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Sua Maestà il Linguaggio: il godimento nei dispositivi di visione e nel discorso d’amore

2.1 Il funzionamento discorsivo della jouissance

Per Lacan il linguaggio non è comunicazione, è prima di tutto inganno, problema, malinteso, alienazione. È il linguaggio la grande Malattia dell’essere umano, il suo più profondo trauma, il discrimine massimo che lo separa senza rimedio alcuno da tutte le altre specie viventi.

«Un essere di linguaggio non può godere come un animale, non con la stessa pienezza, con la stessa immediatezza. Il linguaggio stacca dal nostro corpo un pezzo d’essere irrecuperabile che illustra la realtà umana come strutturalmente intaccata da una mancanza»1, nonché dipendente dall’Altro, dalla sua presenza e dalle sue cure (il primo atto di parola – l’occasione per la nascita stessa del linguaggio – consiste proprio nel chiamare l’altro quando non c’è).

L’essere umano dunque, proprio perchè parlante, è condannato per tutta la vita a una ricerca che trascende la mera soddisfazione di un bisogno, per il semplice fatto che la parola manca sempre la cosa.

Dal momento stesso in cui parliamo, secondo Lacan, ci è impedito una volta per tutte ogni accesso diretto al godimento, poiché – una volta accettate le leggi del linguaggio – queste impediscono immediatamente di godere di alcune cose, prima tra tutte la madre, la Cosa inaccessibile e primordiale. Ecco perché il godimento è proibito a chi parla in quanto tale2.

Il soggetto dunque, con tutte le sue complessità, non è, per Lacan, che un effetto del linguaggio. La prospettiva è decisamente inquietante, poiché lascia irrisolto un enigma forse irrisolvibile: perché l’uomo è l’unico animale in grado di parlare?

1 M. Recalcati, Elogio dell’inconscio, cit., pp. 62-63. 2

R. Chemana, La jouissance, enjeux et paradoxes, cit., p. 99. Per dirla con Lacan, «il corpo parlante […] non può riuscire a riprodursi se non grazie a un malinteso del suo godimento. Cioè si riproduce soltanto grazie al fallimento di ciò che esso vuol dire – cioè, come dice bene il francese, il suo sens, – è il suo godimento, jouissance effettivo»; J. Lacan, Il seminario. Libro XX, cit., pp. 120-121.

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Probabilmente – sostiene Patrick Valas – perché il suo stesso corpo avrebbe un’affinità speciale con il linguaggio, affinità sulla quale la neurobiologia non avrebbe ancora fatto luce. Non sappiamo tuttavia se egli parla perché il suo godimento è in difetto rispetto al linguaggio, o viceversa3.

Certo è che quando Lacan cerca una possibile forma di godimento primordiale e originario che preesista al linguaggio – e lo fa interrogando ironicamente gli amori di blatte e scarafaggi, della mantide religiosa e dei batteri, o i lunghi orgasmi delle libellule e il godimento dell’albero (forme viventi, insomma, ma che non parlano) – non lo trova («Se l’animale mangia regolarmente, è chiaro che lo fa per non conoscere il godimento della fame»)4.

Se il godimento dunque, come abbiamo visto nel capitolo precedente, è innanzitutto del corpo, è impossibile tuttavia, per le ragioni appena esposte, immaginarlo disgiunto dal linguaggio. Per la psicoanalisi infatti – a differenza di quanto sostenuto dalle neuroscienze – gli esseri umani non sono fatti esclusivamente di corpo e di cervello, poiché l’intervento decisivo del linguaggio infligge tanto all’uno quanto all’altro una ferita che recheranno su di sè per tutta la vita a partire dal momento stesso in cui si viene al mondo.

Secondo Lacan, ci ricorda Nestor Braunstein, il corpo sarebbe esattamente il prodotto dell’intrusione del linguaggio nella carne («Il corpo è la carne investita dal linguaggio»)5; un po’ come, dal punto di vista scopico, possiamo affermare lacanianamente che lo sguardo è l’occhio investito dal desiderio.

Braunstein, non a caso, ricorre a una metafora visiva per dare l’idea del funzionamento del godimento in rapporto al linguaggio. La parola – sorta di droga che l’Altro istilla fin dalla culla al parlessere – è ciò che fa da diaframma al godimento: va considerata come un vero e proprio filtro in grado di regolare un flusso di luce in entrata, simile alla pupilla che si dilata al buio e si ritrae davanti ai raggi luminosi. Un eccesso di luce impedirebbe la corretta visibilità dell’immagine, così come un’eccessiva carenza ne compromette la definizione: è necessario uno strumento sfinterico in grado di rendere la pupilla adattabile a tutte le condizioni di luminosità6. Così per la parola: nello psicotico, ad esempio, essa non agisce più; non funziona, il diaframma è completamente aperto, il

