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La relazione d’aiuto come risorsa “antisismica” nei contesti emergenzial

di Carla Iorio

9.2. La relazione d’aiuto come risorsa “antisismica” nei contesti emergenzial

«In principio è la relazione». M. Buber

Per Martin Buber (1959) è dalla relazione che nasce il senso delle cose, anche nelle situazioni tragiche, è sul tra-noi che poggia la comprensione del mondo, di noi stessi e degli altri, è in quel tra, in quello spazio intersti- ziale che si ricostruiscono i significati, si dona un senso alle cose e le frat- ture diventano passaggi di luce verso un nuovo cammino. L’essere umano si comprende e si realizza come essere in relazione, nell’incontro-dialogo Io-Tu dove la narrazione diventa un valido strumento per nutrire il senso di identità.

Carl Rogers (1970, p. 68) definisce la relazione d’aiuto come «una re- lazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato».

La specificità che la distingue dalle altre relazioni umane è il suo aspetto metacognitivo, dove per competenza d’aiuto si intende la capacità di dare vita ad una relazione umana in modo consapevole, controllato ed intenzionale, padroneggiandone consapevolmente le abilità, la competenza linguistica, comunicativa e la conoscenza degli aspetti pragmatici.

Un’efficace relazione d’aiuto è un valido sostegno in situazioni di cala- mità per ristabilire il funzionamento psicologico e sociale delle persone e della comunità, riducendo la gravità degli effetti negativi e l’insorgenza di problematiche di salute mentale correlate all’evento traumatico.

L’interesse delle scienze umane per i contesti emergenziali è stato sol- lecitato dalla convinzione che un intervento efficace in un contesto cata- strofico non può prescindere dal considerare la persona come una globalità da riattivare all’interno di una comunità. Da qui la necessità di aderire ad un approccio di intervento integrato e multidisciplinare di tipo psico-socio- educativo che si interessi non solo alle peculiarità dell’individuo, ma anche alle risorse e alle criticità del gruppo e della comunità colpita dal disastro, puntando a riattivare la personalità resiliente.

La resilienza diventa l’essenza per descrivere la capacità di tutti i mem- bri di una comunità di reagire all’evento stressante e uscire dal momento di crisi, per riprendere a vivere invece di sopravvivere, attraverso strategie creative ed uno spirito proattivo. Come afferma un principio buddista, la resilienza aiuta a «trasformare il veleno in medicina» (Vaccarelli, 2016).

La comunità intesa come fatto relazionale, dove le relazioni si fondano su una fiducia reciproca, su tradizioni, su un sentire comune di appartenen- za, dove i membri sentono di essere importanti gli uni per gli altri, lontano dalle relazioni di una società basata solo su un fatto contrattuale, tempora- neo e freddo. Il senso di comunità ovvero «la percezione soggettiva della qualità delle relazioni all’interno di un contesto ben definito (…) la fiducia reciproca che i bisogni siano soddisfatti e l’accesso alle risorse consentito» (McMillan, Chavis, 1986, pp. 6-23) gioca un ruolo cruciale nella possibilità di una comunità di “resilire” e rimbalzare all’urto di un evento traumatico.

L’operatore psico-sociale nei contesti emergenziali opera con le persone nel loro ambiente sociale, in luoghi affollati e caotici, privi di privacy, dove le vittime non sempre sono consapevoli di ciò di cui hanno bisogno, per cui dovrà farsi avanti e rendersi disponibile a qualsiasi necessità andando anche al di là delle proprie competenze strettamente professionali. Da qui l’esigenza di una formazione integrata ed eclettica per lavorare nei contesti emergenziali, di un lavoro d’équipe dove le varie professioni possano inter-

facciarsi e creare rete, al fine di consentire un aiuto immediato e consape- vole già a partire dai primi interventi.

«È così facile curarsi degli altri per ciò che io penso che siano, o vor- rei che fossero, o sento che dovrebbero essere. Curarsi di una persona per quello che è, lasciando cadere le mie aspettative di ciò che essa dovrebbe essere per me, lasciando cadere il desiderio di modificare questa persona in armonia con le mie esigenze, è la via più difficile, ma anche la più ma- turante, verso una relazione intima più soddisfacente» (Carl Rogers, 1986, p. 173).

