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Per una rilettura della teoria psicoanalitica del cinema Meccaniche del godimento nel dispositivo

Il godimento dell’occhio o l’esperienza di jouissance nella situazione cinematografica

2.3 Per una rilettura della teoria psicoanalitica del cinema Meccaniche del godimento nel dispositivo

È importante però pensare il cinema nel suo rapporto col godimento anche in termini più ampi, e cioè facendo riferimento al dispositivo tout court e all’esperienza fruitivo-percettiva che da tale situazione scaturisce.

Jacques-Alain Miller, in Logiche della vita amorosa, descrive il fantasma psicoanalitico come «una macchina che trasforma il godimento in piacere. Una macchina, si può dire, che serve a domare il godimento, dato che, per proprio movimento, il godimento non si dirige verso il piacere ma verso il dispiacere»25.

Parlando del fantasma come “macchina” che trasforma il godimento in piacere, Miller aggiunge subito dopo di aver usato questo termine «nel senso di un’articolazione significante che permette di sottomettere il godimento per placarlo. Si potrebbe anche parlare di “dispositivo”»26.

Vorremmo provare a interpretare il dispositivo cinematografico in questi termini, operazione del resto agevolata dal fatto che il fantasma stesso – formazione senza dubbio dell’ordine del Reale – ha pur sempre una sua dimensione simbolica (dato che consiste ogni volta in una sorta di storia che obbedisce a certe leggi di narrazione) ed una immaginaria (nel senso materiale di “immagine prodotta”), dimensioni a loro volta fortemente costitutive del significante cinematografico27

. Consiste proprio in questo la speciale alchimia di desiderio, piacere e godimento che il cinema è capace di produrre. La sala è infatti un luogo di intersezione e collisione di differenti superfici, corpi, affetti e volumi che non appartengono alle stesse dimensioni. Diversamente da quanto immaginava Woody Allen ne La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985), dove Tom Baxter (Jeff Daniels) – personaggio del film che Cecilia (Mia Farrow) va a vedere ripetutamente al cinema – si accorge a un certo punto della presenza della ragazza in sala ed esce letteralmente dallo schermo per incontrarla. Come scrive l’attore Jacques-Bernard Brunius,

25 J.-A. Miller, Logiche della vita amorosa, cit., p. 68. 26 Ivi, pp. 72-73.

27 Maurizio Balsamo fa notare che Lacan, per definire il fantasma (cioè il momento in cui il corso della memoria

associativa si arresta per diventare un ricordo di copertura), curiosamente faceva riferimento proprio al fermo immagine cinematografico, «momento in cui il movimento […] si interrompe bloccando in tal modo tutti i personaggi», come avviene in maniera esemplare ne La Jetée di Chris Marker (1962), storia di un uomo ossessionato da un’immagine fissa. Cfr. M. Balsamo, Immagini, imago, immaginazione, in D. Chianese, A. Fontana (a cura di), Per un sapere dei sensi. Immagini ed estetica psicoanalitica, Alpes, Roma 2012, p. 205.

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interprete de La scampagnata (Partie de campagne, 1936) di Renoir: «sullo schermo un braccio e un sole. Nella sala la carne bianca della vostra vicina e un fantasma pallido adorabilmente dolce»28. Nessuno meglio di Christian Metz ha definito, al cinema, il regime scopico come regime della mancanza: il cinema ci offre qualcosa a distanza, dunque, nella stessa misura, ce la sottrae. Sullo schermo si rappresenta la scena inaccessibile dell’assenza, “l’altra scena”, per riprendere l’importante definizione di Jean-Louis Baudry29

.

Metz parla degli spettatori come “spettatori-pesci”, che, incollati con gli occhi al vetro di un acquario contenente altri pesci (gli attori), «assorbono tutto dagli occhi e niente dal corpo»30 (del cinema bisogna “riempirsi gli occhi”, “en avoir plein la vue”, come osservava il giovane François Truffaut nei primi anni Cinquanta davanti all’immagine larga proposta dal Cinemascope)31.

Ma abbiamo imparato che il godimento si differenzia dalla soddisfazione pulsionale poiché ha per oggetto la totalità del corpo, e non una sua singola parte, Lacan su questo non lascia dubbi. Dunque quando io godo, anche al cinema, lo faccio con tutto il corpo.

Ancora, ricorda Metz, il voyeur deve mantenere dall’oggetto una certa distanza: in questo consiste la sua soddisfazione. Colmarla significherebbe portare il soggetto a consumare l’oggetto (se è troppo vicino, egli non lo vede più), «portarlo all’orgasmo e al piacere del corpo […], mobilitando il senso del contatto e mettendo fine al dispositivo scopico»32. L’orgasmo è la soppressione di questa distanza, dello scarto tra soggetto e oggetto (da cui i miti amorosi di fusione, sebbene secondo Lacan, per quanto ci si sforzi e li si avvicini l’un l’altro, due non potranno mai fare uno). Potremmo immaginare il godimento al cinema come una sorta di rottura ideale, momentanea e inattesa della distanza scopica, proprio in virtù della sua comunanza con l’esperienza orgasmica e con quella psicotica, la quale, a sua volta, prevede l’indistinzione e la soppressione delle distanze tra ciò che appartiene alla realtà e ciò che invece è prodotto dall’immaginazione.

