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Se dal piano teorico si passa a considerare il piano della prassi applicativa, ci si accorge che, spesso, l’esercizio del potere discrezionale conduce ad esiti non del tutto in linea con quanto finora detto146.

Come è stato da più parti rilevato, i giudici nella determinazione della pena in concreto e nella concessione dei benefici connessi alla condanna esercitano una discrezionalità quasi incontrollata147.

L’esistenza di un divario tra un modello teorico di discrezionalità vincolata e una prassi nella quale la discrezionalità si sottrae da qualsiasi vincolo normativo è evidente già alla luce del dato legislativo148. Vi sono disposizioni in cui, in effetti, il legislatore non è stato sufficientemente

impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.» (§ 7.3 del Considerato in diritto). Le Sezioni Unite, nel caso Gatto (Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio - 14 ottobre 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, 1, 41), espressamente affermano che «nel bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e il divieto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, va data prevalenza a quest’ultimo, giacché il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dal Giudice delle leggi è esso stesso principio di rango sovraordinato - sotto il profilo della gerarchia delle fonti - rispetto agli interessi sottesi all’intangibilità del giudicato» (§ 8 del Considerato in diritto). Sul punto, D.VICOLI, L’illegittimità costituzionale della norma penale sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni Unite, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 2, 1006; G.ROMEO, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena «incostituzionale», in www.penalecontemporaneo.it, 17 ottobre 2014.

145 Cfr. A.MARGARA, Il problema della discrezionalità nelle decisioni della magistratura di sorveglianza, cit., 213: ciò che deve essere perseguito è «la trasparenza e la validità di questi successivi interventi», operati nella fase dell’esecuzione penale.

146 G.FIANDACA,E.MUSCO, Diritto penale, cit., 722. Gli Autori parlano di distanza tra «pena teorica» e «pena reale». In argomento, T.PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, cit., 419; C.E.PALIERO, Metodologie de lege ferenda: per una riforma non improbabile del sistema sanzionatorio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, 510.

147 In dottrina, c’è chi parla di «disintegrazione», «collasso» ovvero «diaspora» del sistema commisurativo. Così, rispettivamente, T.PADOVANI, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma. Il problema delle comminatorie edittali, cit.; G.MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 160; L.MONACO,C.E.PALIERO, Variazioni in tema di «crisi della sanzione»: la diaspora dei sistemi commisurativi, cit.

attento all’esigenza di predeterminare direttive chiare ed effettivamente orientative per il giudice.

Sotto questo profilo, si è già ampiamente detto del carattere onnicomprensivo, e perciò poco utile, dei criteri fattuali enunciati dall’art. 133 cod. pen., nonché dalla mancata indicazione dei parametri finalistici149. Detta norma non è, però, l’unica a presentare incertezze.

Diverse sono le disposizioni che sollevano, ed hanno sollevato, dubbi sotto il profilo dell’eccessiva ampiezza della cornice edittale fissata dal legislatore. Questa, per guidare di fatto l’attività del giudice, non deve eccedere il «margine di elasticità» necessario a consentire la commisurazione della pena secondo i criteri di individualizzazione. Quando la cornice edittale è eccessivamente dilatata, «la predeterminazione legislativa della misura della pena diviene soltanto apparente e il potere conferito al giudice si trasforma da potere discrezionale in potere arbitrario»150.

149 Nel senso che il concetto di «gravità del reato» non sia veramente univoco rispetto alle differenti finalità della pena cui la valutazione della gravità può essere correlata, si veda E.DOLCINI, La commisurazione della pena. La pena detentiva, cit., 42 e letteratura tedesca ivi citata. Dubbi sussistono anche con riferimento alla «capacità a delinquere», tra i tanti, si vedano, tra gli altri, E.MORSELLI, Il significato della capacità a delinquere nell’applicazione della pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, 1342; M.SPASARI, Capacità a delinquere e pena, ivi, 1978, 3; O. CUSTODERO, Capacità a delinquere e commisurazione della pena: problemi e orientamenti, ivi, 1998, 78.