Rispettare le esigenze, i bisogni e i tempi di reazione ed elaborazione del vissuto dei superstiti e della comunità ferita è essenziale per un modus operandi efficace ed efficiente. Non esiste un modo univoco per reagire ad un evento catastrofico, né una strategia migliore, sono semplicemente nor- mali reazioni ad eventi che normali non sono.

“Non sono io, io non reagisco così, non mi era mai accaduto”, la per- sona è costretta a confrontarsi con delle reazioni in parte nuove, sicura- mente più intense rispetto a qualsiasi situazione conosciuta in precedenza. Riconoscere la normalità delle nostre reazioni, anche confrontandoci per scoprire che non siamo i soli, ci permette di accettarle, e di non viverle come qualcosa di estraneo e totalmente sconvolgente. Importante è lasciare a casa le nostre aspettative di salvezza come operatori e lasciare libero il superstite di viversi le proprie emozioni e reazioni come meglio riesce a fare in quel momento.

Tra le caratteristiche e i comportamenti che gli operatori dovrebbe ave- re per offrire un buon supporto in situazioni di calamità abbiamo:

1. inclinazione personale all’avventura; 2. socievolezza;

3. calma;

4. fornire un aiuto senza patologizzare, bensì offrire empatia, accettazione positiva incondizionate e congruenza;

5. essere disposti ad accettare incarichi con breve preavviso;

6. alta tolleranza a situazioni di lavoro difficili (turni lunghi, sistemazioni scadenti e servizi ridotti all’essenziale, situazioni disorganizzate o insi- cure, rapidi mutamenti);

7. capacità di stabilire un rapporto con persone di varie età, etnie e condi- zioni sociali, economiche e di istruzione;

8. formazione ed esperienza in situazioni di emergenza; 9. “scaltrezza” organizzativa e sensibilità politica;

10. capacità di tenere incontri di vario tipo di fronte a gruppi di superstiti, soccorritori e gruppi della comunità.

11. durante il lavoro sul campo l’operatore deve evitare atteggiamenti giudi- canti e critici, senza entrare nel merito di un trattamento volto a curare

eventuali traumi. Piuttosto, laddove lo ritiene necessario, accompagnare la persona verso cure specialistiche presso i servizi territoriali. È parti- colarmente importante infatti la conoscenza e l’applicazione dei principi comunicativi (comunicazione verbale, non verbale e paraverbale) e delle abilità relazionali (ascolto attivo, empatia, autoconsapevolezza, con- gruenza, autenticità).

Il supporto psico-sociale in emergenza deve tenere presente tre livelli di intervento:

1. emotivo: favorisce il senso di normalità delle reazioni, la rassicurazione, l’incoraggiamento e la fiducia in un momento di crisi;

2. pratico: fornisce risorse materiali e aiuto pratico in un momento dove l’individuo non è in grado di far fronte ai bisogni;

3. cognitivo: informazioni, suggerimenti e consigli su come affrontare la situazione in un momento di transizione dove le certezze individuali so- no mutate.

Il principio base nelle relazioni d’aiuto anche nei contesti emergenziali è rappresentato dalla tendenza attualizzante di cui ci parla Rogers (1970), la motivazione di base che spinge l’organismo, quindi ogni individuo, a provvedere a se stesso, verso uno sviluppo in direzione dell’autonomia. Il fine sta nell’aiutare l’individuo a crescere, per poter affrontare in maniera integrale e costruttiva sia il problema del momento, sia quelli che incontre- rà in seguito. Il focus della relazione è sul presente, sul qui ed ora, piutto- sto che su un passato oramai distrutto o su un futuro privo di speranza, l’e- sperienza cruciale è la relazione stessa come sostegno per rialzarsi e fonte di nutrimento per la nuova identità da ricostruire.

La relazione d’aiuto in emergenza necessita di una lettura contestuale e individuale del quando, dove e con chi hanno luogo gli interventi:

Quando:

– fase di prima emergenza (il periodo acuto, immediatamente successivo); – prima fase successiva dell’impatto (di transizione, dal giorno dopo

all’8a-12a settimana);

– fase di ristabilimento (a lungo termine, dall’8a-12a settimana in poi).

