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La morte di Narciso e il godimento dello specchio Sull’identificazione

Il godimento dell’occhio o l’esperienza di jouissance nella situazione cinematografica

2.5 La morte di Narciso e il godimento dello specchio Sull’identificazione

Passiamo ora a considerare come il godimento si pone in rapporto all’identificazione, veicolo privilegiato di messa in atto delle forme di credenza al cinema da parte dello spettatore. Gran parte del piacere procurato dal film, infatti, deriva proprio dall’identificazione: primaria, cioè con lo sguardo stesso della macchina da presa nei confronti del profilmico (e successivamente con il fascio di luce del proiettore in sala), e secondaria, cioè con i personaggi delle storie raccontate dai film. Se l’identificazione è fonte primaria di piacere al cinema, il godimento allora – che non funziona come il piacere – verrà attivato, in sala, attraverso meccanismi diversi. Esso “scatterebbe” infatti in particolari condizioni di anomalia o di devianza rispetto all’identificazione lineare classica, condizioni che ci portano a parlare, piuttosto, di “disidentificazioni”, “iperidentificazioni” o altre forme di identificazioni mancate, difettose, malriuscite, accostabili a fenomeni di dismorfofobia – forme cliniche di distorsione percettiva per cui il proprio aspetto fisico viene avvertito come deforme – e altri disturbi somatoformi, cioè relativi a problemi fisici ma prodotti non da causa organica bensì percettiva78.

Già Freud – ci ricorda Massimo Recalcati – ne I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica (1910) sosteneva che quanto avviene in alcuni gravi malfunzionamenti della vista è che l’efficienza macchinica dell’occhio come puro organo anatomico finalizzato alla visione «viene decisamente squilibrata ed alterata da un eccesso di investimento libidico inconscio»79.

76 J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, cit., p. 214. 77

Siamo vicini qui a quanto dice Benoît Jacquot a proposito della scelta di girare Télévision: «Si è voluti iniziare da un punto di vista puramente documentaristico e ci siamo resi conto che la parola di Lacan non sopportava il documentario, che per toccare la verità doveva passare per la finzione». Problema del resto squisitamente cinematografico: «Il rapporto tra documento e finzione è quasi all’origine del cinema, è la prima questione del cinema […]. Finché ci sarà questa questione ci sarà del cinema e finché ci sarà cinema ci sarà questa questione. Passare per la finzione per raggiungere il reale» (Tavola rotonda su Lacan e il cinema, cit., p. 56).

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Sulla complessità dei meccanismi di identificazione nonché sull’influenza della distinzione lacaniana tra desiderio e godimento nell’analisi dei film cfr. G. Bottiroli, Identità come identificazione: nei film (e non negli spettatori), «Imago», 2, Cinemafilosofia, a cura di P. Bertetto a A. Minuz, 2010, pp. 51-71.

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La funzionalità percettiva ordinaria dell’occhio insomma, nei disturbi psicogeni della vista, verrebbe fortemente compromessa perché un carico libidico eccessivo ne scompaginerebbe l’andamento; capiamo allora che il godimento scopico trascende il piano della mera funzione anatomica dell’occhio. Se quest’ultimo risponderebbe innanzitutto ad una pulsione di autoconservazione, al contrario «il suo disturbo isterico sottolinea l’avvento di un piacere inopportuno e supplementare (anticonservativo), in grado di deviare la funzione naturale della visione dal puro ambito percettivo per esaltarne invece la valenza libidica»80.

Sulla base di queste osservazioni, nella situazione pura di godimento scopico al cinema parrebbe esserci un’inclinazione naturale verso “il nocivo”, un aspetto molto forte della jouissance.

