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3. Considerazioni sulla legittimità delle presunzioni poste alla base dell’art. 4-bis

3.2. La condotta collaborante elevata a unico indizio di rottura del vincolo associativo

La disciplina in esame solleva ulteriori considerazioni in relazione al requisito della collaborazione. Come più volte visto, dalla mancata collaborazione

ex

art. 58-

ter

ord. penit. discende il diniego o la revoca delle misure alternative.

E ciò sulla base di una serie di inferenze: (a) i condannati per determinati delitti ricollegabili all’area della delinquenza organizzata, individuati nell’art. 4-

bis

, primo comma, ord. penit., non possono ottenere i benefici penitenziari se non è raggiunta la prova certa della rottura dei collegamenti tra essi e l'ambiente criminale di cui facevano parte; (b) tale prova non può considerarsi raggiunta se l'interessato non collabora efficacemente con la giustizia a norma

449 Corte cost., sent. 11 giugno - 8 luglio 1993, n. 306, in Cass. pen., 1994, 837, con nota di A.ACCONCI, Ordinamento penitenziario e criminalità organizzata al vaglio della Corte costituzionale.

450 Corte cost., sent. 306/1993, cit., § 11 del Considerato in diritto. 451 Ibidem.

452 Corte cost., sent. 7 – 17 febbraio 1994, n. 39, in Cass. pen., 1994, 1448: ha ritenuto, a tal proposito, che la condizione di condannato per delitti di criminalità organizzata non sia comparabile con quella del comune cittadino.

dell’art. 58-

ter

ord. penit.; (c) la collaborazione è considerata una dimostrazione del distacco del condannato dal mondo della criminalità organizzata; (d) essa può valere ai fini della concessione dei benefici anche se oggettivamente irrilevante, qualora ciò trovi giustificazione o nella marginalità della partecipazione criminosa (artt. 114 e 116, secondo comma, cod. pen.) o in altri indici legali (art. 62, n. 6, cod. pen.), sempre che siano acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; (e) fuori da questi casi, la mancata collaborazione costituisce indice della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e, quindi, della pericolosità sociale: da ciò deriva il diniego o la revoca dei benefici carcerari e delle misure alternative453.

Il principio di uguaglianza di per sé non si oppone all’adozione di tecniche premiali di incentivazione alla collaborazione processuale, dal momento che il fatto di collaborare introduce una differenza non irragionevole tra chi collabora e chi non collabora.

Il percorso argomentativo appena illustrato può funzionare a patto che l’eventuale mancata collaborazione sia frutto di una scelta consapevole del condannato e, quindi, sia a lui addebitabile454. A queste condizioni essa può essere utilizza come testimonianza di un’effettiva carenza del processo di risocializzazione455.

Eppure, non sempre la mancata collaborazione è conseguenza di una scelta volontaria del detenuto, il quale, pur dimostrando

aliunde

la rottura con l’organizzazione criminale, potrebbe non essere in grado di fornire un utile e rilevante contributo all’autorità giudiziaria a norma dell’art. 58-

ter

ord. penit.456.

Ciò può avvenire per svariate ragioni. Talvolta, ad esempio, la mancata collaborazione può essere frutto della limitata partecipazione al fatto criminoso e, pertanto, al limitato patrimonio di conoscenze di fatti o persone, tale da rendere inutile o irrilevante la collaborazione stessa (collaborazione oggettivamente irrilevante). Parimenti, essa può risultare impossibile perché fatti e responsabilità sono già stati completamente acclarati con sentenza irrevocabile (collaborazione oggettivamente impossibile). Infine, ci possono essere casi in cui la mancata collaborazione è conseguenza di valutazioni che non sono ragionevolmente rimproverabili, quali, ad esempio, il

453 L.CARACENI,C.CESARI,Sub Art. 4-bis, cit., 68.

454 A. PUGIOTTO, C. MUSUMECI, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell'ergastolo ostativo, cit., 67.

455 In altri termini, la vanificazione dei percorsi rieducativi, perlomeno nella mente del legislatore, non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare. La preclusione prevista dall’art. 4-bis ord. penit. è dunque rimessa alla volontà del condannato e, per questa ragione, non precluderebbe in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio. Cfr. Relazione al Disegno di legge n. S/328 presentato al Senato in data 8 giugno 1992 di conversione del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, in Doc. giust., 1992, c. 752: la «via del ravvedimento operoso […] è aperta a tutti», purché si tratti di scelta inequivoca: «o continuare a percorrere le vie della criminalità organizzata o scegliere la strada della società civile».

serio e fondato timore di esporre se stesso o i propri familiari a gravi pericoli a causa della collaborazione457.

Quando, per una o più di queste ragioni, il contributo del reo si rende irrilevante o impossibile, l’inutilità del suo apporto si traduce, in assenza di correttivi, in un ostacolo insormontabile all’accesso ai benefici; e questo senza che gli sia addebitabile una mancanza di volontà collaborativa458. La norma in esame finisce, in questi casi, per introdurre una presunzione

iuris et de iure

, senza possibilità di indagini sull’attuale appartenenza alla criminalità organizzata o sull’effettiva pericolosità sociale (intesa come probabilità di commissione di altri reati).

