alla cultura del rischio: potere pubblico e gestione delle emergenze
3.5. Il sistema di protezione civile
Rimanendo ancorati al profilo istituzionale, la sovrapposizione “rischio” “emergenza” è particolarmente evidente ove si guardi al sistema di pro- tezione civile, nato a seguito della gestione fallimentare in particolare del terremoto dell’Irpinia del 1980. Se, infatti, anche la gestione del sisma che aveva colpito il Friuli nel 1976 era stata caratterizzata, nei primi giorni, dalla lentezza dei soccorsi e dalla mancanza di coordinamento, essa aveva rappresentato nei momenti successivi un modello di intervento attraverso la creazione di un “sistema” in cui erano coinvolti sia il governo centrale, sia le autonomie locali. Si assiste per la prima volta alla creazione, in ciascun Comune della zona colpita, di “centri operativi” presieduti dal Sindaco, con poteri di decisione sulle operazioni di soccorso, stante la conoscenza del territorio e delle sue risorse, ed al coinvolgimento attivo della popola- zione; sistema che porterà, come è noto, la ricostruzione del tessuto sociale ed urbano in circa 15 anni.
Il “modello Friuli” non viene però riproposto in occasione del terremoto dell’Irpinia, la cui gestione risulta nel complesso fallimentare, anche dopo l’intervento del Commissario straordinario, Giuseppe Zamberletti.
L’esperienza acquisita in occasione delle due catastrofi diventa, dunque, il motore del cambiamento poiché comincia a radicarsi l’idea della preven- zione come fattore essenziale (Giuseppe Zamberletti continuerà a ripeterlo nei suoi interventi anche negli anni successivi) e della conseguente predi- sposizione di un sistema che individui le risorse e le strutture di intervento necessarie e che, prima ancora, delinei le misure di prevenzione: la “pro- tezione civile”, dunque, non solo come soccorso (come era accaduto nella legislazione precedente, a partire dal 1800), ma anche come previsione e prevenzione.
Una impostazione metodologica corretta che tuttavia non ha trovato un effettivo riscontro sia nella disciplina primaria sia nelle decisioni dell’am- ministrazione e che non ha inciso sulla funzione del sistema di protezione civile: gestire il momento critico successivo al verificarsi dell’evento, in una prospettiva che, come si è più volte sottolineato, mette in secondo piano la gestione del rischio, inteso come probabilità di verificazione di un evento causativo di danno, e, ancor prima, di identificazione della fonte di pericolo e delle possibilità che questa si trasformi in un danno. In altri termini, il sistema di protezione civile ha mantenuto la sua funzione di “gestione della straordinarietà” dove per straordinario si è intesa, e, come si vedrà nel prosieguo, continua ad intendersi, la gestione di qualsiasi even- to eccezionale, anche i c.d. “grandi eventi”, che sono semplicemente eventi complessi. In questi casi, infatti, è proprio la mancata disciplina a monte, che può agevolmente ricondursi nel quadro in precedenza considerato, a far sì che una situazione di mera ordinarietà, gestibile con ordinari proce- dimenti amministrativi, venga trasformata in emergenza, gestita con pro- cedure extra ordinem, con tutti i problemi che poi ne conseguono anche in termini di legittimità dell’azione dell’amministrazione, che risulta sviata ri- spetto alla funzione che diventa “funzione”/strumento per il perseguimento di un fine diverso da quello voluto e legittimamente approvato nell’ambito di circuiti decisionali democratici, e soprattutto sindacabili in quanto iscrit- te all’interno del circuito della responsabilità.
E ciò sebbene la disciplina legislativa successiva al terremoto dell’Irpina andasse sulla strada giusta, attraverso l’individuazione di “organi ordinari” (Ministro dell’Interno, Prefetto, Commissario di Governo nella Regione, Sindaco) e “straordinari” di protezione civile (Commissario straordinario) e ne disciplinasse le rispettive competenze, sino ad arrivare nel 1982, con la Legge n. 938, alla istituzione della figura del Ministro per il Coordinamen- to della Protezione Civile, che si avvale del Dipartimento della Protezione Civile, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con funzio-
ni di raccolta di informazioni e dati in materia di previsione e prevenzione delle emergenze, di predisposizione ed attuazione di piani nazionali e ter- ritoriali di protezione civile, organizzazione del coordinamento e della di- rezione dei servizi di soccorso, promozione delle iniziative di volontariato, e coordinamento della pianificazione dell’emergenza con finalità di difesa civile. Dunque, una organizzazione in linea teorica non finalizzata esclu- sivamente alla fase di “soccorso”, di “gestione della crisi post evento”, ma anche previsione ed alla prevenzione del rischio, che divengono obiettivi principali del sistema.
Disciplina che, come è noto, ha trovato nella Legge n. 225 del 1992 uno dei suoi pilastri, poiché con essa si assiste alla nascita del Servizio Nazio- nale della Protezione Civile, che ha il compito di “tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e altri eventi calamitosi” (una definizione, questa, che molto si avvicina a quella francese di sécurité ci- vile, che ha per oggetto “la prévention des risques de toute nature, l’infor-
mation et l’alerte des populations ainsi que la protection des personnes, des biens et de l’environnement contre les accidents, les sinistres et les ca- tastrophes par la préparation et la mise en œuvre de mesures et de moyens appropriés relevant de l’Etat, des collectivités territoriales et des autres personnes publiques ou privée”). La legge opera, infatti, una profonda ri- organizzazione del sistema di protezione civile che viene disegnato, sulla base del principio del decentramento e del principio di sussidiarietà, come un sistema coordinato cui concorrono non solo tutti i livelli di governo, ma anche la società civile, ivi compresa la comunità scientifica.