Possiamo inoltre ricordare che per Lacan lo stesso godimento prodotto dall’immagine speculare nello Stadio dello specchio contiene già in sé un germe di angoscia per via dell’alienazione, poiché il piccolo d’uomo, identificandosi nella propria immagine riflessa, si rappresenta come esterno a sé stesso e al proprio corpo («la prima sintesi dell’ego è alter ego, è alienata»)81

, e sperimenta fin da subito l’incapacità strutturale di coincidere con la propria immagine, incapacità che lo affliggerà per tutta la vita e che risulta particolarmente evidente nei casi di assoluta disperazione provata da soggetti malati di una deficienza della funzione di specularità, i quali devono ricorrere ad altri espedienti – come appoggiarsi contro ai muri, o osservare il proprio corpo mentre afferra oggetti e si muove nello spazio – per poter sostenere il proprio registro immaginario82.

Si pensi alla struggente descrizione della morte di Narciso raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi, a cui Vittorio Sermonti ha recentemente regalato un’interpretazione magistrale, descrizione che raggiunge il culmine dello strazio nel momento in cui il giovane, poco prima di morire affogato a causa del suo delirio d’amore, tenta invano di afferrare la propria immagine nell’acqua, scoprendo che l’assillo che più gli affliggeva l’anima altro non era che l’immagine di se stesso83. Come scrive Julia Kristeva a proposito di questo mito, «si assiste quindi a una scena erotica tra Narciso e il suo doppio, tutta tessuta di abbracci impossibili, di baci cancellati, di toccamenti delusi. […] A forza di

80 Ibidem.

81 J. Lacan, Le séminaire. Livre III. Les Psychoses, 1955-1956, tr. it. Il seminario. Libro III. Le psicosi, 1955-1956,

Einaudi, Torino 1985, p. 47.

82 Tra gli altri disturbi sensoriali di negligenza spaziale ricordiamo l’allochiria, consistente nella confusione tra il lato

destro del corpo e quello sinistro.

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Faccio riferimento alla memorabile lettura di un passo da lui tradotto e non ancora edito che ho avuto la fortuna di ascoltare durante il Seminario Il sintomo come legame sociale tenuto da Gabriella Ripa di Meana il 12 aprile 2012 a Roma.

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frustrazioni, Narciso indovina che in realtà egli si trova in un universo di “segni”. […]. E così Narciso muore al bordo della sua immagine»84.

L’esempio estremo, proposto da Recalcati, degli specchi antisuicidio utilizzati nelle stazioni ferroviarie giapponesi sul finire degli anni Novanta per impedire agli aspiranti suicidi di gettarsi sotto ai treni causando ritardi, può darci un’idea dell’ambiguità profonda connessa al problema dell’identificazione con la propria immagine, momento altamente condensatorio di giubilo ed angoscia assieme. La compagnia di treni che escogitò questo insolito rimedio – cioè collocare degli specchi in prossimità dei binari – intuì che vedere la propria immagine riflessa, poco prima di uccidersi, avrebbe costituito una sorta di incentivazione narcisistica in grado di contrastare la tendenza suicidaria (ricordiamo che la depressione consiste fondamentalmente in un impoverimento narcisistico dell’Io)85

. Capiamo allora quanto l’immagine di sé sia fondamentale nella strutturazione della propria soggettività.

Per quanto riguarda i casi più interessanti e singolari di eccezioni all’identificazione filmica ordinaria e tradizionale, un film come Le quattro volte di Michelangelo Frammartino (2010) rappresenta un esempio supremo dei miracoli identificatori possibili al cinema oggi, non richiedendo affatto, allo spettatore, di immedesimarsi con un essere umano in carne ed ossa o con un’altra qualsiasi figura antropomorfa: ci si può identificare con perfezione sconcertante anche in un capretto, un carbone o un abete (il film, tutto girato in un villaggio calabrese di pastori e contadini, immagina la storia di quattro reincarnazioni).

