• Non ci sono risultati.

Il godimento e il suo rovescio L’angoscia

4.5 Il sorpasso di Dino Risi Dismisura del godimento

Interrogandosi sull’appagamento, sensazione simile alla fusione di tutte le voluttà della terra, Roland Barthes si chiede:

Che cos’è che mi colma a tal punto? Una totalità? No. È qualcosa che, muovendo dalla totalità, la supera. […] la mia anima non è solo colmata, ma sommersa […]; io produco un troppo, ed è proprio in questo troppo che l’appagamento ha luogo […]; nel momento in cui non sono più nel troppo, io mi sento frustrato; per me, giusta misura vuol dire non abbastanza78.

74 Sarebbe stata l’attrice stessa a chiedere al regista di girare un finale più felice e appagante, aggiungendo una scena

d’amore altrimenti assente: si sarebbe realizzata così la possibilità di sognare un contatto che nel film non è avvenuto. Kieslowski aveva immaginato in un primo tempo, per la serie televisiva del Decalogo, un finale apocalittico, con una terrificante esplosione dell’intero condominio a causa di una fuga di gas; ivi, p. 83.

75 Ivi, p. 115.

76 La casa di Magda, «incorniciata da aperture quadrangolari e invasa da cavalletti, mobili e altri oggetti che ne

frammentano costantemente la continuità», sebbene nel film appaia così vicina allo sguardo del ragazzo, è stata in realtà ricostruita in un prefabbricato distante trenta chilometri da Varsavia e ripresa da una torre costruita a settanta metri di distanza con teleobiettivi da trecento e cinquecento millimetri. La distanza che abbiamo posto come fattore caratterizzante del regime discorsivo del desiderio (a cui abbiamo ricondotto la prima parte del film) ha dunque, in questo caso, qualcosa di profondamente Reale (ivi, p. 114).

77 J.-M. Jadin, M. Ritter, La jouissance au fil de l’enseignement de Lacan, cit., p. 111. 78 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, cit., p. 30.

181

Potrebbe valere come un’ennesima definizione della jouissance, di ciò che supera le possibilità che il desiderio aveva soltanto lasciato intravedere. Grazie a questa specie di miracolo – continua Barthes – «senza essere né pago né satollo, oltrepasso i limiti della sazietà e, invece di trovare il disgusto, la nausea, o anche solo l’ebbrezza, scopro… la Coincidenza. La dismisura mi ha condotto alla misura, coincido con l’Immagine, le nostre misure sono le stesse»79

.

Questo stato di esuberanza, questa «potenza grondante e senza impiego»80 che più volte abbiamo riconosciuto al godimento, la ritroviamo sotto forma di immagini nel Sorpasso di Dino Risi.

Il film si apre istantaneamente su una corsa sfrenata in automobile, mentre scorrono i titoli di testa e la musica incalza, a suggerire la frenesia inarrestabile e spedita di una storia fin da subito tutta protesa in avanti.

Per la costruzione di una commedia così amara sono sufficienti due personaggi, due personalità opposte dal cui confronto prende forma e vigore tutto il racconto: Bruno Cortona (Vittorio Gassman), nullafacente irrequieto e disinibito, insofferente alla calma e alla noia, incarnazione letterale del godimento, e Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant), studente di legge timido e ligio al dovere, prudente e incline all’introversione: rappresenta il desiderio, ciò che è destinato a rimanere incompiuto, in attesa, silenzioso.

Con un carico di entusiasmo dirompente, a bordo della sua Lancia Aurelia Sport decapottabile, Bruno attraversa sfrecciando Roma deserta. C’è tutta una dimensione acustica rumorosa e frastornante a contraddistinguerlo, nel film, e a segnalarne il passaggio, soprattutto per via dei continui e prepotenti colpi di clacson che, per pura provocazione, Bruno lancia contro gli altri automobilisti. Questa “pienezza sonora” del personaggio – portatore di un universo invadente ed inesauribile di suoni e continue sovrapposizioni di suoni (l’uomo canta e fischia mentre è al volante, e urla sempre quando parla), rende Il sorpasso un film terribilmente chiassoso, rumorosissimo. Avvilito dal vuoto della città durante il torrido pomeriggio di Ferragosto (negozi chiusi, nessuno in giro), Bruno finirà col costringere Roberto a unirsi a lui in una gita improvvisata – senza soldi in tasca e senza destinazione – all’insegna del piacere dissoluto e del vizio, e alla ricerca inarrestabile e continua di qualcosa di cui godere (la fame, la voglia di bere e il desiderio smodato di sigarette cresceranno violentemente durante tutto il viaggio). Bisogna insomma divertirsi a tutti i costi, fino

79 Ibidem. 80

L’espressione è di Charles Baudelaire, ed è ripresa da Alberto Boatto nel suo libro sull’autoritratto a proposito dell’ideale di bellezza virile, a voler dare l’idea di un’eccedenza di passione e d’energia, di un surplus che – come il godimento – non consente nessuna quiete; cfr. A. Boatto, Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Roma-Bari 1997, p 42.