150 Corte cost., sent. n. 299/1992, cit., § 4 del Considerato in diritto. La Corte, in tale occasione, si è occupata dell’art. 122 cod. pen. mil. di pace che puniva, per il solo fatto della violata consegna, il militare che, in vario modo, sottraeva, deteriorava o distruggeva in tutto o in parte la cosa a lui affidata in guardia. La norma indicava solo il minimo edittale della pena (due anni); sicché, ai sensi dell’art. 24 dello stesso codice, la pena poteva arrivare sino a ventiquattro anni di reclusione militare. L'analisi della norma impugnata induce la Corte a ritenere che la predeterminazione del massimo di pena ad opera della norma stessa (per effetto del rinvio implicito alla durata massima della reclusione militare stabilita in ventiquattro anni dall'art. 26 del cod. pen. mil. di pace) sia soltanto apparente e quindi non idonea a funzionare effettivamente quale parametro e criterio direttivo per l'esercizio del potere discrezionale del giudice. Non appare ipotizzabile alcuna fattispecie concreta di reato ex art. 122 cod. pen. mil. di pace alla quale sia ragionevole ritenere che il legislatore abbia davvero inteso collegare una sanzione di tale misura. E poiché le norme penali debbono invece far riferimento a fenomeni che appaiano concretamente verificabili (sentenza n. 96 del 1981), ne deriva il carattere meramente apparente della predeterminazione legislativa del massimo di pena. La Corte considera, poi, che tra il minimo e il massimo della pena comminata dall’art. 122 vi è una divaricazione di ampiezza tale da non avere quasi alcun riscontro nel nostro ordinamento penale. Né può ritenersi che l'abnorme estensione dell'àmbito di determinazione così lasciato alla discrezionalità del giudice corrisponda alla variabilità - in termini di gravità del reato - delle fattispecie concrete sussumibili nella norma incriminatrice e trovi quindi in tale variabilità la sua giustificazione. «Al riguardo, va qui ribadito, in primo luogo, che non deve esservi sovvertimento del rapporto tra il principio della riserva alla legge del trattamento sanzionatorio e quello dell'individualizzazione della pena. In linea di principio, infatti, l'individuazione del disvalore oggettivo dei fatti-reato tipici, e quindi del loro diverso grado di offensività, spetta al legislatore; mentre al giudice compete di valutare le particolarità del caso singolo onde individualizzare la pena, stabilendo in base ad esse, nella cornice posta dai limiti edittali, quella adeguata in concreto. Poiché gli ambiti delle due sfere non vanno confusi, è compito del legislatore di rispettare quel rapporto attraverso un'adeguata articolazione dei trattamenti sanzionatori». La Corte conclude affermando che la norma in esame rappresenta in definitiva «l'attribuzione al giudice di un potere di determinazione svincolato da effettivi criteri normativi di quantificazione». È quindi violato il principio di legalità della pena –

Una corretta politica delle comminatorie edittali si pone come presupposto imprescindibile per un’efficace regolamentazione degli spazi di discrezionalità da lasciare al giudice per la determinazione della risposta punitiva concreta.

Ulteriori vistose carenze nella disciplina normativa della discrezionalità si riscontrano, altresì, nel settore delle circostanze del reato: un settore particolarmente vasto nel nostro ordinamento, che fa spazio alla discrezionalità del giudice ora per l’individuazione del dato aggravante o attenuante151, ora in relazione agli effetti modificativi del trattamento sanzionatorio152, ora con riguardo al concorso di circostanze. Qui, la situazione si è aggravata a seguito delle riforme degli anni Settanta che hanno dilatato al massimo gli spazi di discrezionalità del giudice153.

senza necessità di un tertium comparationis richiesto normalmente nel giudizio di ragionevolezza -, posto che tale principio, è sì compatibile con una regolata discrezionalità giudiziale, ma non con l'arbitrio del giudice. Sul punto, S.CORBETTA, La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, cit. 151 Il legislatore, per un verso, pare tipizzarle (artt. 61, 62 cod. pen.), per altro verso, non mancano ipotesi in cui la loro individuazione è affidata alla discrezionalità del giudice. Così E.DOLCINI, voce Potere discrezionale del giudice, cit., 764. Si pensi, a questo proposito alle attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.) e alle circostanze configurate genericamente per i «casi più gravi» o per i «fatti di lieve entità». Si veda, ancora, la vicenda della circostanza aggravante della «ingente quantità» in materia di stupefacenti: cfr. A.CHIBELLI, La «ingente quantità» di stupefacenti: la «storia senza fine» di un’aggravante al bivio tra legalità in the books e legalità in action, in www.penalecontemporaneo.it, 3 febbraio 2017. Per ulteriori approfondimenti, si veda F. BRICOLA, Le aggravanti indefinite. Legalità e discrezionalità in tema di circostanze del reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1964, 1051.

