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Il godimento dell’occhio o l’esperienza di jouissance nella situazione cinematografica

2.2 Sguardi contemporanei sul godimento nel cinema e nelle art

Tra gli studiosi italiani contemporanei è stato Marco Senaldi a parlare diffusamente – nel campo delle arti – di “godimento”13. Sebbene anche qui i riferimenti diretti a Lacan siano deboli e radi, l’idea di fondo su che cosa sia il godimento nell’esperienza estetica è molto vicina alla nostra. L’arte contemporanea costituirebbe per Senaldi «un irresistibile generatore di godimento – il solo fattore esteticamente adeguato a una situazione che va “al di là del principio di piacere”, al di là del bello e del brutto, al di là di ogni possibile definizione univoca», e noi godiamo esattamente di questa contraddizione, del sussistere della contraddizione entro la cosa, del suo reiterarsi senza risolversi. Ne deriva una dialettica di costante inversione del vero e del falso, in uno statuto continuo di obversione, cioè di doppia inversione14.

Ad aprire le porte a questa nuova dimensione e concezione dell’arte ci sarebbe, secondo l’autore, il ready-made. Senaldi parla, a questo proposito, di una “storia sessuale dell’arte” a partire da Duchamp perché questi, frantumando per primo e più di tutti il concetto di opera, avrebbe agito in

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Ivi, pp. 282-283.

13 M. Senaldi, Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, Roma 2006. 14 Ivi, p. 11.

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maniera analoga all’infrazione di un tabù. Tutte le società umane riconoscono infatti il tabù dell’incesto, senza il quale la stessa struttura simbolica su cui si reggono collasserebbe divenendo perfettamente autoreferenziale. Anche la struttura simbolica dell’attività artistica, prima di Duchamp, aveva il suo tabù, che consisteva esattamente nel divieto di produrre l’oggetto piuttosto che la sua rappresentazione. Il ready-made, invece, che è la cosa stessa («per Duchamp, come per Lacan, non v’è metalinguaggio»)15

, rompe con tutto ciò segnando l’inizio dell’arte contemporanea. Il principio di piacere – fino a quel momento garantito dal rispetto della proibizione simbolica – verrebbe così sostituito dalla dialettica del godimento16. L’oggetto dell’arte contemporanea è quindi “cosa di godimento”, oggetto insieme di piacere e di dispiacere, poiché segnerebbe il passaggio da un sistema di esclusione reciproca ad una logica di inclusione inquietante e contraddittoria. Il godimento insomma ha qualcosa di incestuoso, ci verrebbe da dire.

Da nessun’altra parte questo avviene come nel cinema: cos’altro infatti, meglio del cinema – capace di trasformare l’intera realtà in un gigantesco ready-made, oggetto pronto da sempre, e da sempre “già lì”17

(«Le cose sono lì, perché inventarle?» diceva Godard in Éloge de l’amour, parafrasando Rossellini) – viola il tabù della rappresentazione? Senaldi non arriva a dirlo esplicitamente (i suoi studi restano incentrati soprattutto sulle altre forme dell’arte contemporanea), ma è chiaro che il cinema risulta essere, in questa ottica, il produttore di godimento per eccellenza.

Se ne accorge Andrea Bellavita, il quale anticipa di molto il nostro discorso, individuando a sua volta una vera e propria polarità tra un “cinema del desiderio” e un “cinema del godimento”, a cui tuttavia accenna soltanto18.

Il regista che in modo non troppo diverso da molte produzioni di arte contemporanea (alle quali Bellavita riconduce l’estetica del godimento) meglio incarnerebbe lo scivolamento dall’uno all’altro cinema – dalla dimensione duale del desiderio a quella monadica del godimento – sarebbe il thailandese Apichatpong, i cui film non permettono alcuna negoziazione di senso, ma richiedono allo spettatore una pura e assoluta «contemplazione estetica, oppure la sostituzione della

15 Ivi, p. 28. 16 Ivi, pp. 20-21. 17

Cfr. il ciclo di lezioni Estetica del medium tenuto da Enrico Ghezzi da novembre 2007 a maggio 2008 presso l’Università Roma Tre.