La preclusione alle misure alternative finisce, così, per comportare un’ingiustificabile assimilazione nel trattamento penitenziario tra chi non può prestare alcuna collaborazione e chi assume, invece, un atteggiamento di perdurante solidarietà con i correi. Evidente è, quindi, la violazione dell’art. 3 Cost., specialmente se si considera che la preclusione in esame concerne l’intera gamma delle misure alternative.

Non solo. La disciplina in esame desta qualche perplessità anche con riguardo alla finalità rieducativa della pena

ex

art. 27, terzo comma, Cost. Essendo la funzione rieducativa della pena valore insopprimibile che permea l’intero trattamento penitenziario, in tanto è possibile subordinare ad una determinata condotta l’applicazione di istituti che di quel trattamento sono parte integrante, in quanto la condotta che si individua come presupposto normativo risulti oggettivamente esigibile.

Introdurre come presupposto per la applicazione di istituti funzionali alla rieducazione del condannato, un comportamento che obiettivamente non può essere prestato perché nulla aggiungerebbe a quanto è stato già accertato, equivale evidentemente ad escludere in via arbitraria una serie importante di opportunità trattamentali, senza alcuna contropartita sul piano delle esigenze di prevenzione generale.

Ecco, dunque, la necessità di procedere ad una preventiva valutazione che, caso per caso, stabilisca se quel soggetto sia concretamente pericoloso459.

457 M.G. COPPETTA, Il permesso premio come strumento di rieducazione: ancora una declaratoria di illegittimità dell’art. 4-bis ord. penit., in Cass. pen., 1997, 1255.

458 M.G. COPPETTA, Il permesso premio come strumento di rieducazione: ancora una declaratoria di illegittimità dell’art. 4-bis ord. penit., cit.

459 Cfr. Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2013, n. 48890, in Dir. e giust. on-line, 2013, 1651, con nota di A.J. DICANDIA, L’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata non può essere presunta. A detta della Corte di Cassazione, neanche le valutazioni espresse dal procuratore distrettuale (o nazionale) antimafia in merito alla suddetta attualità di collegamenti possiedono efficacia vincolante per la decisione del giudice (magistrato o tribunale) di sorveglianza, necessitando anche queste un riscontro oggettivo nei fatti. Altresì Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2011 n. 45945, in Dir. e giust. online, 2011, 418, con nota di A.IEVOLELLA, Associazione terroristica ed eversiva, atti violenti non connaturati. Si veda altresì C.FIORIO, Sempre nuove

Di siffatti dubbi di legittimità costituzionale, si è occupata la Consulta in varie occasioni. Nel giudizio di costituzionalità definito con la sentenza n. 306 del 1993, la Corte costituzionale - pur dichiarando l’inammissibilità della questione - ha osservato che i casi di irrilevanza della collaborazione delineati dal legislatore (casi in cui sono applicate le circostanze di cui agli artt. 62, n. 6, 114 e 116, cod. pen.) definiscono un campo di applicazione eccessivamente ristretto, dal momento che esistono «ipotesi ad essi così prossime sul piano fattuale, da poterne sostenere ragionevolmente l’assimilazione»460.

Questa affermazione è stata, poi, ripresa e sviluppata in altre pronunce della Corte costituzionale, nelle quali ci si interrogava della legittimità dell’art. 4-

bis

ord. penit., primo comma, secondo periodo, che, in presenza di una collaborazione oggettivamente irrilevante, subordinava comunque la concedibilità dei benefici carcerari all’applicazione di una delle tre circostanze menzionate.

In quelle pronunce, la Consulta è pervenuta, di volta in volta, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione menzionata, nella parte in cui non prevedeva che i benefici di cui al primo periodo del medesimo comma potessero essere concessi anche nel caso in cui le specificità del caso concreto dimostrassero l’impossibilità, per quel condannato, di fornire un’utile e rilevante collaborazione con la giustizia. Ciò a dire che il riconoscimento delle specifiche attenuanti considerate dalla norma non esauriva l’area delle situazioni di impossibilità di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-

ter

ord. penit.

In questo senso, si ricorda la sentenza n. 357 del 1994461 in relazione al caso di un condannato che non era stato in grado di fornire una collaborazione rilevante

ex

art. 58-

ter

ord. penit. stante la partecipazione al fatto secondaria, o comunque limitata, ma non tale da corrispondere a quella («minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato») considerata dall’art. 114 cod. pen.462. La Corte, nell’affrontare la questione, ha affermato l’irragionevolezza di una previsione che determinava effetti discriminatori nei confronti del condannato che, per il suo limitato patrimonio di conoscenze di fatti o persone, non fosse in grado di prestare un’utile collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-

ter

ord. penit. A

questioni di diritto penitenziario: la «collaborazione» come presupposto per i benefìci, in Giur. cost., 1993, 2505.

