto che anche la madre ne gode. Il godimento infatti – secondo Marie, e a differenza di quanto da noi finora sostenuto – non è dell’Uno, ma (come il desiderio) dell’Altro: io godo del fatto che si goda di me, voglio vedere nello sguardo dell’Altro che egli gioisce nel guardarmi. Il godimento sarebbe dato insomma da un piacere supplementare che si trae necessariamente dall’Altro, poiché la mera presenza dell’oggetto non sarebbe sufficiente a scatenarlo. Marie – per il quale il godimento del lattante non consiste affatto nel piacere di sazietà e appagamento che deriva dal succhiare, nè nelle sensazioni cinestetiche e muscolari labiali e boccali connesse alla suzione – arriva ad affermare che «l’enfant mange pour nourrir sa mère»: il lattante mangia per nutrire sua madre, si offre come bocca per colmarla, per riempirla66.

Possiamo inoltre chiamare in causa nuovamente, nello scambio di sguardi tra madre e figlio in questa scena, la sintonizzazione affettiva descritta da Daniel Stern nella relazione intersoggettiva che unisce l’una all’altro e fa sì che i rispettivi stati d’animo – senza alcun tipo di scambio verbale – si accordino su una stessa linea emozionale fino a coincidere. Loig Le Bihan, a questo proposito, ricorda come già Balázs nell’Uomo visibile (1924) avesse parlato di concordanza emozionale a proposito degli affetti che è possibile afferrare simultaneamente attraverso tutte le sfumature dell’espressione di un viso, fatto che solo il cinema, tra le arti, permette di cogliere:

In effetti, l’espressione del viso è più polifonica rispetto alla lingua. Le parole, come i suoni di una melodia, ci arrivano una dopo l’altra, mentre invece su un volto le espressioni più diverse possono apparire contemporaneamente, come in un accordo musicale, e il rapporto determinato da questi tratti differenti produce le più ricche armonie e modulazioni. Si tratta di accordi emozionali, la cui essenza risiede precisamente nella simultaneità. E questa non può tradursi in parole67.

seguito, da Lucilla Albano nel saggio L’amore impossibile e l’oggetto perduto, in E. Dagrada (a cura di), Il melodramma, Bulzoni, Roma 2007, pp. 165-179.

66 P. Marie, La jouissance, cit., p. 28.

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Vediamo allora come, nella sequenza analizzata, la scelta del primo piano della madre e del bambino supplisca all’assenza di comunicazione verbale tra i due, pur permettendo di cogliere attraverso i loro volti un altissimo numero di informazioni.

Solo successivamente, infatti, la madre si rivolge alla macchina da presa (e non più al figlio) per dare inizio al suo racconto: il parto, i dolori, l’istante in cui i suoi occhi hanno incontrato per la prima volta e a lungo quelli del figlio. Si delinea così da subito l’intenzione del film di fare dell’amore un discorso, un racconto.

La donna successiva, ad esempio, afferma davanti al regista il suo bisogno di dichiarazioni d’amore: esse andrebbero fatte e ripetute sempre (riconosciamo qui la ripetizione del godimento), e non dichiarate una volta e poi mai più. Le viene chiesto di raccontare la sua prima notte di nozze, della quale ricorda soprattutto il dolore, fisico e mentale, e la paura. Il racconto, costruito con fatica ed esitazioni, viene incentrato sulla difficoltà che ha comportotato per lei l’atto sessuale, con l’asportazione chirurgica dell’imene e la conseguente perdita della propria identità sessuale, che a partire da quel momento sarebbe stato impossibile percepire attraverso il corpo («Mi pareva impossibile che potesse entrare una cosa del genere in un buco che per me era inesistente. Non me lo sentivo […] non ne ero cosciente. Continuavo a chiedere al ginecologo se ce l’avessi io questa vagina, se avessi quest’apertura […] in me»). Nonostante la rigida educazione religiosa ricevuta – che ha fatto sì che il suo corpo, e più in generale il sesso, venisse vissuto come un terribile tabù di cui vergognarsi – questa donna riesce adesso a parlarne, e lo fa grazie al film, alla domanda del film, che trasforma il divieto sessuale (prima ancora che in immagine) in discorso.

