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Il godimento dell’occhio o l’esperienza di jouissance nella situazione cinematografica

2.1 Il godimento nel cinema Teorie inaugurali e primi stud

Il godimento nel cinema è un argomento sconfinato che permette, come vedremo, una grande varietà e diversità di approcci. Ne esamineremo alcuni, cercando di mantenerci però nell’orbita del pensiero lacaniano, quindi basandoci sull’idea di godimento che abbiamo tentato di delineare nel capitolo precedente. I nostri punti di riferimento resteranno ancora una volta quelli che abbiamo definito come i principali tratti della jouissance – il corpo, il linguaggio, il sintomo, l’angoscia, il sesso e l’amore – che riprenderemo in maniera più estesa nella seconda parte.

Tra i primi studiosi a parlare di godimento al cinema vi è in Francia, nei primi anni Settanta, Jean- François Lyotard, con la sua teorizzazione dell’acinéma2

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Occorre tenere presente, innanzitutto, che si tratta degli stessi anni in cui Lacan è in piena elaborazione del concetto di jouissance, dunque il godimento di Lyotard non va inteso in senso lacaniano, quanto piuttosto come un’intensità – o meglio, un’intensificazione – sorta di dirottamento pulsionale in cui immobilizzazione e mobilizzazione estrema, al cinema, possono coincidere. Questo movimento produrrebbe per Lyotard l’acinéma. Tuttavia l’autore riconosce certamente, nello scritto in cui avanza questa ipotesi, il valore profondo dello Stadio dello specchio lacaniano, individuando nello schermo cinematografico il luogo privilegiato dell’investimento libidico e dello scambio di economia pulsionale che il cinema attiva e produce negli spettatori. Lyotard fa dell’opposizione mobilità/immobilità la cifra essenziale della scrittura cinematografica («il film è il corpo organico dei movimenti cinematografici»)3 e distingue innanzitutto, nella composizione grafica dell’immagine filmica, tra movimento sterile e movimento produttivo,

1 Buñuel afferma di aver parafrasato, con questa frase pronunciata nel 1953 durante una conversazione all’Università

del Messico, l’affermazione di Octavio Paz secondo cui «Basta ad un uomo incatenato chiudere gli occhi per avere il potere di far scoppiare il mondo»; cfr. G. Tinazzi, Il cinema di Luis Buñuel, Palumbo, Palermo 1973.

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J.-F. Lyotard, L’acinéma, «Revue d’Esthétique», numero speciale Cinéma: théorie, lectures, Parigi 1973, tr. it. in Bellaria FilmFestival 2003, Bellaria 2003, pp. 75-81.

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attraverso un esempio che ricorda molto alcune delle definizioni di jouissance che abbiamo dato nel capitolo precedente:

Un fiammifero acceso si consuma. Ma se con esso accendete il gas, […] il suo non è un bruciare sterile […]. Tuttavia, quando un bambino accende la capocchia rossa del fiammifero solo per vedere, senz’altra ragione, lo fa perché ama il movimento, i colori che sfumano l’uno nell’altro, le luci che esplodono in tutto il loro splendore, la morte del pezzetto di legno, lo sfrigolio. A lui, dunque, piacciono le differenze sterili, quelle che non portano a nulla, che non sono ammortizzabili e compensabili, a lui piacciono le perdite e ciò che il fisico chiamerebbe degradazione d’energia. Il godimento, per quanto fornisca occasione di perversione e non solo di propagazione, si distingue per questa sterilità4.

Dunque il godimento, sorta di energia che non può essere consumata né utilizzata, emerge ancora una volta, in questa definizione, come eccedenza, dispendio inutile.