182

alla fine («I freni proprio non vanno!», esclama a un certo punto Bruno, inseguendo in automobile due belle tedesche, durante una manovra avventata e pericolosa).

Per strada, allora, occorre mantenere un’andatura spericolata ininterrotta, occorre sorpassare: oltrepassare, superare il limite, andare oltre. E Bruno, «invadendo con la sua gioiosa, vitalissima, pervicace prepotenza qualunque luogo», si fa beffa – pur senza reali cattive intenzioni – di ogni automobilista che accosta durante i suoi azzardati sorpassi81. Questa tendenza sfrenata all’esagerazione e alla velocità eccessiva – frutto di una vera e propria illusione di inarrestabilità, di invulnerabilità ed onnipotenza, che è certo anche un riflesso del boom economico di quegli anni e delle sue grandi promesse – ci appare come una manifestazione finanche troppo didascalica del godimento e di quella gioia dello sperpero che gli è connessa. In particolare, si pensi allo scherzo fatto da Bruno all’autostoppista quando, prima di caricarlo in macchina per dargli un passaggio, si diverte a far finta di accostare per farlo salire, così che il pover’uomo si ritrova a dover inseguire ogni volta la macchina. Uno scherzo fatto per puro spasso, perfettamente gratuito, inutile, come inutile e smodato è il dispendio di energie nel godimento.

Il viaggio procede così, inarrestabile, una sosta dietro l’altra, in un susseguirsi di itinerari offerti dalla strada e di tappe qualsiasi (locande, trattorie, sale da ballo), prive di traiettorie e cronologie precise: il senso sta tutto lì, nel non fermarsi. Anche Roberto – che ha soltanto voglia di andarsene – fallirà sistematicamente nel tentativo di tornare a Roma, tentativo continuamente dilazionato, spostato in avanti, rimandato nel tempo, tanto da lasciarci intuire che probabilmente non andrà in porto.

C’è una sequenza – in una delle locande in cui i due si fermeranno lungo la strada – che rende bene conto della diversità profonda dei protagonisti mettendo in luce le conseguenze dannose della ricerca continua di jouissance. La sequenza mostra, da parte dei due uomini, un approccio alle donne completamente diverso: Bruno, carnale e godereccio, inizierà a toccare visibilmente la prorompente donna con cui sta ballando, stringendola forte a sé così da farle sentire il proprio corpo. Roberto invece se ne rimarrà seduto, limitandosi a cercare a lungo con occhi silenziosi la bella e misteriosa ragazza seduta al tavolo dietro di lui, senza fare nulla, solo beandosi del suo stesso desiderio. La scena si concluderà con una violenta rissa – animata evidentemente da Bruno – a seguito della quale i due andranno a cercare riparo per la notte a casa della sua ex moglie, che deciderà di accoglierli nonostante il profondo livore che ancora nutre verso l’ex compagno. Qui Bruno incontrerà anche sua figlia, ormai cresciuta e promessa sposa, che si accorgerà di amare molto più di quanto credesse, nonostante sia stato un pessimo padre.

183

L’amarezza verrà smorzata da una bella giornata in spiaggia – dove Bruno porterà anche la figlia – ancora una volta improntata al divertimento e alla gioia sfrenata. Motoscafo, sci d’acqua, ping pong: tutto quanto possa fare da schermo ai pensieri più cupi, sommergendoli in un’ondata spaventosa di allegria. Così vediamo Bruno completamente incapace di restar fermo: è sempre occupato, iperattivo, impegnato in una nuova azione o comportamento che lo porti a saturare i suoi vuoti interiori con qualche forma di eccesso.

Dopo quest’episodio, i due si rimetteranno in viaggio per una nuova meta: Viareggio. Ora anche Roberto si esalta, cede all’entusiasmo dirompente ed urla a squarciagola in macchina: forse si è finalmente deciso a godere, contagiato dal delirio crescente dell’amico. Sono gli ultimi cinque minuti di film, e colpiranno lo spettatore come un pugno nello stomaco: lo schianto sulla scogliera di Calafuria (una delle poche sequenze del film che richiese il ricorso a più di una macchina da presa) arriva all’improvviso e brutalmente con due rapidi zoom – ravvicinatissimi, folgoranti. Uno in campo medio sull’automobile, mentre Bruno cerca disperatamente e invano di frenare, l’altro, subito dopo, sul suo volto terrorizzato e contratto in un grido straziante. Il camion che viaggia nella corsia opposta è ormai troppo vicino, la macchina sbanda e si schianta giù lungo la scogliera fracassandosi. Sarà Roberto a pagarne il prezzo, morendo all’istante, lasciando Bruno sgomento, e completamente solo.

