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L’importanza dei luoghi della quotidianità nei conte sti di post-emergenza

di Lina Maria Calandra

12.2. L’importanza dei luoghi della quotidianità nei conte sti di post-emergenza

Quando un terremoto o altro evento, naturale o meno, colpisce un ter- ritorio provocando morte e distruzione, per chi ne subisce le conseguenze risulta immediatamente chiaro come vengano a mancare le condizioni per continuare a condurre la propria vita, per proseguire la narrazione della propria identità personale e collettiva che si realizza(va), in quello specifico territorio, attraverso un flusso più o meno coerente di pensieri e azioni, ap- prendimenti e prassi. E ciò perché vengono a mancare, da subito, i luoghi della quotidianità, quelli cioè che fino ad un momento prima dell’evento davamo per scontati: niente più casa, scuola, ufficio, ospedale… Dove vado

adesso? Cosa faccio adesso? La catastrofe ha questa capacità “geografica”: rende evidente come il dove e il cosa siano indissolubilmente legati. Come ha ormai ampiamente dimostrato A. Berque (2000), esiste una dimensione del reale – e quindi del vissuto dei singoli e dei gruppi sociali – che può essere colta solo interrogando il dove delle cose: indicare dove le cose sono, comporta dire anche che cosa esse sono. Ma c’è di più, perché an- che per sapere chi sono non si può prescindere, come sostiene C. Taylor (1998), dal dove mi situo. Del resto, è a partire dal, e attraverso il dove che si configura il vissuto di ogni individuo e quello di una comunità: è il dove stanno, avvengono, si fanno, si decidono le cose che definisce il chi siamo, il cosa siamo. Inoltre, è il dove delle cose che consente di valutare la loro qualità, il loro valore e la loro pertinenza rispetto ai legami sociali che ca- ratterizzano una comunità.

Quando si produce un disastro, allora, non viene meno il territorio nel suo complesso; nell’immediato – e in certi casi anche per un tempo medio- breve o medio-lungo con ripercussioni sul benessere individuale e sociale –, quelli che vengono meno sono i luoghi della quotidianità, quella cor- nice di riferimento che dà senso all’agire: ci si sente, di colpo, totalmente disorientati. Per ritrovare una direzione, bisognerà fissare nuovi punti di riferimento. È significativo, per esempio, cosa accadeva all’Aquila. A quasi due anni dal sisma del 2009, prima del “Come stai?”, a dare il via alla con- versazione tra persone che magari non si vedevano da un po’, era piuttosto la domanda: “Dove stai adesso?”. A oltre tre anni, poi, il disorientamento delle persone, in un territorio che non riuscivano a riconoscere, si coglieva nella fatica di “darsi appuntamento” da qualche parte: “Dove ci vediamo? Dove prima c’era la pizzeria?”, “La pizzeria? Quale? Perché lì prima c’era una pizzeria? Sarà… Comunque, no, ci vediamo dove adesso c’è la nuova galleria commerciale”.

Ma che cos’è un luogo? Il dibattito è estremamente articolato e com- plesso, e sono secoli che si discute, anche in ambito geografico, su cosa sia il luogo e sul rapporto luogo-territorio (Lindón, 2006). Non è certo questa la sede per ripercorrere le tappe e le evoluzioni di tale dibattito; qui basterà soffermare l’attenzione su alcune considerazioni.

Intanto, il luogo è una configurazione del territorio, o meglio della territorialità, ossia di quella costruzione discorsiva nella quale si esprime il “senso” dell’io e del noi in riferimento a un contesto spazio-temporale definito (Turco, 2010; 2014). In forza di questa costruzione discorsiva, di questo “racconto”, si produce il senso di appartenenza, di identità, di topo- filia (Tuan, 1977) dell’individuo e della comunità; il senso del mio/nostro stare al Mondo in quello specifico “pezzettino” rappresentato dal mio/ nostro territorio. La territorialità, come ci ricorda C. Raffestin, “ha il me-

