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Il miracolo delle mani vuote o l’illusione della reciprocità Il cinema come metafora dell’amore

Godimento e sesso: la disarmonia strutturale e il malinteso dell’amore

5.3 Il miracolo delle mani vuote o l’illusione della reciprocità Il cinema come metafora dell’amore

Laurent Jullier ricorda il lungo dialogo sulla diatriba antihollywoodiana tra Florence (Elsie Ames) e Minnie (Gena Rowlands) in Minnie e Moskowitz (Minnie and Moskowitz, John Cassavetes, 1978), all’uscita dal cinema dopo aver visto Casablanca: Minnie si lamenta del fatto che il cinema, attraverso i suoi film, illuderebbe ingiustamente il pubblico costringendolo a credere nell’amore, quando l’amore non esiste («Non c’è Charles Boyer nella mia vita, Florence. Non ho mai incontrato un Charles Boyer. Né un Clark Gable, né un Humphrey Bogart. Mai»). L’autore ricorda quindi l’insistenza della macchina da presa sullo sguardo afflitto della donna mentre parla, sull’infinita tristezza dei suoi occhi34.

Per Lacan, come abbiamo finora messo in luce, tutta la tradizione della teoria dell’amore attribuirebbe ai due partner posizioni impari, disuguali: Eros – supremo agente decostruttore – non unisce, disgiunge. Eros non è medio, è scisso, incapace di unire: divarica gli estremi allontanandoli l’uno rispetto all’altro, così che non si è mai amanti insieme, ma l’uno è l’amante, l’altro l’amato. È nel Seminario VIII che Lacan analizza la questione del rapporto d’amore per chiarirne la natura asimmetrica, attraverso il commento al Simposio di Platone35.

Qui Lacan inventa, sul modello platonico, un proprio mitologema: la metafora dell’amore, cioè l’immagine di una mano protesa ad afferrare un frutto o una rosa, o un ceppo ardente. Se da questo oggetto venisse fuori un’altra mano – e se questa mano venisse a sua volta incontro a noi – allora si produrrebbe l’amore. «Questa mano che appare dall’altro lato è il miracolo, il miracolo dell’amore», scrive Bruno Moroncini, che alla rilettura lacaniana del Simposio di Platone ha consacrato un libro36. La metafora dell’amore, in ultima analisi, non significa altro che l’amore è una metafora: «Sostituite al frutto, alla rosa e al ceppo, l’oggetto amato. Cosa vi aspettate? Che quest’oggetto improvvisamente si animi, che da desiderato da voi si trasformi come per miracolo in colui o colei che vi desidera. E che voi siate trasformati nell’oggetto del suo desiderio. L’amore è una sostituzione»37. Ciò che io desidero deve farsi a sua volta attivo e desiderarmi, facendo sì che io diventi il suo oggetto del desiderio. La metafora dell’amore esprime dunque a un tempo l’illusione della reciprocità e la verità della dissimmetria.

34 L. Jullier, Hollywood et la difficulté d’aimer, Stock, Parigi 2004, pp. 7-8. 35

J. Lacan, Le séminaire. Livre VIII. Le transfert, 1960-1961, tr. it. Il seminario. Libro VIII. Il transfert, 1960-1961, Einaudi, Torino 2008.

36 B. Moroncini, Sull’amore, cit., p. 31. 37 Ivi, p. 32.

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Ce ne dà un’immagine bellissima Godard in Nouvelle Vague (1990), nel dialogo tra i due amanti che si incontrano per la prima volta e si ritrovano a sfiorarsi le mani, senza fare altro: «Quelle merveille que de pouvoir donner ce qu’on n’a pas!», dice lei; «Miracle des mains vides», risponderà lui, «dolce miracolo», conclude la donna (in italiano), descrivendo alla lettera – nel suo malinteso di fondo, e nella sua impossibilità ontologica – la definizione lacaniana dell’amore: dare qualcosa che non si ha (perché dare ciò che si ha è invece carità) a qualcuno che non la vuole38. Appoggiandoci ancora sulla lettura lacaniana del Simposio di Platone, ci pare adesso più facile capire come il cinema – il cinema tout court nella configurazione stessa del suo apparato – si sganci dalla logica della reciprocità implicata dal desiderio, dalla domanda e dall’amore per attivare al contrario una fortissima condizione di godimento. Il Simposio infatti – che ha per tema non il godimento, ma l’amore – è uno dei luoghi deputati all’esperienza dell’altro; qui,

in base al principio dell’isonomia, i convitati si dispongono nella sala […] in modo tale da potersi vedere reciprocamente, ognuno deve essere a portata di sguardo e di voce rispetto a tutti gli altri e a tal fine i letti sono accostati alle pareti mentre il cratere viene posto al centro39.

