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Il contributo del servizio sociale nei contesti post emergenzial

di Cosimo Mangione

10.2. Il contributo del servizio sociale nei contesti post emergenzial

Prima di rivolgere la nostra attenzione all’intervento professionale, ri- teniamo opportuno preporre alcune considerazioni di carattere sociologico sulla struttura processuale o meglio temporale dell’agire sociale dei singoli. In primo luogo è utile, per chiarire la linea argomentativa che stiamo se- guendo e mettere in risalto lo specifico contributo del servizio sociale nelle situazioni post-emergenziali, riproporre la distinzione tra «tempo della quotidianità» e «tempo biografico» discussa da Alheit (1983, pp. 188-198).

Il tempo della quotidianità è il tempo della riproduzione ed è dunque caratterizzato da una traiettoria ciclica legata alle incombenze della quo- tidianità e alla soddisfazione dei bisogni più immediati. Da questo punto di vista i margini di autodeterminazione del singolo individuo riguardo la strutturazione del tempo quotidiano appaiono molto ristretti (cfr. Alheit, Dausien, 1985).

Il piano temporale biografico descrive invece un percorso lineare aper- to, legato alla progettualità della propria storia di vita (cfr. ibidem). È stato soprattutto Fischer (1986) a sottolineare come la costruzione del percorso di vita necessiti che il singolo si rivolga retrospettivamente e prospettiva- mente, e dunque nel ricordo e nell’attesa, al proprio orizzonte temporale passato e futuro. È in questa tensione esplorativa che viene a costituirsi la “struttura temporale” dell’identità (Luckmann, 1986) e ad attuarsi, pur nei suoi limiti e contraddizioni, la libertà di scelta e di autodeterminazione esi- stenziale dell’individuo.

La percezione soggettiva di un’unità temporale, e dunque anche della sicurezza esistenziale, si fonda sulla “sincronicità” (Alheit, 1983) che l’in-

dividuo costruisce permanentemente tra tempo della quotidianità e tempo biografico. Questa fragile interdipendenza viene profondamente indebolita in situazioni di crisi, come quelle che nascono a seguito dell’esperienza di un evento catastrofico. Esso infatti si manifesta in prima linea come «un’interruzione improvvisa della “continuità”» (Tagliapietra, 2016, p. 16) della quotidianità e quindi dell’interruzione dell’idealizzazione della conti- nuità del mondo della vita che Alfred Schütz e Thomas Luckmann (1984), sulla scorta di Husserl, ponevano a fondamento dell’esperienza della realtà. Da questo punto di vista l’interesse principale del servizio sociale nei con- testi emergenziali dopo la catastrofe è quello di ricostruire le strutture tem- porali portanti del mondo della vita.

Il terrore metafisico che nasce dalla catastrofe minaccia, d’altro canto, la dimensione della “progettualità esistenziale” (Bertin/Contini, 2004), appiattendo e, mi si passi il termine, unidimensionando la profondità pro- spettica propria dell’orizzonte temporale biografico. Non solo la catastrofe è caratterizzata dal dominio del presente e dall’angoscia del presente (cfr. Tagliapietra, 2016, p. 24). Con essa viene inoltre ad essere minata l’unità di senso biografica – quella che Dilthey (1974) chiama “Lebenseinheit” – e dunque il “rapporto di senso” (ivi, p. 246) (“Bedeutungszusammenhang”)2

che esiste tra le singole parti di una biografia. Con questo termine descrive Dilthey il prodotto di un atto riflessivo – Marotzki (2004, p. 179) parla a tal riguardo del “risultato” di un atto conoscitivo della “coscienza soggetti- va” (“Leistung des Subjektbewusstseins”) – con cui ogni esperienza viene messa in rapporto con le altre con lo scopo di creare una linea di vita co- erente. Come può sembrare ovvio, l’esperienza di un evento catastrofico, come ad esempio l’esperienza di un terremoto, viene di regola vissuta come qualcosa di estremamente singolare, che si sottrae agli schemi inter- pretativi a disposizione del soggetto e di conseguenza ad un’integrazione all’interno della sua biografia. Per far fronte alla situazione di disagio, frammentazione narrativa e disorientamento esistenziale che ne segue e creare le condizioni per superare queste difficoltà e ricondurre l’esperienza della catastrofe ad un’idea di senso e di significato, sono necessari notevoli sforzi di autoriflessione. Corbin e Strauss (1988) parlano a tal proposito della necessità che le persone si adoperino per fare “lavoro biografico” (biographical work). Con quest’espressione definiscono i due sociologi statunitensi quelle attività di riflessione riguardo il proprio percorso di vita che sono necessarie per poter continuar a vivere dopo un evento perturba- tivo o traumatico come una malattia cronica o l’esperienza di un disastro (Schütze, 2015).

2. Anche se il termine tedesco “Bedeutung” viene reso più propriamente con “signifi- cato”, ritengo opportuno parlare in questo contesto di “senso”.

