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Il godimento dell’occhio o l’esperienza di jouissance nella situazione cinematografica

2.9 Dal desiderio al godimento Esempi di film

Col godimento – che, lo abbiamo visto, è spreco, dissipazione, dispendio inutile – siamo agli antipodi del concetto di risparmio (centrale invece nel Motto di spirito, una delle opere di Freud maggiormente tenute in considerazione negli studi di estetica), quindi del profitto da cui si ricava piacere. Ma allora che cos’è che ci dà piacere nel godimento? Se il piacere deriva generalmente da un risparmio, come può prodursi attraverso un simile dispendio?

Tra un polo e l’altro trovano spazio le numerosissime forme e configurazioni narrative dei film, che spaziano dall’abbreviazione più stringata, densa e sintetica del racconto, a quelle che prediligono al contrario il rinvio della risoluzione e la dilatazione estenuata dei tempi. Anche in questo caso gli esempi nel cinema sarebbero numerosissimi, e il godimento può realizzarsi attraverso modalità diverse in un caso come nell’altro.

Esiste, in ogni film, un punto di massimo godimento? E la sensazione di completezza ed appagamento che ne conseguirebbe, coincide sempre con il finale148?

Certo si prova un gran sollievo dopo la corsa conclusiva di Antoine Doinel ne I quattrocento colpi (Les 400 coups, François Truffaut, 1959), forse il più bel finale della storia del cinema, o nell’ultima scena di Morte a Venezia (Luchino Visconti, 1971), con la mano di Von Aschenbach protesa invano ad afferrare la giovinezza che si allontana lungo il mare al tramonto (di troppa bellezza – come di

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M. Recalcati, Elogio dell’inconscio, cit., p. 105.

148 Sulla questione dei finali dei film cfr. B. Di Marino, L’ultimo fotogramma. I finali nel cinema, Editori Riuniti, Roma

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colera – si può anche morire). Oppure nella sequenza finale di Amor di perdizione (Amor de perdiçao, Manoel de Oliveira, 1978), quando il mare blu scurissimo inghiottisce per sempre Teresa e Simao e le loro lettere d’amore risalgono a galla, mentre i due amanti sprofondano giù per sempre; o ancora, più di recente, si pensi alla sequenza conclusiva di Un amore di gioventù (Un Amour de jeunesse, Mia Hansen-Løve, 2011), capace di dimostrare che per creare uno dei finali più esatti ed aggraziati mai pensati al cinema è sufficiente un cappello, quello che la giovane Camille insegue con testardaggine lungo il fiume che trascina lentamente via con sè il tempo dell’adolescenza e del primo amore.

Ma l’apice del godimento in un film – il punto massimo di scarico della tensione – può collocarsi al contrario in altri momenti del racconto: basti pensare a capolavori come Persona (Ingmar Bergman, 1966), dove a metà film, per il troppo carico emotivo, la pellicola addirittura si spezza, o Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960), in cui l’uccisione della protagonista Marion Crane avviene nella prima parte del racconto, o ancora Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945), film tagliato letteralmente in due dalla celeberrima scena della corsa e caduta di Anna Magnani, momento unico e irripetibile di massima intensità e di godimento.

Per concludere questa prima parte di studio del godimento nel cinema suggeriamo infine altri due film i quali – se non altro nei rispettivi titoli, impeccabili da questo punto di vista – incarnano con sorprendente esattezza una delle opposizioni strutturali del nostro discorso: si tratta di Desiderio (Roberto Rossellini e Marcello Pagliero, 1945)149 e Il godimento (Etsuraku, Nagisa Oshima, 1965). Nel film di Oshima seguiamo il protagonista Wakizawa (Katsuo Nakamura) lungo la sua catastrofica caduta a picco.

Costretto da un anonimo truffatore (a conoscenza di un segreto che lo riguarda: il crimine che gli ha visto commettere in treno, cioè l’assassinio dell’uomo che violentò da bambina il suo primo amore Shōko [Mariko Kaga]) a custodire una grossissima somma di denaro in attesa che lui sconti la propria pena per poi potersene nuovamente riappropriare, Wakizawa sperpererà in maniera morbosa, compulsiva e irrefrenabile il preziosissimo denaro, decidendo infine di uccidersi proprio a causa dell’amore non corrisposto di Shōko, la donna di cui è da sempre perdutamente innamorato, e che tuttavia non riuscirà a “comprare”.