460 Corte cost., sent. 306/1993, § 11 del Considerato in diritto.

461 Corte cost., sent. 19 - 27 luglio 1994 n. 357, in Cass. pen., 1995, 496. In particolare § 3 del Considerato in diritto.

462 Resta fermo che, trattandosi di apprezzamento che attiene all’accertamento della responsabilità definita con la sentenza di condanna, è solo a questa che occorre fare riferimento per valutare se ricorrano le condizioni sopra indicate, essendo inevitabilmente preclusa, per l’intangibilità del giudicato, ogni diversa valutazione degli organi che presiedono alla fase esecutiva. Cfr. Cass. pen., sez. I, 15 maggio 1995, n. 2952, in Giust. pen., 1996, II, 250. Per approfondimenti, L.CARACENI,C.CESARI,Sub Art. 4-bis, cit., 72. Sull’onere di allegazione delle circostanze idonee a dimostrare l’impossibilità di un’utile collaborazione e sull’accertamento da parte del giudice, si veda L.CARACENI,C.CESARI,Sub Art. 4-bis, cit., 72.

costui doveva, dunque, essere data la possibilità di accedere a detti benefici, e ciò anche a prescindere dai casi di applicazione degli artt. 62 n. 6, 114 e 116, secondo comma, cod. pen.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 68 del 1995, ha ritenuto «doveroso» pervenire alle medesime conclusioni, per identità di

ratio

, anche nel caso in cui la collaborazione sia impossibile perché i fatti e le responsabilità risultano ormai integralmente accertati nella sentenza irrevocabile463. In quell’occasione, la Corte ha esplicitamente affermato che «collaborazione irrilevante e collaborazione impossibile […] finiscono per saldarsi all’interno di un quadro unitario di collaborazione oggettivamente inesigibile, che permette di infrangere lo sbarramento preclusivo previsto dalla norma»464.

Sulla scia di queste pronunce, il legislatore, con legge 23 dicembre 2002 n. 279, ha modificato la norma in esame, uniformandosi

in toto

alle statuizioni della Corte costituzionale. La norma oggi prevede che le ipotesi di collaborazione irrilevante o impossibile non sono impeditive dei benefici465. Per essere ammessi ai benefici penitenziari altrimenti preclusi, occorre, qui, che il condannato produca «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva» (art. 4-

bis

, comma 1-

bis

, ord. penit.).

La previsione legislativa ha una sua

ratio

precisa. Mentre nel caso del collaborante in senso proprio il venir meno del collegamento con il sodalizio criminale è

in re ipsa

, nella diversa ipotesi del non-collaborante è necessaria una prova circa l’avvenuta rescissione, non deducibile dall’inesigibilità di un’utile collaborazione con la giustizia466. Prodotta tale prova, la posizione di quest’ultimo è legislativamente equiparata a quella del primo.

La dottrina osserva come la normativa – ancorché soddisfi le esigenze già accolte dalla Consulta nelle pronunce viste – non sia totalmente satisfattiva, dal momento che introduce una

463 Corte cost., sent. 22 febbraio - 1 marzo 1995 n. 68, in Cass. pen., 1995, 1777, con nota di A.MACCHIA, Liberazione condizionale e art. 4 bis ord. penit.: rinvio formale o recettizio?

464 Cfr. Corte cost., sent. n. 68/1995, cit., § 6 del Considerato in diritto.

465 Per approfondimenti sulle caratteristiche della collaborazione oggettivamente irrilevante o impossibile, si veda L.CARACENI,C.CESARI,Sub Art. 4-bis, cit., 69. In ogni caso, la collaborazione «attenuata», a differenza di quella «piena», vale a superare la preclusione assoluta all’accesso ai benefici, ma non i più alti tetti di pena contemplati per le singole misure a carico dei condannati per i reati preclusivi. L’irrilevanza (o impossibilità) della collaborazione impone l’acquisizione di elementi ulteriori, tali da corroborare l’ipotesi di un’effettiva scelta di distacco dall’organizzazione criminale. Sui caratteri di quest’ultima prova, si veda L.CARACENI,C. CESARI,Sub Art. 4-bis, cit., 74. C’è chi parla di «prova diabolica» o «prova negativa» che impone di dare dimostrazione dell’inesistenza di un fatto: F.ESPOSITO, Le nuove norme in materia penitenziaria, cit., 490; B. GUAZZALOCA, Differenziazione esecutiva e legislazione d’emergenza in materia penitenziaria, cit. 133; F.DELLA

CASA, Le recenti modificazioni dell'ordinamento penitenziario: dagli ideali smarriti della «scommessa» anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del «doppio binario», cit., 102; R.DEL COCO, La sicurezza e la disciplina penitenziaria, cit., 187; P. CORVI, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, cit., 58; F.P.C.IOVINO, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata, in Cass. pen., 1992, 440.

466 Cfr. A. PUGIOTTO, C. MUSUMECI, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell'ergastolo ostativo, cit., 100.

vera e propria

probatio diabolica

che mostra molteplici criticità sotto il profilo del diritto alla difesa467.

4. I PERSISTENTI DUBBI DI LEGITTIMITÀ DELL’ART. 4-

BIS

DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO

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