rito di mostrare come siano le relazioni a fare gli esseri e le cose […]. La territorialità, in quanto sistema di relazioni, è anche un sistema osmotico di flussi di ogni sorta tra ambiente fisico – esteriorità – e ambiente sociale, altro rispetto al primo” (2013, p. 114). Il luogo, allora, in quanto confi- gurazione della territorialità, è quella porzione di territorio che, fruita e appresa dal singolo, nella sua dimensione individuale e collettiva, dà modo all’individuo di imparare, esprimersi, realizzarsi relazionandosi agli altri e alle cose (Berdoulay, 1997, 2000; Berdoulay, Entrikin, 1998). I luoghi della quotidianità, nel loro complesso, definiscono la cornice di riferimento en- tro la quale la soggettività del singolo individuo si specifica e si costruisce spazialmente rendendo manifesta, nonché alimentando, la cultura – intesa come dispositivo di valori, idee, credenze, usanze, pratiche, ecc. – della comunità di appartenenza.

A seconda dalle caratteristiche – di localizzazione, distribuzione, con- nettività, funzione, simbolizzazione – che i luoghi della quotidianità assu- mono nel tempo, si hanno ripercussioni, più o meno positive o più o meno negative, sul benessere psico-fisico delle persone; sulle possibilità di rea- lizzazione personale dell’individuo come essere umano e come cittadino; sull’ancoraggio dei singoli al contesto spazio-relazionale e alla vita sociale in generale. Dalla qualità dei luoghi dipende lo sviluppo o meno del sen- so di appartenenza a una comunità, a un territorio; del senso di coesione simbolica, materiale e organizzativa del territorio e dunque dell’identità di una comunità; della relazionalità sociale nel presente, che da una parte supporta la memoria e dall’altra rende possibile una progettualità orientata al futuro.

Insomma, dalla qualità che i luoghi della quotidianità assumono nel tempo dipende la cultura dell’abitare. Per questo, specialmente in situazio- ne di emergenza e post-emergenza – ossia quando si pongono le basi per il futuro – non tener conto della dimensione territoriale della nostra esistenza ed in particolare dei luoghi della quotidianità, rappresenta un grave errore, per il presente delle persone ma soprattutto per il futuro delle comunità. E per questo, è importante riconoscere, anche nella pratica educativa, centra- lità al territorio, ai luoghi (Calandra, 2016a).

Torniamo all’esempio dell’Aquila: a quale cultura dell’abitare si sono poste / si stanno ponendo le basi nel post terremoto? Come già ampia- mento illustrato altrove (Calandra, 2012; Calandra, 2015a; Castellani, Palma, Calandra, 2016), dopo il sisma il territorio aquilano subisce, da una parte, una profonda disarticolazione degli assetti urbani precedenti per effetto, ovviamente, della distruzione materiale, ma anche di alcune scelte (o non scelte) emergenziali; e dall’altra, una ri-articolazione dell’a- bitato che, soprattutto con la realizzazione dei 19 siti CASE e con la ri-

localizzazione, per lo più casuale e caotica, di uffici e servizi, ha subito uno “strappo” producendo un allungamento della città su un asse di circa 30 chilometri di lunghezza (Palma, 2012). Da una geografia più o meno circolare facente perno sul centro storico, si passa ad una geografia line- are che si dispiega soprattutto lungo gli assi stradali principali, la statale 17 e la statale 80. Alla fratturazione del tessuto abitativo, si accompa- gna l’accelerazione delle dinamiche di dispersione e atomizzazione della popolazione. In questo quadro, la mobilità si rivela da subito un grande problema: le accresciute distanze non riescono ad essere coperte dai mezzi pubblici; l’opzione “automobile” diventa una scelta obbligata per la stragrande maggioranza delle persone anche perché “ormai all’Aquila non si va più da nessuna parte a piedi”; la viabilità è stravolta sia in termini di percorsi che di flussi; i tempi di percorrenza si moltiplicano di 2, 3, 4 volte rispetto al pre-sisma.