Wakizawa tenterà inutilmente, lungo tutto il film, di sostituirla con altre donne (che le assomigliano anche fisicamente: meccanica della ripetizione, ricerca dell’Identico, dello Stesso, accumulo dell’Uno del Godimento), alle quali offrirà denaro, case, vestiti, gioielli e ogni sorta di bene: la

149 Il film, iniziato nel ’43 da Rossellini con il titolo Scalo merci, fu interrotto a causa della guerra e ripreso nel ’45 da

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cameriera Hitomi, la sottoproletaria Shikuzo, la dottoressa Keiko, la prostituta Mari. Ma l’uomo, intrappolato nella successione rovinosa di questi tentativi di appagamento disperati e fallimentari, non troverà pace, e verrà arrestato prima di potersi uccidere.

Sarà stata proprio Shōko ad accusarlo, la donna a cui aveva donato tutto, finanche ciò di cui non era legalmente in possesso (perfetta sintesi lacaniana dell’amore: dare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole).

Il godimento ha un costo reale per il soggetto, comporta grosse spese, nel caso di questo film anche da un punto di vista economico: ripensiamo all’analogia tra plusvalore marxiano e plusgodere, proposta da Lacan stesso.

Del resto, Oshima è sempre stato attirato dall’idea della morte convertibile in vita pagando un certo prezzo, e questa riflessione allucinata rende Il godimento un perfetto film-metafora sulla perversità del capitale. Oshima crede infatti nel “valore d’uso” della giovinezza, «da godere come “bene utile”», e Wakizawa non farà altro che degradare la propria giovinezza a merce di scambio, a feticcio150.

In questo film, che pure ha al centro Eros con tutto il suo carico mortifero, Oshima non ha ancora trasgredito il divieto della nudità in Giappone, tabù che infrangerà una decina d’anni dopo con L’impero dei sensi, film che analizzeremo in seguito. La vera, scandalosa rottura riguarderebbe piuttosto la forma filmica stessa, frantumata da un montaggio nervoso e frenetico che non lega affatto i piani gli uni agli altri, ma mira piuttosto a scardinarne ogni linearità. È la scrittura stessa del film insomma, come sostiene Jean Duchet, a rompere realmente con le terribili costrizioni della struttura rituale e delle regole della società giapponese: la vera messa a nudo, in questo caso, è proprio quella del corpo narrativo del film151.

Il cinema di Oshima, a partire da questo momento, sarà sempre più marcato dall’ossessione erotica, da Eros come «esperienza totale, dissipazione, dissoluzione e morte»152. In una parola, godimento. In tutt’altro modo funziona Desiderio, film che reca inscritta già nel titolo la mancanza strutturale e incolmabile di ogni soggetto, mancanza che affliggerà e tormenterà la protagonista Paola (Elli Parvo) fino alla morte.

Paola è innanzitutto oggetto del desiderio (degli uomini che la vorrebbero: Riccardo, Nando, Giovanni, e di quelli che pagano per il suo amore) ma è anche, e soprattutto, soggetto del desiderio,

150 Cfr. S. Arecco, Nagisa Ōshima, Il castoro, Milano 1979, p. 45. 151

Vedi l’analisi del film contenuta nel bonus dell’edizione francese del DVD (Carlotta Films). Sergio Arecco definisce il film di Oshima erotico «non tanto per la presenza della tematica sessuale, quanto per l’aggressività libidica con cui questo cinema muove e scopre il proprio corpo narrativo»; ivi, p. 47.

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irrimediabilmente scisso, a se stesso mancante (la donna – completamente decentrata ed esclusa rispetto alle situazioni che la circondano – rifiuterà, ad una festa, le avances di un uomo vecchio e invadente disposto a coprirla d’oro, chiedendogli: «con tutti i suoi doni che cosa potrebbe fare per me? compensare il vuoto che ho nell’anima?». Rifiuto netto di godimento, affermazione incontrastata di desiderio).

La radice latina della parola “desiderio” – fa notare Aldo Carotenuto – indicava la situazione di un àuspice incapace di fare previsioni a causa dell’assenza di stelle (sidera); così in amore, quando desideriamo, non saremmo più in grado di orientarci, perché qualcosa ci manca153.

Innamorata di Giovanni (Carlo Ninchi) e tormentata dal fatto di non poterlo includere nel ciclo mortifero della propria vita (Paola fa la prostituta, ma sogna forse di sposarsi, vorrebbe certo sganciarsi dalla spirale rovinosa del godimento maligno e disperato che la incatena alla ripetizione sterile e infelice dell’atto sessuale)154

, finirà col darsi la morte, portando a compimento una circolarità che il film aveva inaugurato con il suicidio iniziale di una sconosciuta per strada, episodio apparentemente casuale e sganciato dal resto della vicenda, e invece necessario in quanto occasione narrativa per Paola e Giovanni di incontrarsi (l’una sviene, sconvolta dalla scena, l’altro le presterà soccorso).