Lyotard procede poi rifacendosi anch’egli al Freud di Al di là del principio di piacere, ricordando che

la sessualità genitale, se è normale, dà luogo ad una nascita e quel che nasce è il prodotto del suo movimento. Ma il movimento di piacere in quanto tale, più o meno genitale o sessuale, se non inserito nel movimento di propagazione della specie, diverrebbe ciò che, oltrepassando il punto di non ritorno, riversa le forze libidiche al di fuori dell’insieme e a spese di esso (a spese della distruzione e della disintegrazione dell’insieme). Quando il fiammifero prende fuoco, al bambino piace questo dirottamento […] dispendioso di energia. Egli produce, attraverso il suo movimento, un simulacro del godimento nella sua componente cosiddetta di morte5.

Ciò che conta dunque è che tutta la forza erotica investita nel “simulacro di godimento” sia in esso promossa, dispiegata e bruciata invano. Così anche il cinema, secondo l’autore, sarebbe capace di produrre delle intensità di godimento piuttosto che degli oggetti consumabili-produttivi, e questo avverrebbe prevalentemente – nelle dinamiche filmiche – attraverso movimenti reiterati o di ritorno. Ci ricolleghiamo così alla nostra teoria del godimento per cui, se il principio economico del piacere, secondo Freud, è quello del minimo sforzo, in compenso la jouissance, secondo Lacan, è ciò che non serve a niente. Eppure, produce qualcosa. Pensiamo alle parole di Roland Barthes il quale, curiosamente, fa ricorso a sua volta all’immagine di una fiamma: «La prima volta accese un cero in

4 Ivi, pp. 75-76. 5 Ibidem.

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una piccola chiesa italiana. Restò colpito dalla bellezza della fiamma e il gesto gli parve meno idiota. E allora, pensò, perché privarsi del piacere di creare una luce?»6.

Ma il discorso di Lyotard ci interessa anche perché arriva a toccare la questione della ripetizione:

Nello stesso modo in cui la libido deve rinunciare alle sue eccedenze perverse per poter assicurare […] la propagazione della specie – solo fine per il quale permette la costituzione del “corpo sessuato”, così il film prodotto dall’artista nell’industria capitalistica […], e risultante […] dall’eliminazione dei movimenti anomali, dai dispendi inutili, dagli scarti di puro disfacimento, è composto come un corpo omogeneo e propagatore […] che saprà trasmettere, non perdere, ciò che porta con sé7.

Sarà il racconto filmico stesso a chiudere la sintesi dei movimenti nel tempo e nello spazio, e tali chiusure consistono esattamente nel disporre la materia cinematografica secondo la figura del ritorno. Ogni forma cosiddetta “buona” implica, per Lyotard, la riapparizione dell’identico, il riassorbimento della diversità nell’unità. Questo vale anche in pittura con l’equilibrio dei colori, in architettura con le proporzioni, in musica con la risoluzione di una dissonanza nell’accordo di dominante.

La ripetizione, principio proprio non soltanto della metrica ma anche della ritmica, considerata nel senso della ripetizione dello stesso (dello stesso colore, della stessa linea, dello stesso angolo, dello stesso accordo o intervallo), è ciò che conviene a Eros-e-Apollo, ciò che disciplina i movimenti e li riconduce ai limiti di tolleranza caratteristici del sistema o dell’insieme considerato […]. I movimenti del cinema sono in generale quelli del ritorno, cioè della ripetizione dello stesso e della sua propagazione8.

In questa stessa temperie culturale francese degli anni Settanta, tra i vari cineasti e ricercatori volti a produrre, studiare e valorizzare esperienze e sperimentazioni audiovisive, ricordiamo, accanto a Lyotard, Claudine Eizykman, che al godimento cinematografico consacra un libro9. L’autrice è lontana dalla prospettiva psicoanalitica (tanto più lacaniana); tuttavia, nel suo immaginare una sorta di nuovo approccio agli studi di cinema – che prenda in considerazione una vera e propria energetica, quindi la circolazione di forze ed affetti e le correnti di scambio tra l’apparato cinematografico e quello psichico-sociale – Eizykman dissemina il suo discorso di tracce e

6 R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux [1977], tr. it. Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino

2001, p. 133.

7

J.-F. Lyotard, L’acinéma, cit., p. 76.