Ora, i disegni di alcuni bambini e ragazzi aquilani, ai quali nel 2013 è stato chiesto di rappresentare i luoghi della città che conoscono e frequen- tano (Palma, 2016; Calandra, Palma, 2017), sono in tal senso eloquenti (fig. 1). In tutti i disegni – sia dei bambini di scuola primaria che dei pre-ado- lescenti della secondaria di primo grado – emerge, quasi con ossessività, il sistema viario. Anche se in maniera opprimente, la presenza del sistema viario, tuttavia, rivela come tutto sommato nel 2013 persista ancora una certa percezione di coerenza, di connettività tra i luoghi; persista l’idea di territorio come tessuto.

Secondaria di 1° grado (classe II) - 2013

Fig. 1 - I luoghi della quotidianità: rappresentazioni dei bambini e dei pre-adolescen- ti nel 2013

Cosa succede quattro anni dopo, cioè ad otto anni dal sisma? In diversi disegni realizzati nel 2017 da pre-adolescenti (fig. 2), il sistema viario spari- sce. Il territorio ora si presenta come un “foglio bianco” su cui si distribui-

scono solo “punti”: isolati, sconnessi, tutti uguali… È il “trionfo della ragio- ne cartografica”, direbbe F. Farinelli (2007, 2009), quella che ha la pretesa di rendere tutti i luoghi della Terra dei semplici punti dello spazio – astratto, geometrico, uniforme – tra loro equivalenti. Quella stessa ragione che, sem- pre secondo Farinelli, è costitutiva della “modernità” ma anche, oggi, della sua crisi. Non ci sono più luoghi, ma mere località, pure localizzazioni; e tra un punto e l’altro, il nulla. Ma proprio in questo scenario, un elemento natu- rale forte fa la sua comparsa in più di un disegno: è la montagna, elemento che si penserebbe alieno alla città. Il Gran Sasso è lì, si palesa, quasi come un monito. Forse, se recuperassimo la capacità di ascoltare le montagne, il “grande sasso” ci direbbe di smettere di girare a vuoto e ci suggerirebbe di ricominciare da ciò che c’è di inalienabile e insostituibile: le pietre, la terra.

Secondaria di 1° grado (classe II) - 2017

Fig. 2 - I luoghi della quotidianità: rappresentazioni dei pre-adolescenti nel 2017

Ecco, diciamolo con chiarezza: quando i luoghi, per le ragioni più sva- riate – cattiva gestione di situazioni post-disastro, mancanza di politiche di governo del territorio, crisi economica, globalizzazione, ecc. – assumono nel tempo caratteristiche tali per cui le pratiche quotidiane non si orientano più alla relazionalità sociale e non permettono più di sviluppare un senso di coesione e coerenza del tessuto territoriale nel suo complesso, si finisce per costruire una cultura dell’abitare che alimenta se stessa nella dispersione sociale e nella frammentazione. Il territorio non sparisce, ma certamente si indebolisce, perché perdono di densità, profondità, complessità i luoghi del

vivere e con essi anche le comunità si sfibrano e si diventa tutti più fragili, tristi, insicuri; un semplice aggregato di individui che fa fatica, perché ormai “separato” dal suo territorio, a raccontare e immaginare il senso del suo stare al Mondo, la sua territorialità. Il discorso, in realtà, sarebbe molto più generale, ma qui possiamo solo accennarlo riportando le parole di C. Raf- festin in riferimento, per esempio, alla città: “La più grande trasformazione della città non è stata realizzata nella morfologia e nelle dimensioni, ma nei rapporti della gente con la città e nei diritti della gente nella e sulla città. La modernità ha fatto esplodere la territorialità, ragion per cui oggi è necessario ritrovare e ricreare nuove relazioni all’interno della città” (2013, p. 115).