3

P. Valas, La di(t)mensions de la jouisssance, cit., pp. 59-60.

4 Ibidem.

5 N. A. Braunstein, La jouissance, un concept lacanien, cit., p. 65.

6 Sulla regolazione della distanza simbolica che un film, grazie alla sua costruzione stilistica, può stabilire rispetto allo

spettatore – funzionando proprio come un diaframma in grado di aprirsi e chiudersi in maniera variabile attraversando tutto lo spettro dei possibili – Clélia Zernik ha costruito il suo libro Perception-cinéma. Les enjeux stylistiques d’un dispositif, cit. L’autrice, che come abbiamo visto predilige un approccio fenomenologico, analizza attraverso alcuni esempi le deviazioni dalla percezione ordinaria a cui è sottoposto lo sguardo dello spettatore cinematografico nel contesto immutabile del dispositivo di ricezione, individuando nello stile proprio di ogni film e nell’estetica di ciascun cineasta lo strumento privilegiato di regolazione per una più o meno accentuata partecipazione spettatoriale.

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godimento inonda il parlessere, lo assale, e le barriere che filtrano la penetrazione della parola dell’Altro si rompono. Nella nevrosi, al contrario, questo diaframma è eccessivamente contratto, chiuso e privo di flessibilità, pronto a difendere il soggetto da ogni penetrazione di godimento7. La speciale affinità che possiamo stabilire tra corpo e linguaggio e che, come vedremo, porta al culmine della jouissance – del “jouis-sens”, del “godi-senso” – era stata prefigurata anche da Roland Barthes nelle ultime pagine de Il piacere del testo, in cui l’autore immaginava esattamente una sorta di scrittura ad alta voce, «un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio»8. La cosa più interessante è che, secondo Barthes, di questa immaginaria “scrittura vocale” sarebbe proprio il cinema a fornire l’idea migliore:

Basta infatti che il cinema prenda molto da vicino il suono della parola […] e faccia sentire nella loro materialità, nella loro sensualità, il respiro, l’increspato, la polpa delle labbra, tutta una presenza del muso umano […], perché riesca a trascinare lontanissimo il senso e a gettare, per così dire, il corpo anonimo dell’attore dentro al mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, raspa, taglia: gioisce9.

Difficile immaginare una descrizione più accurata di quello che potrebbe essere il godimento al cinema nella sua doppia composizione di corpo e di linguaggio. Del resto, anche nei Frammenti di un discorso amoroso Barthes definiva “loquela” la forma enfatica del discorso d’amore, dove «trovare la parola giusta rende euforici; io la rimastico, me ne nutro; come i bambini o i dementi affetti da mericismo, io inghiottisco e rigurgito continuamente la mia ferita d’amore»10.

7 N. A. Braunstein, La jouissance, un concept lacanien, cit., p. 70.

8 R. Barthes, Il piacere del testo, cit., p. 127. Vale la pena, a questo proposito, riportare alcune affascinanti riflessioni di

Vladimir Nabokov sulle forme e i colori della scrittura alfabetica: «La sensazione del colore sembra essere causata dal fatto stesso di formare oralmente una determinata lettera, mentre ne immagino il contorno. La “a” dell’alfabeto inglese ha per me il colore del legno esposto alle intemperie, ma una “a” francese mi ricorda l’ebano lucidato. Questo grumo nero comprenderà altresì la “o” dura (gomma vulcanizzata) e la “r” (uno straccio fuligginoso che venga lacerato)”». Il passo è riportato in D. Chianese, A. Fontana (a cura di), Per un sapere dei sensi, cit., p. 115.

9 R. Barthes, Il piacere del testo, cit., p. 127.

10 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 129. Sulla natura linguistica del discorso amoroso, come

sappiamo, Barthes ha ragionato a lungo, ricordando ad esempio La Rochefoucauld per il quale «vi sono persone che se non avessero mai sentito parlare dell’amore non sarebbero mai state innamorate» (ivi, p. 112). Analogamente possiamo ricordare il mito di Aristofane – rievocato proprio da Lacan – di Dafni e Cloe che non sanno che esiste l’amore finché non scoprono di essere innamorati l’uno dell’altra; J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., pp. 200-201.

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E proprio nei bambini Lacan pone l’accento sul fenomeno fonetico della lallazione, la lingua materna originaria fatta di corpo e di gioco, dove a regnare è la dimensione del contatto fisico tra madre e figlio, e la parola è parola asemantica, puro dispendio, godimento che non serve a nulla11. Linguaggio e corpo, ancora una volta, si ritrovano avvinghiati in un nodo che li rende indistinguibili. Nessuno infatti meglio del bambino è capace di godere attraverso il linguaggio, di cui – osserva Valas – «ha piena la bocca»12. Il godimento, ci ricordano a questo proposito Jadin e Ritter, è la reciproca costrizione che esiste tra corpo e linguaggio; o, detto ancora meglio, «il corpo è annodato a lalingua attraverso il Reale di cui esso stesso gode»13.