8 Ivi, pp. 76-77.

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suggestioni che si avvicinano molto alle nostre riflessioni sul godimento lacaniano nel cinema. L’autrice sostiene ad esempio che

un film effettua dei trasferimenti d’intensità d’ogni sorta, mobilitando colori, suoni, parole, scritture e materiali attraverso un principio di discontinuità altamente produttivo che crea in continuazione dell’eccesso, del “di più”. Il problema cinematografico è il destino di questo “di più”. Ogni dispositivo, ogni godimento lavora questo plus in modo particolare10.

Ecco che ancora una volta, parlando di godimento, abbiamo a che fare con un troppo, con un eccesso.

Mostrando l’insufficienza degli approcci adottati fino a quel momento, limitati, pur nelle loro diversità, alla forma cinematografica narrativa-rappresentativa-industriale (NRI) – forma dominante che è prevalsa fin dalle origini del cinema su ogni altra configurazione, e che corrisponde grossomodo alla topologia canonica del film narrativo classico (omogeneità di senso, linearità narrativa, spazio euclideo, tempo newtoniano) – l’autrice sostiene che si dovrebbe piuttosto pensare al cinema dal punto di vista affettivo delle “forze”, delle configurazioni che queste assumono in rapporto alla circolazione generale di energia nei film.

Ciò che hanno in comune l’apparato psichico, quello cinematografico e quello sociale, è esattamente questo scambio pulsionale di forze e di energie, che convergono in un sistema di interazione complesso attraverso effetti di spostamento, accumulo, transito ed inversione. Entrare in questa ottica significa porre l’accento non tanto sui contenuti o sulle forme che di questi contenuti si fanno carico, quanto sui processi e le operazioni distribuzionali che da essi scaturiscono.

L’approccio di Eizykman, come dicevamo, non è psicoanalitico, tuttavia l’autrice fa ricorso a due nozioni fondamentali tanto per Freud quanto per Lacan: quella di economia, alla base della regolazione delle tensioni e delle forze pulsionali in gioco nel principio di piacere («il cinema è un volume di forze più o meno brute»11, dice Eizykman) e quella di energetica, importante per il concetto stesso di godimento, definito spesso da Lacan come “tutto ciò che determina un campo di energia”.

La prima nozione, in Eizykman, è del resto funzionale alla seconda, poiché le masse energetiche in circolazione in un film sarebbero suscettibili di aumenti, diminuzioni, ed equivalenze quantificabili. I casi più interessanti dal punto di vista di un risveglio affettivo forte e della mobilitazione voluminosa di masse energetiche, sarebbero, per la studiosa, quelli del cinema indipendente, che

10 Ivi, pp. 188-189. 11 Ivi, p. 137.

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ribalta completamente le forme dominanti del cinema classico lavorando su tutte le possibilità di scarto (referenziale, narrativo, formale, affettivo) dal modello NRI pocanzi descritto.

Se quest’ultimo lavora principalmente per perequazione (sostanzialmente: soppressione delle disuguaglianze) e omotetia (in matematica, tipo di corrispondenza fra enti geometrici tale che i punti corrispondenti si trovano allineati su rette convergenti in un punto) delle energie in gioco, il cinema indipendente produce al contrario un eccesso di affetti che destabilizza completamente quest’ordine.

Le sensazioni prodotte dai film di Maya Deren o Jonas Mekas, ad esempio, sarebbero più dell’ordine della commozione che non dell’identificazione-proiezione, tipica del cinema NRI. Inoltre, mentre nel cinema indipendente il godimento si attualizza nel tempo-presente-unico della durata del film, il cinema NRI lo fraziona e lo differisce durante tutto il film per poi capitalizzarlo alla fine12.

Ma la nostra prospettiva è piuttosto lontana da questo tipo di studi, di stampo ancora fortemente strutturalista (basti pensare ai numerosi schemi, tabelle e grafici proposti dall’autrice come modelli di misurazione delle energie operanti in un film), quindi proveremo a fare un salto in avanti.

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