Spicca subito all’occhio come questo modello sia ben diverso da quello cinematografico, dove al contrario il rapporto dei soggetti-spettatori tra di loro è completamente annullato a vantaggio di quello che ciascuno di essi intrattiene singolarmente con lo schermo. Non c’è alcuna reciprocità, in sala, tra uno spettatore e l’altro: ecco perché il cinema, inteso come piacere solitario dello spettatore con se stesso, può essere letto, in questo senso, come un catalizzatore estremo del godimento. Se c’è una forma d’“amore” nella situazione cinematografica va cercata piuttosto sul versante dell’ipnosi, oggi descritta da Raymond Bellour come uno dei tormenti più vivi del secolo scorso, e in un certo senso legata al cinema molto più di quanto possa esserlo il sogno. L’ipnosi infatti – a differenza del sogno e proprio come il cinema – richiede, per funzionare, un apposito dispositivo di messa in scena: in entrambi i casi, insomma, lo stimolo è indotto dall’esterno40.

Se possiamo dunque accostare il cinema – in virtù dei processi di fascinazione e incantamento a cui sottopone lo spettatore – ai meccanismi stranianti dell’ipnosi, sappiamo anche che lo stato ipnotico,

38 Sul ruolo decisivo che la pittura, le arti visive, la poesia e il mito hanno giocato nella riflessione di Lacan sull’amore e

nell’elaborazione dei suoi enunciati e delle sue note formule, cfr. ancora J. Allouch, L’amour Lacan, cit., pp. 14-15.

39 B. Moroncini, Sull’amore, cit., p. 41. Ricordiamo per inciso che il termine isonomia indicava nella Grecia classica sia

l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge sia, in campo medico, il perfetto equilibrio delle sostanze e degli umori di cui è costituito il corpo (equilibrio omeostatico implicato dal principio di piacere ma completamente sovvertito dal godimento).

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in psicoanalisi, è paragonabile proprio all’innamoramento: in nessun’altra esperienza umana infatti, come nota Carotenuto, si è catturati con altrettanta intensità dall’oggetto41. Come nell’ipnosi, la relazione amorosa provoca una fissazione della libido sull’essere amato (Nestor Braustein, a proposito del termine freudiano Libido, invita a ricordare che esso deve essere pensato in una lingua in cui amore si dice Liebe)42, rendendo l’innamorato come stregato e ossessionato dall’immagine dell’altro.

Bataille ha dimostrato come l’oggetto cui aspira l’erotismo, sebbene sia posto al di fuori di se stessi (altro caso di “dispositivo esterno”), non è che il riflesso dell’interiorità del proprio desiderio. Con parole bellissime egli scriveva ne L’erotismo che «per colui che ama l’essere amato è la trasparenza del mondo»43. C’è dunque un nodo stretto che lega le grandi questioni dell’identificazione, dello stato amoroso, del cinema e dell’ipnosi: «In quanto miraggio speculare, l’amore ha essenza di inganno»44

, scrive Lacan nel suo undicesimo seminario, e la stessa affermazione – alla luce di quanto finora osseravato – potrebbe valere per il cinema.

Si pensi ad esempio all’immagine emblematica di Narciso – figura mitologica dell’amore nel suo stato più puro, cioè nella sua componente, appunto, narcisistica – che mentre beve chinato su una fonte, «sedotto dall’immagine della propria bellezza, si invaghisce di un riflesso senza consistenza, scambia per un corpo ciò che non è che un’ombra»45. È un’immagine che dimostra quanto l’amore, nella sua essenza ultima, abbia come oggetto proprio un miraggio, mero prodotto di un errore degli occhi. «L’amore è, insomma, lo sguardo dell’anima verso le cose invisibili»46

, così come è “invisibile”, in un certo senso, anche il significante cinematografico, che dell’oggetto rappresentato – oggetto che consente la stessa illusione referenziale – non è che un riflesso.

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