152 Non è chiaro come debba essere esercitato il potere di decidere la variazione in concreto ascrivibile alla circostanza. A proposito dell’incidenza delle circostanze sul trattamento sanzionatorio del reato, il nostro ordinamento conosce fondamentalmente due modelli. L’uno ricollega alla circostanza una modificazione, predeterminata dalla legge, della misura o del tipo della pena astratta (es: artt. 576, 577, 625 cod. pen.); l’altro modello fa invece reagire la circostanza sulla pena concreta (artt. 63, 64, 64 cod. pen.). Mentre la prima soluzione individua un unico momento di discrezionalità, da esercitare secondo i criteri generali di commisurazione della pena, la seconda prospetta l’ulteriore problema della individuazione di un criterio in base al quale determinare l’aumento o la diminuzione di pena. A tale scopo, parrebbe necessario scomporre la fattispecie astratta della circostanza – così come la fattispecie di reato, per la commisurazione della pena in senso stretto – in una «scala continua di sottofattispecie», all’interno della quale collocare la circostanza concreta, per stabilire il suo intrinseco «grado di intensità». In argomento, G. CONTENTO, Note sulla discrezionalità del giudice penale, con particolare riguardo al giudizio di comparazione fra le circostanze, cit., 673.

La Corte di Cassazione non si accontenta della mera indicazione della pena finale, esigendo un’autonoma quantificazione della pena per il reato semplice e della variazione ascrivibile alla circostanza. A.M.STILE, Il giudizio di prevalenza o di equivalenza tra le circostanze, cit., 88-93. L’Autore osserva come questa «immagine di facciata» sia smentita dall’esperienza giudiziaria, la quale «dimostra che il giudice [...] si preoccupa innanzi tutto di stabilire la misura definitiva e complessiva della pena nell’àmbito concesso dalla legge, e solo in un secondo momento (a volte addirittura dopo la lettura del dispositivo in udienza) assegna alla pena-base ed alla variazione il relativo coefficiente in funzione della necessaria motivazione».

153 Una recente ricognizione ha rilevato l’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere (l’enorme discrezionalità) dei giudici sulle circostanze: fattori, entrambi, di indebolimento della legalità, luogo particolarmente marcato di emersione dell’enorme potere del giudice nella gestione complessiva degli istituti del sistema sanzionatorio: F.BASILE, L’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 1743.

Si veda, a tal proposito, l’attuale disciplina dell’art. 69 cod. pen.154 e, in particolare, la vastità dell’oggetto del giudizio di bilanciamento: l’eterogeneità dei termini da porre a raffronto contribuisce all’ingresso di valutazioni del giudice fondate su criteri soggettivi e arbitrari155. I poteri del giudice risultano ulteriormente accentuati per effetto della scelta legislativa di non tener conto delle circostanze soccombenti nel computo della pena156.

L’affastellarsi di circostanze, specie in relazione a taluni reati – si pensi all’omicidio (artt. 575 e ss. cod. pen.) -, disciplinate in modo diverso (con aumenti di diversa misura, con previsione o meno di un aumento minimo, bilanciabili e non bilanciabili), ha reso complicata e mal decifrabile la struttura del sistema, tanto che, sovente, gli esiti della commisurazione della pena risultano poco prevedibili, aleatori, rimessi a sentimenti soggettivi di giustizia più che a criteri di legalità della pena157. Se a ciò si aggiunge l’effetto prodotto da scelte processuali attinenti ai riti alternativi, il quadro si complica ulteriormente158.

Per meglio comprendere tale complessità, si riporta, di seguito, un esempio.

Il caso – modellato su un fatto realmente accaduto e che ha riscosso notevole risonanza mediatica159 – è quello dell’omicidio volontario aggravato

ex

art. 577, n. 4, cod. pen. (crudeltà verso la vittima), commesso da soggetto seminfermo di mente (art. 89 cod. pen.).

La cornice edittale di cui all’art. 575 cod. pen. di per sé è abbastanza ristretta (da 21 a 24 anni); eppure, circostanze aggravanti e attenuanti possono comportare una forte dilatazione verso l’alto (fino all’ergastolo) e verso il basso. Il bilanciamento

ex

art. 69 cod. pen. apre, difatti, uno scenario variegato. In caso di condanna pronunciata in esito al rito ordinario la pena sarebbe, secondo l’esito del bilanciamento: ergastolo in caso di prevalenza dell’aggravante speciale; in caso di giudizio di equivalenza, una pena compresa entro la cornice edittale prevista per l’omicidio comune (da 21 a 24 anni); in caso di prevalenza dell’attenuante, una pena compresa fra un minimo di anni 14 e un massimo di poco inferiore ai 24 anni di reclusione. In nessun caso potrebbe essere applicata una pena nell’intervallo fra i 24 e i 30 anni.

154 E. DOLCINI, voce Potere discrezionale del giudice, cit., 768: «la novella del 1974 ha esplicitamente conferito al giudice il potere di correggere, in sede di applicazione del nuovo art. 69 cod. pen., valutazioni di prevenzione generale espresse dal legislatore nella configurazione di circostanze ad efficacia speciale». 155 A.M.STILE, Discrezionalità e politica penale giudiziaria, in Studi Urbinati, 1976-1977, 300.