Dove:

– sul luogo: dove hanno appena colpito distruzione e devastazione; – lontano dal luogo: dove si radunano i superstiti.

Chi:

– superstiti bambini/superstiti adulti/superstiti anziani; – soccorritori;

– comunità; – organizzazioni.

Tra gli obiettivi generali di un buon intervento è opportuno considerare la temporalità dei seguenti step operativi:

1. contenere il maggior numero di crisi;

2. evitare un possibile aggravamento delle problematiche;

3. condurre l’individuo nella ripresa di un contatto autonomo con il suo ambiente.

Il primo passo nella fase acuta di prima emergenza è quello di stabilire un rapporto di collaborazione, fiducia ed empatia e far prevalere un ascolto attivo, ponendo l’attenzione sia all’individuo sia al contesto sociale, acco- gliendo l’altro con il proprio modo di reagire all’evento traumatico, crean- do uno spazio in cui è possibile portare sensibilità e vulnerabilità, in cui ritrovare i propri valori e anche un nuovo progetto di vita.

«Avere un alto livello di resilienza non significa essere insensibili al do- lore e allo stress, significa attraversarli e trovare gli strumenti per uscirne sostanzialmente rinnovati» (Vaccarelli, 2016, p. 29). Raccontandoci all’al- tro, entrando in relazione, scopriamo che, accanto all’emozione dolorosa, possono esserci il conforto, la tenerezza, l’empatia o la comprensione. La narrazione aiuta ad integrare la realtà vissuta attribuendo all’evento un si- gnificato e un senso tale da permettere al soggetto di archiviarlo nel tempo come evento del passato.

In questa fase di primo soccorso emotivo è opportuno orientare, dare informazioni chiare sugli eventi, accompagnare le vittime nella soddisfa- zione dei bisogni di prima necessità (cure mediche, cibo, acqua, ricongiun- gimento familiari) e fornire informazioni chiare sulla gestione dello stress. Il Defusing e il De-briefing sono le due tecniche di gestione dello stress più utilizzate:

– Defusing (dall’inglese defuse, disinnescare) è una tecnica a “caldo” da attivare subito dopo l’evento, consiste in un breve colloquio di gruppo, condotto da operatori del primo soccorso, con l’obiettivo di cercare di iniziare a rielaborare brevemente e collettivamente il significato dell’e- vento, ed a ridurre l’impatto di un avvenimento potenzialmente trau- matico. È una forma di prevenzione primaria, una breve fase informale di “decompressione emotiva” tra pari. I suoi obiettivi principali sono il raggiungimento di un livello d’informazione uniforme attorno all’in- tervento, permettendo di costruire una prospettiva coerente e realistica dell’avvenimento, comprendendo meglio le reazioni, le emozioni e le esperienze vissute da ognuno dei partecipanti.

– De-briefing (24-96 ore successive all’evento) è un intervento più strut- turato che appartiene al protocollo del Critical Incident Stress Manage-

ment (CISM), permette di ridurre le possibili conseguenze negative di un avvenimento traumatico a livello psichico, come per esempio l’insorgere della sindrome da stress post-traumatico ed altre sindromi collegate.

Passata la fase acuta e di prima emergenza, entra la fase di transizione (fino all’8a-12a settimana) nella quale i bisogni delle persone colpite posso-

no iniziare a diminuire o emergerne dei nuovi dallo sfondo.

È opportuno stimolare la persona ad avere iniziativa per renderla attiva- mente protagonista delle proprie decisioni stimolando il senso di empower-

ment, fornendo delle informazioni affinché possa divenire maggiormente consapevole della sua esperienza a livello cognitivo (al modo in cui i pen- sieri possono essere tradotti tramite la narrazione), emotivo (il mondo degli affetti: rabbia, tristezza, paura, gioia, disgusto, vergogna) e corporeo (quel- lo delle sensazioni fisiche: caldo, freddo, tensione o rilassamento). Si passa così per un processo di adattamento creativo, dal cercare la soluzione al problema, allo sviluppo di competenze personali e di comunità, consenten- do alla psiche umana di trasformare l’esperienza traumatica e andare oltre con un bagaglio emotivo arricchito.