18 A. Bellavita L’emersione del Reale: perché una psicoanalisi del cinema contemporanea/o?, in L. Albano, V.

Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi, cit., pp. 203-224. Per quanto riguarda le forme di godimento nel cinema contemporaneo, l’autore parla di un campo di “images honteuses”, immagini vergognose – con riferimento ad una particolare generazione di registi (Larry Clark, Gregg Araki, Harmony Korine, Todd Solondz) – capaci di smascherare ogni intimità per mostrare in maniera non “pornografica” né “artistica”, bensì funzionale, la sessualità al cinema come dispositivo. Ricorda infatti Bellavita che «se la psicoanalisi di Freud è il prodotto di un’epoca basata sulla repressione (l’epoca vittoriana), la psicoanalisi contemporanea deve fare i conti con un sistema sociale e un sistema visivo basato sulla provocazione e sull’esibizione»; ivi, p. 214.

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comprensione con l’assorbimento»19. È esattamente ciò che era già avvenuto con il cinema di David Lynch, volto a frantumare il legame lineare con lo spettatore – con l’Altro del desiderio – impedendo da parte sua ogni comprensione, a vantaggio di un’immersione pura e totale nell’immagine. Con L’impero della mente (Inland Empire, 2006) il regista ha raggiunto forse, da questo punto di vista, la vetta più alta.

Bellavita propone poi di pensare ai recenti film scandalo di Larry Clark, per via della sua maniera esplicita e diretta di trattare l’erotismo. Pensiamo ad esempio a Ken Park (2002), di cui potremmo richiamare – parlando di godimento – la scena oltremodo lunga, fastidiosa e disperata in cui uno degli adolescenti protagonisti del film prova a suicidarsi legandosi al collo un cappio attaccato alla maniglia della porta della sua cameretta, restando accasciato per terra mentre si masturba con rabbia al suono dei gemiti emessi dalle tenniste che giocano un match trasmesso in televisione, gemiti che lo spettatore – lo ha già capito da qualche secondo – sa che avranno un effetto (erotico? mortifero?) sul ragazzo. In un momento come questo – di rara ed estrema tensione cinematografica – sforzo fisico, ricerca del dolore, condensazione degli affetti e attesa del godimento sono tutti fattori che sentiamo emergere con una forza tremenda e dirompente. Se Eros fa da sempre coppia con Thanatos, l’autoerotismo non può che far coppia, omologamente, col suicidio. La scena appena descritta può risultare eccessiva, disturbante, forse insostenibile. Eppure il cinema oggi, per godere e fare godere, sente il bisogno di dire anche questo20.

Un altro esempio chiave che potremmo includere nel nostro studio sul godimento al cinema è il recente Shame (Steve McQueen, 2011), magistrale incarnazione cinematografica dell’Uno del Godimento, che forse non potrebbe essere immaginato – ovvero, messo in immagine – meglio di così: il protagonista Brandon (Michael Fassbender), giovane newyorkese schiavo della dipendenza sessuale e ossessionato dalla masturbazione, è letteralmente incapace di godere dell’Altro, di intrattenere con una persona un legame o una qualsiasi forma di rapporto. Nella sua ricerca estenuante del piacere sessuale, poco importa se Brandon debba ricorrere a una o più donne, a un uomo, una sconosciuta, o una partner virtuale incontrata su un sito pornografico: è sempre e solo del proprio corpo che Brandon gode, del proprio organo ed esclusivamente di esso.