L’azione fondamentale per svolgere il lavoro biografico consiste nel raccontare la propria storia di vita. Sulla base di questo assunto, ma anche delle considerazioni fatte sull’inevitabile dominanza nella relazione d’aiuto di una comunicazione incentrata sulla biografia dell’utente, possiamo a buon ragione affermare che nei contesti post-emergenziali, e cioè quando si è riusciti a normalizzare la situazione di estrema criticità, sia necessario che il professionista del servizio sociale si adoperi per ricostruire l’identità biografica e il percorso di vita dell’utente, che a causa di traumi, di lutti fa- miliari o delle varie ed innumerevoli forme di perdita personale, sono stati profondamente feriti dall’evento catastrofico3. Non si tratta di una semplice

anamnesi, ma di una minuziosa ricostruzione dei processi biografico- formativi che richiede l’atteggiamento epistemologico dell’etnografo, vale a dire di chi da una posizione di estraneità cerca di avvicinarsi cautamente e metodicamente all’altro per comprenderne il mondo di vita, l’universo relazionale, il linguaggio e l’orizzonte di significati interiori4. L’idea che

fa da sfondo a questo approccio narrativo-comprendente-etnografico è che nel racconto non solo la persona, ricucendo lo strappo tra quotidianità e biografia (Alheit, 1983), “conferisce unità”, per usare un’espressione di Pa- parella (1988, p. 43), alle sue esperienze, ma che nella sua “esperienza d’u-

nità” (ibidem) è possibile gettare le fondamenta per un nuovo significato e un nuovo percorso di vita. Volgersi al proprio passato e concedersi alla me- moria, pur comportando il rischio della rievocazione puramente nostalgica e rancorosa (cfr. Contini, 1988) della felicità perduta5, può mettere in moto

dinamiche autoconoscitive o “epistemiche” (Schütze, 1987, p. 48) tramite le quali chi racconta produce continuamente non una nuova storia, ma nuovi significati riguardo la propria storia di vita. Questo elemento epifanico, di autorivelazione di senso attraverso il racconto della propria storia di vita assume un rilievo particolare se esso viene vista nell’ottica della resilienza. Sono state le riflessioni di Viktor Frankl (1977) sulla sua esperienza nei

3. Anche nel trattamento psicoterapeutico di stati traumatici l’obiettivo della terapia consiste nel “migliorare l’organizzazione della memoria del trauma” (“increasing trau- matic memory organization”), la qualcosa andrà a esprimersi in una “narrazione più coerente” (“more coherent narratives”) (van Minnen et al., 2002, p. 255). Non è mia in- tenzione confondere l’uso terapeutico delle narrazioni autobiografiche con la necessità di incoraggiare il racconto della propria storia durante la relazione d’aiuto, ma è evidente che il servizio sociale in quest’ambito rivendica con forza il suo carattere prettamente “transdi- sciplinare” (Erath, 2006).

4. Prendendo le mosse dall’analisi dei casi presentati e discussi da Mary Richmond (1922), Schütze (1994) e Riemann, Schütze (2012) hanno sostenuto la necessità di una metodologia d’intervento del servizio sociale orientata ad un principio epistemologico et- nografico.

5. Per una discussione della differenza tra “memoria” e “nostalgia” cfr. Paparella (1988, p. 194).

campi di concentramento a delineare con chiarezza il forte legame esi- stente tra il senso che il singolo conferisce al proprio vissuto e la capacità di non cedere sotto il peso di un’insostenibile sofferenza. Non solo Frankl riconosce in questo legame una forza redentrice, ma egli scorge in questa “misteriosa” capacità di dar senso alla tragedia l’opportunità di realizzare la più alta forma di umanità possibile (“das Menschlichste im Menschen verwirklichen”, Frankl, 2005, p. 191).

Incoraggiare la ricapitolazione narrativa della traiettoria di vita è dun- que per l’assistente sociale di fondamentale importanza nei contesti post- emergenziali e cioè in situazioni dove l’orizzonte esistenziale e l’orizzonte di senso degli utenti è stato sconvolto alle sue fondamenta. Miller (2012) sottolinea ad esempio la necessità che l’assistente sociale inciti le persone colpite dall’evento catastrofico a raccontare la propria storia con la cata- strofe e a condividere con altri questa storia, individuando in questo ed altri aspetti una «sorgente di resilienza individuale» (ivi, pp. 129-130). Il lavoro biografico che si realizza attraverso il racconto della propria vita rende possibile confrontarsi con la domanda più impellente che assedia le persone colpite dal terremoto e cioè la domanda sul senso dell’evento catastrofico all’interno della propria storia di vita. Questo appare tanto più evidente se interpretiamo la catastrofe non soltanto come una situazione di disordine assoluto (Tagliapietra, 2016, p. 21), ma anche come una con- dizione di afasia del discorso, di afonia della spiegazione e del senso. So- prattutto per le persone più vulnerabili della popolazione, come ad esempio per persone disabili, persone con malattie croniche o persone anziane, è di essenziale importanza fare lavoro biografico per poter accettare la nuova situazione di vita che la catastrofe ha portato con sé.

10.3. Un’illustrazione empirica: l’intervista con Domenica

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