Nella sequenza finale, dopo aver subito minacce, ricatti, soprusi e gelosie, oltre al tradimento da parte della sorella Anna, Paola si getta giù da un ponte. Giovanni arriva sulla scena del suicidio proprio in quel momento, ma il film non ci fa vedere se l’uomo scoprirà che il cadavere è proprio quello della sua amata. Il film si chiude infatti con il verbale di suicidio mentre l’uomo, carico di speranze e con la valigia in mano, si incammina di spalle, ignaro di tutto, lungo la strada.

Se dunque Paola fallisce nel fragile tentativo di incrinare la compulsione ottusa e inarrestabile del godimento a ripetersi e a godere, per contro realizzerà a pieno il solo grande imperativo dell’etica lacaniana: l’agire in conformità al proprio desiderio, fino alla morte155.

153 A. Carotenuto, Eros e pathos. Margini dell’amore e della sofferenza, Bompiani, Milano 2009, pp. 29-30.

154 Jacqueline Barus-Michel ricorda la differenza fondamentale tra l’attività sessuale dell’uomo e quella della donna:

«per l’uomo, l’atto sessuale che feconda è indissociabile dall’orgasmo, mentre la donna può essere “messa incinta” senza provare alcun piacere». Nella donna, infatti, piacere e procreazione non coincidono necessariamente; così, la prostituzione non rappresenta affatto «le donne e il godimento, ma le donne per il godimento degli uomini»; J. Barus- Michel, Jouissance, destruction, procréation, «Le journal des psychologues», 235, 2006, pp. 50-51.

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PARTE SECONDA

MOMENTI E STATI DI JOUISSANCE. IL GODIMENTO NEI FILM

Capitolo 1

Il godimento del corpo. Iperidentificazioni, dismorfismi e altri deliri

Spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno al quale l’intelletto si affanna inutilmente. (Carl Gustav Jung)

1.1 Il corpo umano tra cinema e psicoanalisi

Quello sul corpo al cinema – indipendentemente dai termini in cui ne parleremo, e cioè del corpo come luogo e veicolo di godimento – è un tema estremamente attuale, che ha visto svilupparsi negli ultimi anni un consistente sforzo teorico e analitico1.

Tuttavia è un tema che ha radici antiche. Il cineocchio di Vertov ad esempio, negli anni Venti, era già, e soprattutto, corpo. Esso, come un essere umano, nei suoi scritti parla in prima persona:

Io sono il cineocchio. Io prendo da uno le mani più forti e agili, da un altro le gambe più snelle e veloci, da un terzo la testa più bella ed espressiva, e con il montaggio creo un uomo nuovo, perfetto. […] io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, striscio sotto di essi, vi monto sopra, io mi muovo fianco a fianco col muso di un cavallo in corsa, io mi lascio cadere sul dorso, io mi levo in volo con gli aeroplani, precipito e risalgo, in volo, con corpi che precipitano e risalgono2.

Un enorme corpo fattosi occhio, insomma, o viceversa. Un mostro di potenza. Quasi un deleuziano “corpo senza organi” che ricorda il corpo in frantumi dello schizofrenico (o, come notavamo nel

1 Cfr. tra gli altri, in ambito francese: J.-L. Comolli, Corps et cadre. Cinéma, éthique, politique, Verdier, Parigi 2012; J.

Game (a cura di), Images des corps / corps des images au cinéma, Ens, Lyon 2010; N. Brenez, De la figure en géneral et du corps en particulier. L’invention figurative au cinéma, De Boeck, Bruxelles 1998; V. Amiel, Le corps au cinéma. Keaton, Bresson, Cassavetes, Presses Universitaires de France, Parigi 1998; tra le riviste vedi «CinémAction», 121, Le corps filmé, 2006. In Italia ricordiamo G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Il corpo del film, cit.; C. Simonigh, Il cinema, il corpo e l’anima, Le Mani, Genova 2008, G. Anaclerio, Il corpo e il frammento, cit. Sul versante psicoanalitico segnaliamo invece: «La Psicoanalisi», 28, Il corpo, 2000.Sul cinema e la sensorialità cfr. AA. VV., I cinque sensi del cinema, atti dell'XI Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Udine-Gorizia, 15-18 marzo 2004; T. Elsaesser, M. Hagener, Film Theory. An Introduction Through The Senses [2009], tr. it. Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2009.

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