È per questo motivo, probabilmente, che in un film come Salò di Pasolini (1975) non ci è dato di godere. Cesare Musatti ricorda, a questo proposito, l’espediente tecnico a cui il regista ricorre nel finale con lo scopo di mediare un accesso troppo diretto agli orrori e alle torture che i signori seduti in poltrona nella stanza, a turno, osservano dalla finestra. «Al fine che aumenti il distacco e la

28 AA. VV., Emozioni in celluloide, cit., p. 10. A proposito dello stile di Renoir – e attraverso il ricordo che ne serba

oggi Bernardo Bertolucci – Giorgio De Vincenti ricorda quanto esso fosse dotato di una speciale «connotazione amorosa» che rende necessario reinterrogare in profondità «parole forti» quali appunto “desiderio”, “amore”, “godimento”; cfr. G. De Vincenti (a cura di), Bernardo Bertolucci, Marsilio, Venezia 2012.

29 J.-L. Baudry, L’effet cinéma, Albatros, Parigi 1978. 30

C. Metz, Cinema e psicanalisi, cit., p. 89.

31

F. Truffaut, En avoir plein la vue, «Cahiers du cinéma», 25, 1952, p. 22. Sull’ossessione della totalità, il bisogno di avvicinamento e l’idea dell’oltre nel cinema cfr. A. Sainati, Il cinema oltre il cinema, ETS, Pisa 2011.

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distanza, senza che vada perduto lo spettacolo col suo carattere eccitante, il cannocchiale ad un tratto, non si sa se per caso o intenzionalmente, viene impugnato alla rovescia dal guardone»33. Questo avviene perché «lo spettatore tollera emotivamente al cinema quello che non tollererebbe nella realtà. Proprio perché al cinema gli è possibile “prendere le distanze”»34.

Rompere una distanza è un po’ come riempire un vuoto, mettere un di più, aggiungere qualcosa. È ciò che fa il godimento, il quale comporta sempre un problema quantitativo, problema che già Metz aveva individuato alla base della questione del piacere e del dispiacere filmico: perché si ama un film piuttosto che un altro? perché proprio io (io e non un altro) amo quel film?

Metz osservava che ogni volta che un film di finzione non è piaciuto, vuol dire «o che è piaciuto troppo, o non abbastanza»35. L’appagamento del fantasma dello spettatore dev’essere infatti contenuto entro certi limiti, ed è importante che rimanga al di qua del punto in cui si mobiliterebbe l’angoscia e quindi il rifiuto, il quale porterebbe lo spettatore ad aumentare le sue difese a spese del piacere. Insomma si tratta di una perfetta, felice combinazione paragonabile, secondo Metz, a un incontro piacevole o amoroso nella vita36.

Se un film procura dispiacere si ha a che fare sempre con un troppo: «finisce troppo male, o […] è troppo spinto, troppo duro, troppo triste ecc.»37. Emerge bene da queste constatazioni il legame del godimento (il quale, come abbiamo più volte ribadito, è dell’ordine del troppo) con il dispiacere. Un altro punto fermo che caratterizza il godimento è, come abbiamo visto, il suo rapporto con la ripetizione. Anche Metz parla di coazione a ripetere, riferendosi però a una situazione ben precisa: il caso dello spettatore che va a vedere il film tratto da un romanzo che aveva già letto, e di cui si aspetta di ritrovare le immagini: «di fatto vorrebbe rivederle, per quell’implacabile coazione a ripetere che […] spinge il bambino a usare sempre lo stesso giocattolo, l’adolescente ad ascoltare

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C. L. Musatti, Riflessioni sul pensiero psicoanalitico e incursioni nel mondo delle immagini, Boringhieri, Torino 1976, p. 271.

34 Ibidem. Serge Tisseron ricorda come nel 1993 gli abitanti di Sarajevo si recassero al cinema pur sapendo di rischiare i

proiettili dei cecchini. Molti di loro avevano perduto i propri cari, e tuttavia erano disposti a rischiare la vita pur di potersi emozionare ridendo o piangendo realmente davanti ad uno schermo che proponeva una finzione. L’autore definisce infatti le storie di finzione la nostra principale forma di «respiro psichico», in virtù della loro straordinaria (pur se momentanea) capacità di sospensione della realtà; S. Tisseron, Les bienfaits des images, Odile Jacob, Parigi 2002, p. 16.

35 C. Metz, Cinema e psicanalisi, cit., p. 102. Per uno sguardo sociologico sulla questione dei motivi per i quali un film

può non piacere cfr. M. Pino, Pourquoi on est-on déçu par un film au cinéma? Microsociologie et typologies de la déception, Connaissances et Savoir, Parigi 2008.

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Siamo vicini alla situazione descritta da Ado Kyrou sul finire degli anni Cinquanta, secondo la quale «il film non va visto, ma va vissuto da vicino ricercando l’unione con lo schermo, come in un’esperienza amorosa» (in A. Sainati, Il cinema oltre il cinema, cit., p. 141).

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senza sosta lo stesso disco»38, noi spettatori a vedere e rivedere con rinnovato piacere lo stesso film. Anche tra i principali assunti da cui muove la ricerca su cinema e psichiatria condotta, negli anni Novanta, dai due studiosi americani Glen e Krin Gabbard, vi sarebbero domande simili: «perché per alcuni il cinema non basta mai e si sviluppa una specie di coazione a ripetere con la compulsione a vedere tutti i film possibili? […] Perché molti rivedono tre, cinque, dieci, al limite infinite volte uno stesso film? […] Perché alcune scene di particolari film tornano improvvise alla nostra memoria»39

, invadendo con insistenza il nostro quotidiano?

Probabilmente perché l’atto del riconoscere, del ritrovare ciò di cui si è già fatto una volta esperienza, è per la psicoanalisi, generalmente, causa di piacere. «In effetti Aristotele considerò la gioia derivante dal riconoscimento la base del godimento estetico», scrive Freud40.

2.4 Godere per credere. La jouissance e il problema della finzione: cinema, sintomo,

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