La bocca, oltre ad essere luogo della parola, del linguaggio, rappresenta anche, grazie all’allattamento, «la prima modalità di prendere e ricevere amore e vita», fonte originaria di ogni godimento. Il “tranello” imbastito dalla Natura consisterebbe proprio nel piacere che il bambino prova durante la suzione (il piacere del bacio infatti – espressione del desiderio solo umano di incorporare ed essere incorporati – è profondamente legato a questa esperienza precocissima: l’allattamento è un bacio, il più puro che esista)14.

Truffaut ha parlato a lungo, a proposito del cinema, di piacere degli occhi. Forse allora non è un caso che lo psicoanalista Jean-Claude Polack, nell’accostare il cinema (arte dello sguardo) alla psicoanalisi (disciplina della parola), paragoni gli occhi dello spettatore, in questo così simile al bambino, a due “bocche inquiete” («L’universo perviene all’infanzia attraverso le bocche inquiete degli occhi»)15. Al godimento nel cinema concorrono dunque bocca e occhi, viscere e linguaggio, trasporto psichico e biologia del corpo (lo stesso Truffaut, del resto, diceva di aver imparato a baciare le ragazze grazie ai film d’amore)16

.

Dal sopracitato fenomeno della lallazione deriva una speciale forma di godimento che Lacan chiama “jouissance du bla-bla-bla”, in cui la parola – indirizzata non alla comunicazione, ma al

11 Perché – precisa Lacan – scrivere lalangue con una sola parola? per omofonia con il latino lallare, che designa il

cantare (“la, la”) per far addormentare i bambini. «Il termine designa inoltre il farfugliare del bambino che ancora non parla e che tuttavia è in grado di produrre dei suoni. La lallazione è il suono disgiunto dal senso ma non dalle sensazioni di appagamento che il bambino può trarne»; C. Soler, Lacan, l’inconscient réinventé, Presses Universitaires de France, Parigi 2009, p. 25. Nonostante l’assenza di scopi comunicativi, lalangue ha dunque degli effetti fondamentali e straordinari di carattere affettivo. Lalangue è dell’ordine del godimento (ivi, p. 29).

12 P. Valas, La di(t)mensions de la jouisssance, cit., p. 162.

13 J.-M. Jadin, M. Ritter, La jouissance au fil de l’enseignement de Lacan, cit., p. 463. Il Lacan “borromeo” assimila

infatti il corpo all’Immaginario, lalangue al Simbolico, il godimento al Reale.

14 A. Carotenuto, Eros e pathos, cit., pp. 82-83. 15

J.-C. Polack, L’obscur objet du cinéma. Réflexions d’un psychanalyste cinéphile, Campagne Première, Parigi 2009, p. 18. A suggerire la forza dell’analogia tra occhi e bocca nel cinema rimandiamo a quanto osservato, nel capitolo precedente, a proposito del titolo di Kubrick Eyes Wide Shut.

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godimento puro – è del tutto disgiunta dalla struttura del linguaggio. «Questa beanza iscritta nello statuto stesso del godimento […] nell’essere parlante, ecco ciò che sgorga […] attraverso […] l’esistenza della parola. Dove si parla, si gode»17

, afferma Lacan, aggiungendo che

lalingua serve a tutt’altre cose che alla comunicazione […], questa lalingua che come sapete io scrivo in una parola sola, per designare ciò che è affar nostro, di ognuno, lalingua cosiddetta materna, e non a caso così detta. […]. Ma lalingua serve innanzitutto al dialogo? Come ho articolato altre volte, niente è meno certo di questo18

.

Un discorso di questo tipo – come vedremo meglio in seguito – varrebbe in misura speciale proprio nel cinema, dotato anch’esso, in un certo modo, di una sua lalingua, se non altro per il semplice fatto che sa di rivolgersi ad un interlocutore muto – lo spettatore – dal quale non può attendersi (e non riceverà) alcuna risposta.

Lalingua dunque non è voler-dire ma voler-godere, essa non produce senso ma godimento, poiché – come osserva Andrea Bellavita – lalingua ha il potere di “équivoquer”, cioè di creare attraverso il malinteso: essa non ha niente a che fare con il dizionario19.

In rapporto a lalingua allora – cioè in rapporto alla parola prima della sua sistemazione grammaticale e lessicografica – il concetto stesso di linguaggio appare in Lacan come a sua volta derivato e non originario. È stato Jacques-Alain Miller a sottolineare questo aspetto, affermando che «blablabla vuol dire esattamente che, considerata nella prospettiva del godimento, la parola non mira al riconoscimento, alla comprensione, ma che è solo una modalità di godimento dell’Uno»20. Da qui deriverebbe una delle caratteristiche che più volte abbiamo attribuito al godimento, il quale «è in fondo un godimento idiota e solitario», ottuso, cieco: non vuol dir niente a nessuno, non bada che a se stesso21.

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