Il racconto seguente – che resta impresso nella memoria per quanto è spontaneo e vivido, quasi palpabile – è quello di un ragazzino, disinvolto e divertito nel fornire al regista la sua fantasiosa lettura della sessualità e del piacere. Al tono “medio”, corale, e anonimo dei Comizi di Pasolini, si contrappone qui in maniera vistosa un tono personale, anzi, personalissimo, dove nulla appare insincero o costruito. Nel film di Agosti gli occhi delle persone interrogate – donne, bambini, prostitute, travestiti, tutti vicinissimi alla macchina da presa – guardano dritto in camera, ed emerge con forza la verità estrema dei micro-gesti di ciascuno: l’insetto che si posa per caso sui capelli di una donna, il chewing-gum masticato con enfasi dal giovanissimo ragazzo. Questi racconta, con fare da adulto e con minuzia di dettagli, di aver spiegato chiaramente a una sua compagna di giochi che cos’è il rapporto sessuale, prima di averne avuto con lei uno; parla poi della masturbazione, e la macchina da presa si avvicina a lui con una fisicità tale da far scaturire un discorso per immagini che pare dotato di vita propria. Il ragazzo ci appare fiero come può esserlo un bambino di nove anni perfettamente istruito sulla fecondazione; la sua sorprendente lezione di vita si traduce in un invito

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all’amore e alla gioia che ha qualcosa di genuino, autentico e puro, di filosofico forse, e questo avviene esclusivamente attraverso la forza del suo discorso, delle sue parole.

Più avanti ascolteremo Anna – ex prostituta non più giovanissima – che dà consigli alle ragazze su come fare l’amore con un uomo. Il regista interviene sempre nelle conversazioni, vi insiste: chiede ai suoi interlocutori esempi, descrizioni, illustrazioni, rilancia le domande, alimenta il discorso. Così Anna sarà invitata a “mostrare” le carezze di cui sta parlando, e lo farà nominando e toccando il proprio corpo a un tempo. È così che il discorso d’amore adesso si mette in scena, attraverso le parole di questa donna che ripercorr, dettagliatamente e senza segreti, episodi sessuali del passato mentre la macchina da presa, offrendoci un lungo primissimo piano, indaga a fondo un volto in cui gli occhi si fanno piano amari, lucidi e tristi. Ma Anna riprende subito a ridere, per poi raccontare della disperazione di sadici e perversi, di chi, tra i suoi clienti, godeva mangiando merda. La donna continua infine parlando dei suoi sogni e dei suoi incubi, dell’Inferno e di Dio, mentre alcune scritte scorrono sull’immagine informandoci che il giorno successivo Anna sarebbe morta per aver ingerito una bottiglia di acido muriatico. D’amore si muore, anche. Comincia a questo punto la seconda parte del film.

Incontriamo Gloria – transessuale destinato a non poter realizzare il suo sogno di divenire cantante lirica – a casa sua; inizia il racconto dei suoi amori intonando superbamente un’aria di Madama Butterfly. Con sguardo struggente e tenero Gloria, che non ha paura di confessare la propria sconvolgente solitudine, racconta la prostituzione come unica possibilità di lavoro e di vita. Combatte la sofferenza con la lirica, passione innata, assieme al desiderio di essere donna. La voce allora – che è pur sempre, in qualche modo, una parte del corpo – si fa carico di tutta un’identità sessuale, si muove di pari passo con essa, proprio come un’aria d’opera aderisce perfettamente alle note musicali che l’accompagnano e che ne calcano il senso, raddoppiandola. Amante della musica e dell’amore, cosciente del suo destino inaggirabile di isolamento, afflitta nel profondo dal dolore inguaribile dovuto a una condanna sociale inevitabile e feroce, Gloria produce un discorso d’amore di una verità sconcertante, un discorso così vero da far ammutolire.

D’amore si vive è un film che riesce a mettere in scena e a costruire il discorso sull’amore e sul sesso realizzando al contempo un’opera originale di grande trasporto emotivo e poetico (si pensi alla sequenza conclusiva, piuttosto autonoma rispetto al resto del film, in cui si vede un bambino down accarezzare una bambola, con fare tenero, dolce e lento). La scelta delle inquadrature, delle musiche e delle luci – così come i lievissimi spostamenti della macchina da presa nell’avvicinarsi o nell’allontanarsi, di volta in volta, da volti e corpi dei protagonisti – si fa carico del personalissimo discorso che il regista costruisce e intesse con i diversi discorsi dei suoi interlocutori.

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Nel film l’uso stesso della parola – del suo offrirsi come discorso d’amore, all’interno di un racconto per immagini – non è mero strumento descrittivo di una figuralità che si suppone la illustri fedelmente, ma veicolo complesso, strutturato ed efficace di godimento.

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Capitolo 3

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