«Nel progetto – racconta l’autore – c’era questa volontà di utilizzare una realtà così cruda, frontale, ottusa, c’era il gusto di andare a filmare bestie, piante, sassi e far sì che non fossero solo questo: gli alberi non sono solo alberi, le capre non sono solo capre»86. L’assenza di esseri umani in questo film, del resto, è pressoché totale: non si tratta che di rare, minuscole figurine che compaiono da lontano all’interno dell’inquadratura, oppure di voci evanescenti, distanti e confuse, o di echi di passi e zoccoli al seguito di processioni e funerali. Tuttavia, l’insistenza sui dettagli e un uso strabiliante del sonoro permettono allo spettatatore di penetrare a fondo e in maniera capillare nell’universo più intimo del racconto, nei suoi interstizi più nascosti e segreti. I dialoghi sono praticamente ridotti a zero: lungo tutto il film non viene proferita parola, gli unici suoni sono il

84 J. Kristeva, Histoires d’amour [1983], tr. it. Storie d’amore, Donzelli, Roma 2012, pp. 92-93. 85

M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 226.

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Intervista a cura di Marco Fagnocchi, «Dude», 1, 2012, p. 17. Sulla questione del realismo nel film come «costruzione e pazienza dello sguardo» cfr. G. Tinazzi, Le quattro volte, realismo come rivelazione, «Lo stato delle cose. Cinema e altre derive», 1, 2012, pp. 9-17.

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belato delle capre, i loro campanacci, il sibilo del vento tra gli alberi e il vociare confuso degli abitanti del villaggio. È anche grazie a questa incredibile architettura sonora che il film sprigiona un così grande carico affettivo, offrendo forte risonanza ad un uso della macchina da presa intesa dal regista come miglior strumento per mostrare il legame sottile tra l’uomo e ciò che lo circonda: «questo strumento ti fa sentire che le cose intorno a te sono della tua stessa stoffa»87, afferma Frammartino, che aspira dunque al raggiungimento di una fusione profonda non solo tra il regista e le sue immagini, ma anche tra lo spettatore e il film («mi piace dire che l’ultimo stadio della reincarnazione è quella dello spettatore con il film e viceversa»)88.

Raymond Bellour, nella sua lunga riflessione sull’emozione cinematografica – sorta di “piega” capace di fissare nell’anima le impressioni ricevute dagli organi – sostiene che, guardando un film, non ci si identifica solo con gli stati d’animo dei personaggi, ma anche con qualsiasi cambiamento o modulazione drammatica, figurativa o figurale della situazione filmica. Anche «il corpo dello spettatore è un corpo in espansione che il film modella e modula secondo le inflessioni della sua massa variabile»89, e questo ci permette di distinguere tra emozioni di contenuto, o psicologiche – quelle provocate dall’identificazione con i personaggi e le storie che vivono – ed emozioni tout court, di altro tipo: pure, assolute, prodotte dalla messa in forma del film in sé. In questo secondo caso è lo spazio stesso, grazie alla sua configurazione, a vibrare nella sua interezza rapportandosi alla storia raccontata, producendo così una situazione diffusa di godimento. Le quattro volte è un film che procede decisamente in questa direzione, sfruttando a fondo tutta la gamma di “soluzioni affettive” attivabili nello spettatore, come se esse provenissero da una sorta di sorgente extrafilmica assoluta completamente indipendente dalla fattispecie della storia immaginata e dei personaggi che la vivono.

Mi piace pensare che ci sia qualcosa che viene da fuori, non viene da te e ti domina – continua Frammartino – è quel rapporto con la realtà per cui in qualche modo diventi suddito. A me è piaciuto filmare le capre, perché non le potevo comandare, ero in qualche modo sopraffatto. […] Ho sempre preferito, nel conflitto che si crea con la realtà, […] avere la peggio90.

Un po’ come ha la peggio – rispetto al carico affettivo che lo invade dall’esterno e quasi lo spossessa – il soggetto lacaniano in preda al godimento.

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«Dude», 1, cit., p. 18.

88

Ivi, p. 19.

89 R. Bellour, Le corps du cinéma, cit., p. 315. 90 «Dude», 1, cit., p. 19.

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2.6 Simmetrie della logica o il non-limite del godimento. Considerazioni matteblanchiane sul

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