L’eccessivo ampliamento dei contorni del giudizio di bilanciamento ha dato nuovo impulso a discussioni tradizionali circa la natura – circostanziale o meno – di alcune cause di modificazione della pena, dagli eventi aggravanti alla recidiva, alle circostanze attinenti all’imputabilità. In argomento, E. DOLCINI, voce Potere discrezionale del giudice, cit., 766 e riferimenti ivi riportati.

156 E.DOLCINI, voce Potere discrezionale del giudice, cit., 766. 157 Cfr. D.PULITANÒ, Diritto penale. Parte speciale, I, Torino, 2014, 62.

158 Si badi che la diminuente del rito alternativo (per esempio il rito abbreviato) non rientra nel bilanciamento ex art. 69 cod. pen.

159 Per approfondimenti, M.BERTOLINO, Dall'infermità di mente ai disturbi della personalità: evoluzione e/o involuzione della prassi giurisprudenziale in tema di vizio di mente, in Riv. it. med. leg., 2004, 2, 508. La sentenza del GUP di Milano aveva condannato l’imputato a 30 anni di reclusione; in appello, la sentenza è stata riformata quanto a misura della pena in 16 anni.

Nel caso in cui si proceda con rito abbreviato: se è riconosciuta la prevalenza dell’aggravante, la pena sarà di 30 anni (in luogo dell’ergastolo); se il giudizio è di equivalenza, la diminuzione secca di un terzo per il rito abbreviato, applicata su una pena commisurata entro la cornice edittale, porterà a una pena compresa fra i 14 e i 16 anni; se, viceversa, viene ritenuta prevalente l’attenuante della seminfermità, anche a contenere al minimo la diminuzione, la pena non potrà essere superiore a 14 anni, a causa della diminuzione per il rito abbreviato. Riassumendo: scelto il rito abbreviato, la pena potrà essere o di 30 anni, o inferiore a 16; in nessun caso potrebbe essere applicata una pena nell’intervallo fra i 16 e i 30 anni.

L’esempio riportato è interessante non soltanto per comprendere la varietà di epiloghi possibili ma anche perché rappresenta un caso emblematico di «discrezionalità discontinua»160. Con questa espressione ci si riferisce al caso in cui la pena, all’esito del bilanciamento, può essere commisurata al di sopra o al di sotto di certe soglie, con esclusione di soluzioni intermedie. Una simile discontinuità nelle possibilità di commisurazione della pena spezza la corrispondenza fra la scala delle possibili valutazioni di gravità e la scala delle possibili sanzioni161.

Da ultimo, tra i limiti della configurazione legislativa della discrezionalità, si ricordano anche le problematicità originate dall’istituto della recidiva. Rinviando al prossimo capitolo una considerazione più ampia delle questioni da esso sollevate, ci si limita, ora, solo a segnalare che, nel silenzio del legislatore, è stata la prassi giurisprudenziale a enucleare gli «indici sintomatici» dai quali desumere un elemento di maggior colpevolezza o di maggiore rimproverabilità, tale da giustificare l’aggravamento sanzionatorio162.

160 Cfr. D.PULITANÒ, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, cit., 56.

161 Cfr. D.PULITANÒ, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, cit., 56. L’Autore prospetta, a questo proposito, un dubbio di illegittimità costituzionale per violazione dei princìpi di uguaglianza e rieducazione della pena. La censura riguarderebbe i possibili effetti della disciplina del bilanciamento, applicata a circostanze che spostano i limiti edittali in modo da aprire un buco nero nella scala delle possibili scelte sanzionatorie. L’Autore parla di «frattura negli spazi edittali» anche a proposito della normativa in materia di stupefacenti: rapporta, in particolare, la sanzione prevista dal primo comma dell’art. 73, d.P.R. 309/1990 (pena minima di otto anni di reclusione e multa di euro 25.822) con quella prevista dal quinto comma della medesima disposizione per gli stessi fatti ancorché di lieve entità (pena massima di quattro anni di reclusione e multa di euro 10.329). Si tratterebbe di una «discontinuità irrazionale fra le cornici edittali previste per fattispecie relative a fatti che presentano un continuum di possibili graduazioni di disvalore»: una valutazione di gravità immediatamente al di sopra della soglia della lieve entità comporta un salto di pena di quattro anni. Tale discontinuità ha indotto il Tribunale di Perugia a sollevare questione di legittimità costituzionale; questione dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con sentenza n. 148/2016 (Corte cost., sent. 1 - 16 giugno 2016, n. 148, in Giur. cost., 2016, 3, 1101). Attualmente pendono davanti alla Corte costituzionale tre nuove questioni di legittimità riguardanti la medesima norma. Per un commento, si veda C.BRAY, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe pesanti? Tre questioni all’esame della Consulta, in Dir. pen. cont., 2017, 2, 67.

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