Questi brevi ultimi minuti di film riescono a condensare con raggelante esattezza in un unico, violentissimo punto tutto il carico emotivo di una storia che fin dall’inizio malcelava dietro un’allegria eccessiva e quasi artificiosa i suoi presagi funesti e il suo pericolo di morte (la morte aveva già fatto capolino durante l’incidente in cui i due si erano imbattuti lungo la strada, dove un camion si era ribaltato; ma lo si dimenticherà presto)82. Ci sembra un finale completamente assoggettato all’imperativo categorico della pulsione di morte nel tentativo forse di realizzare quel “ripristino di uno stato precedente” descritto da Freud nell’Al di là del principio di piacere – lo stato inorganico che precederebbe la nascita di ogni forma di vita, e verso il quale ogni forma di vita tenderebbe inesorabilmente a ritornare – condizione con la quale anche Roberto arriverà (non solo) simbolicamente e ricongiungersi. E come l’idea freudiana di una vita che non farebbe altro che cercare, “a modo suo”, di morire, scandalizzò un’epoca e fa fatica ancora oggi ad essere accettata, così il finale del Sorpasso non piacque per nulla a pubblico e critica, che devastarono letteralmente il film definendolo banale, frammentario, scurrile, facilone.

82 M. Comand, Dino Risi, cit., pp. 49-50. L’autrice individua nel film un forte sentimento di instabilità anche dal punto

184

Eppure Il sorpasso – il film italiano più visto nel 1962 – fu campione di incassi, nonostante fosse costato pochissimo: girato in sei settimane e per buona parte improvvisato. Lino Miccichè lo ricorda come il miglior risultato della filmografia risiana nonché la più bella commedia all’italiana in assoluto di quel decennio: malgrado la debolezza di un’episodica spesso limitata alla battuta divertente «e non sempre con il necessario senso della misura» (è proprio quello che ci preme mettere in luce), il film godrebbe infatti, nel complesso, di una tenuta splendida83.

Ma non è solo in virtù di questo costante superamento della misura che possiamo leggere Il sorpasso come un film purissimo di jouissance. Esso si fa infatti carico di quel capovolgimento dei contrari – l’angoscia dietro al godimento – individuabile generalmente in tutta la commedia italiana del boom economico, dove i luoghi deputati al divertimento e all’euforia cieca (cioè tutti quelli attraversati dai due protagonisti del film) spesso si colorano di tinte fosche e amare, così come i luoghi tristi (galere, funerali) assumono al contrario toni comici o grotteschi84. Ancora una volta – come sempre accade nel godimento – gli opposti sconfinano l’uno nell’altro con grandissima facilità.

Tra gli scenari prediletti del genere – nella furia godereccia dei riti del nascente consumismo e del divertimento di massa – compaiono non a caso le spiagge (a cui il nostro film consacra, nella parte finale, sequenze importanti), brulicanti di ombrelloni e sdraio colorate, canzonette a tutto volume, corpi e folle chiassose di bagnanti.

La cifra stilistica del film preso in esame, anche in questo caso, ha prediletto la logica dell’accumulo straripante, a cui si unisce

l’ostilità verso i primissimi piani e la predilezione per i piani di ripresa che immergessero gli attori nell’ambiente circostante. Anche la scelta del teleobiettivo – e Il sorpasso fu uno dei primi film in cui se ne fece un uso massiccio – rispondeva a questa volontà […] di isolare e “rubare” fisionomie, particolari e dettagli e ricostruire attraverso il racconto di essi un quadro d’insieme85.

Un’estetica di questo tipo, volta all’accumulo debordante di fatti e all’esasperazione di luoghi, corpi e scenari, risulta essere molto vicina, ancora una volta, alla logica di base del godimento.

83 L. Miccichè, Il cinema italiano degli anni ’60, cit., p. 84. In particolare, Miccichè individua nel cinema di Dino Risi

uno scarto forte tra «la felice vena inventiva e la acutezza sociologica […] e il loro sfociare in confezioni consolatoriamente “spettacolari” che ne capovolgono la sostanziale amarezza in spassoso cinismo, ne ottundono la pungente satira in innocua iconoclastia goliardica, ne stemperano ogni “sgradevolezza” in “divertente” esibizione divistica»; ivi, pp. 85-86.

84 M. Comand, Dino Risi, cit., pp. 14-15. 85 Ivi, p. 30.

185

Capitolo 5

Outline

Documenti correlati