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Monotonia del godimento e malattia della ripetizione: il sintomo

3.3 Il “dispositivo” del Fort-Da e la dialettica del godimento

Il godimento, dunque, passa necessariamente per la via della ripetizione. Le origini di questo importante meccanismo vanno ricercate nel già ricordato gioco del Fort-Da, esperienza che – come

20 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 207. 21 R. Salvatore, La distanza amorosa, cit., pp. 55-67.

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sappiamo – ha costituito per Freud il punto di partenza per Al di là del principio di piacere (oltre che un primo, abbozzato passo in direzione del godimento).

È interessante innanzitutto notare come i due principi alla base di questo gioco con cui il bambino getta via e poi riattira a sé il rocchetto – e cioè il principio dell’alternanza (vicino-lontano, presente- assente) e quello della ripetizione (poiché le due fasi alternate continuano a succedersi l’una all’altra) – si ritrovino all’opera, in maniera piuttosto fedele, nel meccanismo più elementare del cinema stesso, basato essenzialmente sull’alternanza e la ripetizione di inquadrature e su un movimento continuo di scorrimento della pellicola.

Raymond Bellour, dalle sue prime analisi del film negli anni Sessanta e Settanta fino ad oggi, ha insistito a lungo su quanto variazione e ripetizione rappresentino – oltre che i principi basilari della suggestione ipnotica – anche le due grandi categorie costitutive del cinema, destinate a coesistere ed implicarsi l’un l’altra (la variazione suppone l’alternanza dei termini secondo un certo ritmo)22. Per quanto riguarda il principio del Fort-Da, è stato notato che la particolarità del gioco consiste più precisamente nel fatto che il bambino non trae tanto il piacere dall’avvicinare l’oggetto a sé, quanto piuttosto dall’allontanarlo. «Questo attaccamento alla perdita in quanto perdita potremmo chiamarlo godimento», afferma Roland Chemana23.

Dunque il Fort-Da è all’origine dell’automatismo di una ripetizione che servirebbe a padroneggiare ciò che è difficilmente accettabile o che procura dispiacere: la privazione di un oggetto, la partenza della madre, una mancanza, un allontanamento, una perdita.

È stato Didi-Huberman – nella sua lunga riflessione sull’ineluttabile scissione connessa all’atto del vedere – a mettere in relazione il funzionamento dell’elementare dispositivo freudiano del Fort-Da con quello della visione tout court, sostenendo che ciò che vediamo, nei casi maggiormente interessanti da un punto di vista affettivo, altro non è che quanto resta di una perdita, «può morire in ogni momento, andando e venendo come batte un cuore o come rifluisce l’onda». Il Fort-Da allora – secondo l’autore – inventerebbe un vero e proprio luogo per l’assenza, rimettendo in gioco dialetticamente e in un rilancio perpetuo, attivo e dinamico la convivenza fondamentale tra vedere e perdere24. Per Didi-Huberman i corpi (e certamente anche le immagini) sono «cose da toccare, da carezzare, ostacoli contro cui “battere il cranio” […]; ma anche cose da cui uscire e in cui rientrare, volumi dotati di vuoti, di tasche e ricettacoli organici, bocche, sessi, forse anche l’occhio stesso»25.

22 R. Bellour, Le corps du cinéma, cit., p. 334. 23

R. Chemana, La jouissance, enjeux et paradoxes, cit., p. 22.

24

G. Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde [1992], tr. it. Il gioco delle evidenze, Fazi, Roma 2008, p. 48.

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Si trattarebbe allora di un modo di percezione che da ottico diventa aptico, implica cioè il contatto, il toccare, l’avanzamento fisico nello spazio, così da produrre una conoscenza sensibile, tangibile, riguardante il corpo ed implicante il sintomo26. La visione si fa così epidermica, cinestetica, corporale27.

Possiamo considerare questo tipo di visione una modalità del sintomo, poiché alcune immagini – le immagini del godimento – sarebbero capaci di attivare in noi una speciale sensorialità per la quale avvertiamo che all’atto del vedere, quindi dell’acquisire, del “guadagnare” qualcosa, corrisponde sempre, inversamente, una perdita costante, che «mette in opera il gioco anadiomene, ritmico, della superficie e del fondo, del flusso e del riflusso, del tiro e del ritiro, dell’apparizione e della sparizione»28. Alternanza e ripetizione, dialettica del godimento.

Vedere – conclude Didi-Huberman – è sempre un’operazione del soggetto, dunque un’operazione scissa, inquieta, agitata, “aperta”. In una parola, sintomatica. Poiché l’immagine, come il sintomo, può essere dotata di una straordinaria complessità dialettica e visuale.

Nel campo delle immagini infatti, almeno da Warburg in poi, la rappresentazione stessa è sottomessa al sintomo, e in alcuni casi l’immagine, nella sua tensione dialettica – altro punto di comunanza con i paradossi della jouissance, per i quali anche le immagini di terrore hanno spesso carattere attraente – si fa carico e veicolo di speciali formule patetiche.

Di fronte a un quadro di Botticelli ad esempio – fosse anche il nudo apparentemente pudico, minerale e impenetrabile di una Venere – Aby Warburg notava che l’immagine era in grado quasi di “toccare” l’osservatore, di ferirlo e lacerarlo nel profondo, grazie ad un altissimo valore partecipativo per il quale «l’elemento psichico, patico, ovvero empatico» si apriva ad un’infinità di connessioni con l’esterno. Anche una figura come quella di Venere allora, grazie alla coesistenza inquieta e impura di sobrietà apollinea e violenza dionisiaca, non possiede, in definitiva, alcuna stabilità semantica29.

26 Sul trasferimento in ambito cinematografico del concetto di aptico – elaborato nella storia dell’arte da Alois Riegl –

nel suo contrasto con l’ottico cfr. A. Lant, Haptical Cinema, «October», 74, 1995, pp. 45-73, e D. Trotter, Stereoscopy, Modernism and the “Haptic”, «Critical Quarterly», 46, 2004, pp. 38-58.

27

Si ripensi alla già ricordata teoria dell’Io-pelle affrontata in L. Albano, Lo scudo di Perseo e lo schermo cinematografico, cit.

28 G. Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze, cit., p. 8.

29 Id., Ouvrir Vénus. Nudité, rêve, cruauté [1999], tr. it. Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Einaudi, Torino 2001,

p. 21. Per quanto riguarda più nello specifico il cinema contemporaneo come incarnazione dei nuovi sintomi rimando nuovamente ad A. Bellavita L’emersione del Reale, cit., in cui l’autore individua una serie di film capaci di mostrare i segni della dimensione patologica ostentando la loro malattia «sia nei corpi e nelle azioni che mettono in scena, che nel loro corpo proprio, cioè nel loro corpo linguistico» (ivi, p. 222). In molte forme del cinema e dell’arte contemporanea, ci ricorda Bellavita, la patologia diviene dunque un regime discorsivo, cosicchè la psicoanalisi risulta lo strumento interpretativo più adatto ad interrogare questi discorsi.

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