Ancora nel 2013, cioè ad oltre quattro anni dal sisma, abbiamo chiesto, ma questa volta agli adulti, quali aggettivi descrivessero meglio il territorio aquilano, e quali aggettivi lo potrebbero descrivere tra vent’anni. Il risultato è preoccupante (figura 3): ad un presente fatto di abbandono, dispersione, tri- stezza, desolazione, caos, ecc., per una grossa fetta di aquilani, non fa da con- trappunto un futuro possibile. Per i più, il territorio sarà “ricostruito”, certo, e si spera “migliore” e “migliorato”, ma in tanti, troppi, non riescono ad imma- ginare il futuro e rispondono: “Non so”. Perché questa difficoltà a sentirsi im- plicati nel futuro del proprio territorio? Perché mancano, di nuovo, le parole?

Le ragioni potrebbero essere tante e la riflessione richiederebbe di esse- re approfondita. Ma il punto su cui preme soffermare l’attenzione qui è il seguente: il territorio, per come si configura nei luoghi dell’abitare e della quotidianità, svolge, tra le altre, anche una funzione formativa ed educativa della quale spesso non si ha consapevolezza. Se vivo in un quartiere isola- to, non curato, poco illuminato, posso aspettarmi che i sentimenti preva- lenti in chi vi risiede siano quelli di paura, diffidenza, solitudine ma anche rabbia, frustrazione, risentimento; e posso aspettarmi che si manifestino, più che altrove, comportamenti lesivi della propria persona (uso di droghe, abuso di alcol) e degli altri (atti di violenza), oltre che di disprezzo per la cosa pubblica (atti di vandalismo) (Calandra, 2016b). Non che si possa sta- bilire un nesso assolutamente diretto di causalità, ma, appunto, non si può non tener conto del fatto che il territorio forma ed educa le persone: se il posto in cui vivo è brutto, desolato, abbandonato, è più facile che impari il disinteresse, la disaffezione, l’indifferenza e persino il rifiuto; è più fa- cile che si manifestino patologie dell’abitare: atopia, topofobia… (Lindón, 2005a; 2005b; Turco, 2000). Inoltre, c’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione. Se nella quotidianità i margini di libertà e di scelta su dove andare a fare una passeggiata, dove incontrare gli amici, dove portare a giocare i bambini, dove andare a fare la spesa, si riducono o addirittura si annullano è chiaro che anche i diritti nel e sul territorio si riducono e le comunità finiscono per abdicare al diritto/dovere di esprimersi sul governo del proprio contesto di vita, perdendo anche la capacità di immaginare e sperare in una sua evoluzione, in pratica, in un mio/nostro cambiamento.

Quali aggettivi, secondo te, descrivono meglio il territorio aquilano oggi (2013)?

Quali aggettivi, secondo te, descriveranno il territorio aquilano tra vent’anni?

Fig. 3 - Il territorio aquilano oggi e tra vent’anni nella percezione delle persone (2013)

In questo si ravvisa una grande responsabilità della politica e delle am- ministrazioni: bisogna aver cura dei luoghi, non solo e non tanto nella loro dimensione materiale, ma soprattutto in quella della relazionalità sociale. Bisogna operare, sempre e a maggior ragione in contesti di post-emergen- za, perché non si perda il senso della bellezza del proprio territorio, dei propri luoghi di vita. Quella bellezza che prende corpo nel momento in cui al luogo in cui viviamo riconosciamo la capacità di farci sentire bene dove stiamo, felici, sicuri, realizzati. Quella bellezza che ognuno di noi è

capace di coltivare, se le condizioni generali lo permettono e non spingono in un’altra direzione, e che anche nel dolore permane e può rappresentare il punto dal quale ripartire (fig. 4). Ma come fare? Cosa fare?

Fig. 4 - Amatrice dopo il sisma del 24 agosto 2016: le rappresentazioni degli studen- ti del Liceo scientifico alla ripresa dell’anno scolastico (Progetto accoglienza, Velino for Children)

12.3. La responsabilità della ricerca: ricostruire il futuro

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