Il godimento e il suo rovescio L’angoscia
4.1 Gaudium oppositorum
In psicoanalisi gli opposti hanno una forte affinità concettuale e sono particolarmente vicini nell’associazione psicologica (in breve: chi è capace di un sentimento, è sicuramente capace anche del suo esatto contrario)1.
Nei sogni le contrapposizioni vengono trattate allo stesso modo delle concordanze, e questa naturale tendenza alla reversibilità degli opposti, al rilancio continuo dei contrari, porterà Freud a dire che, ad esempio, «non si trova nel sogno una rappresentazione del “no”»2
.
La questione dell’ambivalenza non ha mai smesso di interessare la psicoanalisi: è in questa ottica che dobbiamo entrare per capire come mai il godimento rasenti molto più da vicino quello che sembra essere a prima vista il suo contrario più evidente – l’angoscia – piuttosto che il piacere, il quale parrebbe al contrario appartenere alla famiglia dei “godimenti”. Il godimento sconfina infatti molto più facilmente nell’una piuttosto che nell’altro.
Per avere un’idea di quanto il godimento derivi dalla sofferenza prima ancora che dal piacere, leggiamo le parole con cui Sergio Givone fa riferimento al tormentato protagonista dostoevskiano di Memorie dal sottosuolo (1864), destinato ad una crudele e cupa introspezione autoanalitica che lo rende vittima e carnefice di se stesso, «essendo condannato a scarnificarsi senza fine, a soffrire pene indicibili. Salvo ricavare da questo tormento un piacere di secondo grado. Perciò il suo atteggiamento ha carattere patologico. E per tale malattia c’è perfino un nome: “ipertrofia della coscienza”».
Vi giuro, signori, che veder troppo chiaro, è una malattia, una vera e propria malattia – afferma l’eroe, sofferente – al punto che l’amarezza, alla fine, si convertiva in una ignominiosa, maledetta dolcezza e, alla fine, in vero, autentico godimento! Sì, in godimento, in godimento! C’insisto. Perciò mi son messo a parlare, perché ho sempre voglia di sapere con certezza se anche altri abbiano di questi godimenti. Vi spiegherò: il godimento, qui,
1
Sappiamo ad esempio, come ci ricorda Matte Blanco, che per Freud «il persecutore altri non è se non l’amato di un tempo»; cfr. I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. LXVIII.
161 proveniva precisamente dalla troppo chiara coscienza del tuo avvilimento; dal fatto che tu stesso sentivi di essere giunto all’ultimo limite; che era una cosa pessima, ma non poteva neppure essere altrimenti; che ormai non c’era via d’uscita per te, che mai più saresti diventato un altro uomo […]. Ma il punto principale alla fin fine, è che tutto questo avviene per le normali e fondamentali leggi di un’intensa coscienza3.
Ritroviamo ancora una volta, legata al godimento, la sensazione di un eccesso, e, nella fattispecie, un eccesso di visione, di coscienza. È questa la malattia. Scoprire di essere colpevoli e capaci di mali, ignobiltà e abiezioni, per l’uomo del sottosuolo, non ha nulla di catartico. Egli ha imparato a dubitare delle buone intenzioni. Ed è precisamente in questo suo «consapevole seppellirsi vivo dal dolore»4 che l’eroe trova lo strano godimento che pure lo appaga (pharmakon, come ci ricorda Didi- Huberman, è il rimedio, ma anche il veleno)5.
Sul piano cinematografico, è forse l’ab-gioia di Pasolini l’affetto che meglio si avvicina a questo stato di cose, a questa assoluta e straziante coincidentia oppositorum. Mostro concettuale capace di “far danzare i conflitti” tenendo avvinghiati gioia e dolore in un nodo insolubile, l’ab-gioia di Pasolini, secondo Didi-Huberman, è una figura non solo d’attachement – cioè di affetto, d’attaccamento, d’affezione – ma anche d’affrontement: di scontro, distacco, sradicamento6
. È in questo conflitto che risiede la sua forza e la sua capacità di creare immagini potenti, immagini che risultano essere più vicine all’atto che non alla cosa, al gesto che non allo stato di riposo, al confronto dialettico che non alla stasi. L’ab-gioia dunque – elemento chiave di tutta la poetica di Pasolini, della sua sacralità e del suo pathos – funzionerebbe come un cuore in un corpo vivo, un cuore che pulsa ritmicamente alternando un movimento a due tempi, sistole e diastole, producendo assieme un’euforia poetica e una sorta di nostalgia della vita, unita a un senso penoso di esclusione dovuto probabilmente all’impossibilità, per il regista, di amare secondo la norma. Ab, in latino, indica infatti origine e provenienza ma anche distacco e allontanamento: è un punto di inizio ma anche un punto d’arrivo. L’ab-gioia – conclude allora Didi-Huberman – è “la joie malgré tout”, la gioia malgrado tutto, anche se si tratta di una gioia aberrante, poiché contigua a uno sgomento abissale («La bellezza del mondo – scrive Virginia Woolf – ha due tagli: uno di gioia, l’altro di
3
S. Givone, Dire le emozioni, in F. Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, cit., pp. 384-385.
4 Ivi, p. 386.
5 G. Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze, cit., p. 68. Serge Tisseron ricorre a questa stessa ambiguità della parola
greca per indicare come identiche immagini possano, a seconda della loro “dose di assunzione”, delle circostanze e dell’osservatore, tanto procurare un dolore quanto alleviarlo. Ricorda ad esempio un’inchiesta che ha mostrato come, in un pubblico di adulti, i più grandi divoratori di film horror siano stati spesso bambini terrorizzati proprio da questo tipo di film. «Questi spettatori cercano le immagini che più gli ricordano i loro terrori infantili per averne, da adulti, il potere di controllo e la possibilità di guarirne»; S. Tisseron, Les bienfaits des images, cit., p. 10.
162
angoscia, e taglia in due il cuore»)7. L’autore passa a considerare, in Accattone (1961), la scena della lotta furibonda tra il protagonista ed il cognato, uno scontro fisico in cui i due sembrano formare un solo corpo, restando come incollati l’uno all’altro e “ringhiando come bestie”, costretti – ci dice la sceneggiatura – a “combattere senza lasciarsi” e tuttavia “senza colpirsi”, quindi quasi a una fusione amorosa (la scena, sintesi suprema del sentimento dei contrari, è commentata dalla Passione secondo Matteo di Bach, sonorità extradiegetica che le conferisce una sacralità grave e perturbante)8. Ne risulta una sorta di abbraccio, in cui coesistono crudeltà e tenerezza, distanza e prossimità, tra due corpi annodati e avvinghiati l’uno all’altro, inseparabili, in una scena oltretutto piuttosto lunga, che possiamo senz’altro definire una scena di godimento. «Il godimento irrompe incontestabilmente nel momento in cui comincia ad essere avvertito un dolore»9, affermano Jadin e Ritter, e in questa osservazione riecheggiano nuovamente alcune parole di Bataille, quando scriveva che in un locale di donne nude, «a vedermi triste e le labbra piegate in una smorfia di angoscia, nessuno immaginerebbe che godo»10.