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Il godimento del corpo Iperidentificazioni, dismorfismi e altri delir

1.1 Il corpo umano tra cinema e psicoanalis

Quello sul corpo al cinema – indipendentemente dai termini in cui ne parleremo, e cioè del corpo come luogo e veicolo di godimento – è un tema estremamente attuale, che ha visto svilupparsi negli ultimi anni un consistente sforzo teorico e analitico1.

Tuttavia è un tema che ha radici antiche. Il cineocchio di Vertov ad esempio, negli anni Venti, era già, e soprattutto, corpo. Esso, come un essere umano, nei suoi scritti parla in prima persona:

Io sono il cineocchio. Io prendo da uno le mani più forti e agili, da un altro le gambe più snelle e veloci, da un terzo la testa più bella ed espressiva, e con il montaggio creo un uomo nuovo, perfetto. […] io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, striscio sotto di essi, vi monto sopra, io mi muovo fianco a fianco col muso di un cavallo in corsa, io mi lascio cadere sul dorso, io mi levo in volo con gli aeroplani, precipito e risalgo, in volo, con corpi che precipitano e risalgono2.

Un enorme corpo fattosi occhio, insomma, o viceversa. Un mostro di potenza. Quasi un deleuziano “corpo senza organi” che ricorda il corpo in frantumi dello schizofrenico (o, come notavamo nel

1 Cfr. tra gli altri, in ambito francese: J.-L. Comolli, Corps et cadre. Cinéma, éthique, politique, Verdier, Parigi 2012; J.

Game (a cura di), Images des corps / corps des images au cinéma, Ens, Lyon 2010; N. Brenez, De la figure en géneral et du corps en particulier. L’invention figurative au cinéma, De Boeck, Bruxelles 1998; V. Amiel, Le corps au cinéma. Keaton, Bresson, Cassavetes, Presses Universitaires de France, Parigi 1998; tra le riviste vedi «CinémAction», 121, Le corps filmé, 2006. In Italia ricordiamo G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Il corpo del film, cit.; C. Simonigh, Il cinema, il corpo e l’anima, Le Mani, Genova 2008, G. Anaclerio, Il corpo e il frammento, cit. Sul versante psicoanalitico segnaliamo invece: «La Psicoanalisi», 28, Il corpo, 2000.Sul cinema e la sensorialità cfr. AA. VV., I cinque sensi del cinema, atti dell'XI Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Udine-Gorizia, 15-18 marzo 2004; T. Elsaesser, M. Hagener, Film Theory. An Introduction Through The Senses [2009], tr. it. Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2009.

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capitolo precedente, dell’attore porno) e che pare – dalle parole di Vertov – naturalmente connesso al cinema nel suo funzionamento di base.

Ma l’implicazione del corpo nel cinema fin dalle sue origini non riguarda soltanto il ruolo del cineasta a lavoro con la sua macchina da presa, come nel caso appena considerato, bensì anche il versante della partecipazione fisica dello spettatore al film, questione peraltro capitale nelle prime teorizzazioni dell’identificazione cinematografica, a proposito della quale Béla Balázs, nel 1949, scriveva:

Camminiamo anche noi fra le masse, cavalchiamo insieme al protagonista, voliamo e precipitiamo con lui; quando, sullo schermo, un personaggio guarda negli occhi l’amata, guarda al tempo stesso nei nostri occhi. […] Questo processo psicologico lo definiamo identificazione. In nessuna forma d’arte, mai, si è potuto scoprire un processo simile a questa identificazione (la quale, si badi, non ha un valore di eccezione, ma di fatto normale, in uno come in cento, come in tutti i film). Questa è, esteticamente parlando, la nuova fondamentale caratteristica del cinema3.

E ancora, prosegue Balázs: «L’abisso nel quale il protagonista precipita si spalanca sotto ai nostri piedi, la vetta della montagna su cui egli si inerpica si staglia nel cielo, davanti a noi»4. Il luogo dell’azione dunque, al cinema – fatto ben chiaro fin dagli albori della teoria – lo esperiamo da dentro, come se ci trovassimo con il nostro stesso corpo all’interno del film. Non è un caso che sul versante neurologico, a proposito del coinvolgimento fisico di un osservatore davanti a un’immagine, Damasio sosteneva che generiamo analoghe risposte di conduttanza cutanea sia quando assistiamo di persona a scene di orrore o dolore fisico, che «quando vediamo fotografie di tali scene, o immagini di esplicito contenuto sessuale»5.