19 Ivi, p. 220.

20 Tra gli scritti più interessanti sull’intensificazione della partecipazione affettiva dello spettatore e l’amplificazione dei

risvolti emozionali segnalo inoltre E. Carocci, La battaglia di Algeri, in AA. VV., Nostalgia dell’altrove. Storie e geografie di Gillo Pontecorvo, Città del Sole, Reggio Calabria 2010, in cui l’autore ricorda il commento critico di Jean- Louis Comolli a La battaglia di Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966), comparso nell’articolo L’attente du prochain coup («Cahiers du cinéma», 593, 2004), dove Comolli si chiede: «come non vedere in questo eccesso spettacolare la volontà di provocare un godimento (che non vuol dire piacere) per esasperazione della pulsione scopica dello spettatore: sempre di più, sempre più forte, sempre più accecante? Il sistema del film è quello di installare l’attesa del colpo successivo come attesa di un rilancio del godimento»; ivi, p. 70.

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Non è un caso se l’unico rapporto sessuale in cui l’uomo fallisce è quello in cui si affaccia, da parte della compagna da poco conosciuta, una domanda d’Amore, domanda che per definizione è incompatibile col godimento fallico di Brandon, che è sempre Godimento dell’Uno: idiota, ottuso, solitario, volto all’accumulo sterile e ossessivo dello Stesso, di un orgasmo sempre perfettamente identico al precedente come al successivo21.

La psicoanalisi ci dice che non esiste un piacere superiore all’orgasmo. Tuttavia, indipendentemente dal singolo caso, si tratta di un piacere sempre uguale a se stesso: un orgasmo è un orgasmo come un gatto è un gatto. Prova ne è il fatto, secondo Lacan, che «il momento dell’orgasmo è esattamente equivalente nella masturbazione come nell’unione sessuale»22. Il godimento come malattia dell’Uno comporta allora il rifiuto completo e totale dell’Altro, incarnato, nel caso di questo film, dalla disperatissima sorella di Brandon: Sissy (Carey Mulligan), che gli chiede inutilmente appoggio e ospitalità. A un certo punto del film Brandon – come compresso nell’interno soffocante di casa propria e visibilmente infastidito dal rapporto sessuale che la sorella intrattiene col suo capo, proprio nella stanza accanto, tra risate e gemiti scaturiti da un erotismo “duale” per lui insostenibile, inammissibile – infila una felpa ed esce via di casa nella notte per fare una lunga corsa attraverso le strade notturne di New York, incarnando a pieno la necessità disperata e senza scampo dell’Uno del godimento, di un soggetto tormentato e in fuga affannata che possiamo seguire, in questo caso, attraverso un lungo e intenso carrello laterale accompagnato dalle Variazioni Goldberg, «musica straordinariamente circolare, chiusa nella reiterazione del medesimo»23.

Questa ripetizione dell’Uno – che è il principale meccanismo scatenante del godimento – accumula dunque esperienze che non si addizionano, non possono essere sommate, sono costrette soltanto a ripetersi succedendosi l’una all’altra. La jouissance di Lacan infatti – ci ricorda Miller – è esattamente questa reiterazione dell’Uno: ripetizione pura, impossibilità assoluta di sintesi e di addizione. È per questo motivo che il sintomo di Lacan – rispetto a quello di Freud, ancora fortemente legato a un senso in attesa di essere letto – non contiene alcuna verità da rivelare, è disgiunto dal sapere, ha rapporto solo con l’Uno e la sua ripetizione24.

21 Sulla spirale distruttiva della ripetizione nel film e sulla circolarità diabolica della pulsione nel protagonista cfr. R.

Salvatore, Shame. Il godimento solitario del corpo, «Imago», 5, La configurazione del soggetto, a cura di P. Bertetto e G. Fanara, 2012, pp. 81-89.

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J.-M. Jadin, M. Ritter, La jouissance au fil de l’enseignement de Lacan, cit., p. 199.

23 R. Salvatore, Shame, cit., p. 87.

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2.3 Per una rilettura della teoria psicoanalitica del cinema. Meccaniche del godimento nel

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