Trascorso un tempo di tre settimane entriamo nella fase a lungo termi-

ne (dall’8a-12a settimana in poi) dove la finalità dell’intervento sarà più di

tipo didattico ed esplorativo tramite l’organizzazione di momenti formati- vi psico-educativi al fine di aumentare la consapevolezza biopsicosociale dell’evento e potenziare le risorse della popolazione colpita.

Dopo circa sei mesi inizieranno ad essere utilizzati protocolli di asses-

sment e trattamento per la sintomatologia del disturbo post-traumatico da

stress (Young et al., 2002) qualora ce ne fosse la necessità.

Tra le linee guida che l’operatore della relazione d’aiuto deve tener pre- sente nel suo intervento di sostegno a lungo termine alle vittime abbiamo: – Ristabilire al più presto la routine giornaliera, tornando ad un ritmo di

attività normale, perché rientrare negli schemi aiuta a ritornare nella normalità e a riappropriarsi di un senso di controllo, venuto meno a seguito di un evento improvviso.

– Seguire una buona igiene di vita: avere una corretta alimentazione, pianificare tempo sufficiente per dormire e riposare; infatti il benessere fisico porta ad avere più forza ed energia per superare difficoltà e pro- blemi.

– Stringere e rafforzare le relazioni con le persone vicine, mantenere vivi i contatti per evitare il subentrare della solitudine e dell’isolamento so- ciale.

– Non smettere di lavorare, essere attivi, non restare isolati, non avere passatempi esclusivamente passivi e statici (lettura, ascoltare musica, guardare la tv, ecc.) in quanto permettono di avere tempo per concen- trarsi sul vissuto traumatico.

– Non assumere alcool, psicofarmaci (a meno che non si stia seguendo una terapia medica), droghe, perché le sostanze dissociative allontanano da se stessi, non permettono di elaborare la situazione.

– Non evitare di parlare dell’accaduto, è infatti importante saper cogliere ogni occasione per analizzare l’esperienza con altre persone, ad esem- pio con un gruppo motivato all’auto-aiuto.

– Accettare che i ricordi richiedono una lunga rielaborazione ed ancor più le sensazioni ad essi associate.

– Esprimere le proprie esigenze e desideri alla famiglia, ai parenti, agli amici e agli operatori.

– Permettere ai propri figli di esprimere i sentimenti verbalmente oppure attraverso giochi e disegni.

– Fare in modo che i bambini riprendano le normali attività.

Mantenere alto l’interesse alla comunità nella fase di ristabilizzazione è la sfida futura degli interventi di relazione d’aiuto emergenziali. Occorre conservare l’attenzione sulle realtà ferite non solo accogliendo le persone, ma accompagnandole a lungo termine con l’abilità di rendersi sfondo e non più figura in uno scenario in ricostruzione, mantenendo il monitoraggio e la presenza costante al bisogno. Come una sorta di genitore che osserva il bambino piccolo alle prime esplorazioni e costantemente lo segue senza anticiparlo, bensì rispettando il suo tempo di crescita verso un’autonomia stabile e duratura.

Nel lungo processo di ricostruzione non solo materiale, ma anche co- munitario e intrapsichico, la presenza di un lavoro d’équipe integrato e multidisciplinare è necessario, dove psicologi, pedagogisti, counselor, inse- gnanti, personale sanitario, volontari e chiunque operi sul campo, si incon- trino sulle differenze, anziché fare in modo che le differenze si incontrino. Rispettosa-mente insieme, per la creazione di relazioni “antisismiche”, che vanno al di là di ogni tempo e luogo, nutrite da emozioni intense vissute giorno dopo giorno insieme. Quella flessibilità di spostarsi dalla propria zona comfort per incontrare l’inaspettato in un settore, come l’emergenza, dove tutto non è prevedibile.

Il passaggio dal disagio al benessere è accettare di intraprendere la strada del cambiamento, fatta di ostacoli e difficoltà e, nello stesso tempo, di vie alternative da percorrere quando è necessario correggere la rotta. Gli individui sono responsabili della propria salute e possono decidere di migliorare la qualità della loro vita ed il benessere soggettivo, non solo di mantenerlo (Frisch, 2001).

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