Balázs attribuiva una fisionomia finanche anche agli oggetti presenti nell’inquadratura cinematografica, fisionomia determinata dalla volontà del regista di coinvolgere in gradi diversi lo stato d’animo dello spettatore. La fisionomia dell’oggetto varierebbe allora «nel caso, per esempio, che debba rappresentare le impressioni di un uomo terrorizzato, o il mondo visto da un uomo felice»6. Tutte le forme filmiche eserciterebbero su di noi un effetto emotivo, che «ci ricorda – sia

3 Ivi, p. 380. 4 Ivi, p. 381.

5 A. R. Damasio, L’errore di Cartesio, cit., p. 287 (corsivo nostro). L’analogia di reazioni di fronte ad immagini sia

d’orrore che di sesso è stata rilevata anche da Susan Sontag, che osserva: «la voglia di immagini che mostrano corpi sofferenti sembra essere forte quasi quanto il desiderio di immagini che mostrano corpi nudi»; S. Sontag, Regarding the Pain of Others [2003], tr. it. Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2006, p. 41.

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pure da lontano – una fisionomia umana o animale»7. La nostra Weltbetrachtung sarebbe dunque in sé antropomorfa: la realtà intera, al cinema, è umanizzata, come dotata di un corpo.

E poi, naturalmente, c’è Ejzenštejn, che tra l’opera d’arte – in primis quella cinematografica – e i fenomeni organici aveva stabilito addirittura un’omologia strutturale, un comune antropomorfismo di fondo. Come ricorda Pietro Montani, «sarà tanto più grande l’efficacia di quelle opere che sapranno non solo conformarsi al principio organico ma sfruttarlo con tutti i mezzi possibili o addirittura esibirlo, “metterlo in forma” come alcunché di sensibilmente esperibile»8

. Sono queste le opere che Ejzenštejn definisce “patetiche”, dove per “pathos” si intende la capacità di uscire da una certa condizione sensoriale per portarsi in un’altra (ex-stasis, uscita fuori di sé), e quindi un coinvolgimento intimo del corpo. Il cinema allora, che per sua natura si presenta come il dispositivo più adatto a sfruttare le potenzialità del processo estatico, è concepito da Ejzenštejn come «il modello esemplare dell’organicità: la più patetica di tutte le arti»9

.

A suggellare infine l’affinità profonda che stiamo tentando di stabilire tra cinema e corporeità, consideriamo il fatto che oggi, sul versante dell’analisi testuale, si parla sempre più di corpo del film piuttosto che di testo filmico, e fa bene Bellour a includere nel suo “corps du cinéma”, assieme al corpo dei film – cioè quello di tutti i film, presi uno per uno – il corpo dello spettatore con tutto ciò che sente10.

7

Ivi, pp. 382-383. Sulla questione dell’efficacia soprannaturale delle immagini e la minaccia reale costituita dalla progressiva antropomorfizzazione di raffigurazioni e sculture cfr. D. Freedberg, Il potere delle immagini, cit. L’autore ricorda quei casi in cui si arriva ad incatenare le statue, quando ritenute dotate di vita, per evitare che se ne vadano; (ivi, p. 114). «L’antropomorfizzazione di un’immagine rende la sua qualità di essere animato al contempo più palpabile e più terrificante»; ivi p. 112. Più nello specifico, Freedberg invita a «non sottovalutare il potere emotivo delle forme che si avvicinano all’aspetto umano o animale anche nei modi più indistinti – sia pure soltanto ed esclusivamente nei termini della loro struttura eretta, cilindrica o rettangolare»; ivi, p. 57.

8

Cfr. l’introduzione all’edizione italiana di S. M. Ejzenštejn, Neravnodušnaja priroda [1945-1947], tr. it. La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003, p. XII.

9 Ivi, p. XV. Afferma ancora Ejzenštejn: «Per questo motivo, infine, una composizione autentica sarà sempre

profondamente umana: si tratti del ritmo “saltellante” della struttura di episodi allegri, del “rallentamento monotono” del montaggio in una scena triste, o della risoluzione dell’inquadratura in una scena “scintillante di gioia”»; ivi, p. 6. Nel descrivere poi i segni superficiali del comportamento di uno spettatore dominato dal pathos, Ejzenštejn osserva che «si tratta in realtà di segni talmente sintomatici, che ci troveremmo già nel cuore del problema. In base a tali segni, il pathos si definisce come qualcosa che costringe lo spettatore a balzare in piedi dalla sua sedia. Qualcosa che lo spinge a spostarsi, a gridare, ad applaudire. Qualcosa che gli fa brillare gli occhi di gioia prima di spargere lacrime di entusiasmo. In una parola: tutto ciò che costringe lo spettatore a “uscire da se stesso”. […] Tutti i segni descritti più sopra corrispondono perfettamente a questa formula. Chi era seduto s’è alzato. Chi stava in piedi ha sobbalzato. Chi era fermo s’è mosso. Chi taceva ha gridato. Lo smorto è diventato lucente. Il secco è diventato umido. In tutti i casi si è prodotta un’“uscita dallo stato abituale”»; ivi, p. 32. Secondo Ejzenštejn «sarebbe possibile classificare le opere d’arte a seconda del grado di intensità con cui raggiungono questo effetto. Avremmo così una scala sulla quale le costruzioni patetiche dovrebbero occupare il gradino più alto»; ivi, p. 33.