La Legge definisce, poi, le attività di protezione civile individuandole, come si è detto, non solo nel soccorso e nelle attività volte al superamento dell’emergenza, ma anche nella previsione e nella prevenzione e, dunque, nella definizione delle cause e nell’individuazione dei rischi presenti sul territorio e nella conseguente predisposizione delle misure di prevenzione.
Sono note le modifiche che al sistema sono state apportate nel corso degli anni, che non solo hanno notevolmente ampliato il concetto di “emer- genza”, ma hanno anche rinforzato il potere extra ordinem, attraverso la disciplina delle ordinanze, che sono divenute lo strumento “ordinario” di gestione dell’emergenza, anche in deroga alla disciplina ordinaria. Basti a tal proposito pensare alla Legge n. 401 del 2001, che non solo attribu- isce al Presidente del Consiglio dei Ministri le competenze in materia di protezione civile dello Stato e istituisce nuovamente il Dipartimento della Protezione Civile, abolendo l’Agenzia, nata nel 1999, ma introduce i grandi eventi tra le ipotesi che possono condurre alla dichiarazione dello stato di emergenza, ampliando l’ambito di intervento del sistema di protezione civi- le e, soprattutto, l’ambito di applicazione dei poteri extra ordinem di ordi-
nanza (“grandi eventi” la cui gestione, come è noto, verrà poi sottratta alla protezione civile con la Legge n. 27 del 2012).
Un sistema che sarà profondamente rifondato attraverso il D.L. n. 59 del 2012, convertito nella Legge n. 100 del 2012, che, nello stesso tempo, riconduce le attività di protezione civile al nucleo originario (e, si potrebbe dire, naturale) individuato dalla Legge del 1992, e incide su alcuni degli elementi fondamentali del sistema quali la classificazione degli eventi ca- lamitosi; la dichiarazione dello stato di emergenza, con una anticipazione della possibilità della sua dichiarazione (e dunque dell’utilizzo dei poteri extra ordinem) “nell’imminenza” e non solo “al verificarsi” dell’evento calamitoso; le attività di protezione civile, con la previsione, accanto alle attività di “previsione e prevenzione dei rischi” e di “soccorso delle popo- lazioni”, di ogni altra attività necessaria e indifferibile diretta al “contrasto dell’emergenza” e alla “mitigazione del rischio” connessa con gli eventi calamitosi.
È la disciplina del 2012 che esplicita le attività di prevenzione, facendo riferimento espresso alla pianificazione d’emergenza, alla formazione, al- la diffusione delle informazioni tra la popolazione e alla diffusione della conoscenza della protezione civile. Attività di prevenzione che tuttavia si sono rivelate del tutto fallimentari, come emerge dagli eventi estremi che si sono verificati negli ultimi anni, successivi alla modifica legislativa: i terremoti del Centro Italia, quello di Ischia, la valanga che ha colpito Rigopiano. Da questi eventi emerge con chiarezza la scarsa attenzione ai fattori, interni ed esterni, di rischio ed alla pianificazione di interventi che siano in grado di intercettare non solo gli eventi probabili, ma anche quelli eccezionali (“le fattispecie insolite”). Basti, a tal proposito, esaminare gli strumenti programmatori che, nella legislazione che si è appena esaminata, dovrebbero essere preposti alla gestione del rischio con finalità precauzio- nali e preventive, quali, ad esempio, i Programmi di previsione e di pre- venzione dei rischi ed i piani di emergenza. Per quanto riguarda i primi, non c’è dubbio che essi offrano una mappatura del territorio che, tuttavia, ha un valore prettamente descrittivo, limitandosi a individuare gli eventuali rischi sulla base sia della ricognizione degli eventi calamitosi eventual- mente verificatisi, sia sulla base delle caratteristiche stesse del territorio: l’assenza del carattere prescrittivo, infatti, fa sì che venga meno la funzione precauzionale e preventiva che deve esse propria della pianificazione del rischio. Le medesime considerazioni valgono per i piani di emergenza. Es- si, come è noto, si articolano in tre parti fondamentali: una parte generale, che raccoglie tutte le informazioni sulle caratteristiche e sulla struttura del territorio; una parte in cui vengono stabiliti gli obiettivi da raggiungere per dare un’adeguata risposta di protezione civile ad una qualsiasi situazione d’emergenza, e le competenze dei vari operatori; un modello di intervento
che assegna le responsabilità di comando e di controllo e prevede l’utilizzo razionale delle risorse, definendo altresì un sistema di comunicazione. Si tratta di uno strumento che sicuramente contiene in sé una risposta alla situazione di crisi che potrebbe essere definita “di prossimità”, ma che tuttavia non si integra all’interno dell’organizzazione dei soccorsi. Ciò che infatti non può essere rinvenuto nel sistema di protezione civile italiano è il coordinamento tra la programmazione preventiva e precauzionale e la pia- nificazione operativa e che determina l’impossibilità di definire un sistema di gestione del rischio effettivo: i programmi ed i piani non individuano gli strumenti di prevenzione e di precauzione ed, in sostanza, mantengono la caratteristica propria di un sistema focalizzato sul momento successivo al verificarsi dell’evento.