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La questione del corpo, oltre che nel cinema, è altrettanto cruciale in psicoanalisi, dove il corpo – e Lacan lo sostiene senza sosta – è fatto prima di tutto per godere, godere di se stesso. Nel godimento, infatti, il soggetto quasi si abolisce a favore del proprio corpo, ed è per questa ragione che se è lecito parlare, in psicoanalisi, di un “soggetto del desiderio”, non si può allo stesso modo parlare di un “soggetto del godimento”: “sujet de la jouissance” è un hapax in Lacan, l’espressione compare una volta nel Seminario X e non si ripeterà mai più11. Roland Chemana preferisce parlare piuttosto di un “soggetto al godimento”, affermazione dalla portata immensa, proposta dallo stesso Lacan nel Séminaire XIV. La logique du fantasme (1966-1967) per definire un soggetto che è come in preda a vertigini, preso di soprassalto da qualcosa che proviene dall’esterno ma che sente anche contemporaneamente dentro di sé, una forza estranea ma al tempo stesso intimamente sua. Capire chi o che cosa, del corpo, esattamente gode, e di che cosa, resterà per Lacan un mistero irriducibile12.

Freud distingueva, come sappiamo, il corpo biologico da quello libidico. Un’omologa distinzione può essere stabilita, in campo lacaniano, tra il corpo dell’organismo vivente e quello del linguaggio: quest’ultimo sottopone il primo alle sue trasformazioni simboliche. L’azione culturale del linguaggio, infatti, modella fin dalla nascita l’organismo snaturandolo, «imponendogli appunto i suoi caratteri più umani (taglio del cordone ombelicale, dei capelli, svezzamento, educazione sfinteriale, cure igieniche ecc.)»13. Insomma il corpo da naturale diviene pulsionale – inglobato, “incorporato”, verrebbe da dire, in tale meccanismo – per via dell’azione del linguaggio, la quale costerà al soggetto, a partire da quel momento, la rinuncia ad una parte di godimento, rinuncia alla quale tenterà di porre rimedio per tutta la vita.

A riprova del carattere pulsionale e libidico del corpo in psicoanalisi, consideriamo brevemente il mito della lamella, avanzato da Lacan nel Seminario XI come alternativa al modello fusionale dell’amore proposto da Aristofane nel Simposio di Platone (modello che pretendeva di esaurirsi nella completezza della sfera, della mitica unità originaria tra le due metà).

La lamella «ha questa nuova importanza di designare la libido non come un campo di forze, ma come un organo», afferma Lacan, paragonando questo singolare organo all’emanazione di una bava che trasuda dal corpo al momento della nascita e ricopre da quel momento il campo vitale di ogni

11 Lo ricorda N. A. Braunstein, La jouissance, un concept lacanien, cit., p. 104. Così anche per Miller: «l’espressione

“soggetto di godimento” è da prendersi con una certa precauzione. Che io sappia, Lacan la impiega una sola volta»; J.- A. Miller, Logiche della vita amorosa, cit., p.106.

12 R. Chemana, La jouissance, enjeux et paradoxes, cit., p. 177. 13 M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, cit., p. 105.

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soggetto14. Insomma è una sua componente anatomica che il vivente perde nel momento in cui viene al mondo, una parte di sé: è la libido nel suo stato più puro e vitale, derivante dall’avvenuta unione tra due esseri sessuati. «Laddove il mito di Aristofane racconta che è l’altro, la sua metà sessuale, che il vivente cerca nell’amore, il mito della lamella spiega che il soggetto non insegue il suo complemento sessuale, bensì quegli oggetti che gli sostituiscano quella perdita di vita che è la sua di essere sessuato»15, e che è vissuta come la perdita di un organo del proprio corpo (paragonabile, per Lacan, a qualcosa di extrapiatto che si sposta come l’ameba, e che comparirebbe ogni volta che si rompono le membrane dell’uovo da cui uscirà il feto che sta diventando un neonato)16. Per avere un’idea di quanto sia forte e simbiotico il legame del godimento con il corpo bisogna dunque risalire fino allo stadio embrionale del soggetto.

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