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Parte II. Oggetto del lavoro: titoli energetici e quote di emissione di gas serra

Capitolo 3. Quote di emissione di gas serra (emissions trading)

3.1. Normativa internazionale

3.1.3. COP successive e Accordo di Parigi sul clima

L’architettura elaborata con il Protocollo di Kyoto ha trovato ulteriore definizione nelle

Conferenze delle Parti ad esso successive (

362

). Cercando di limitarsi alle modifiche introdotte con

riferimento ai meccanismi flessibili, si nota come la policy climatica internazionale abbia perseguito

dal 2005 in avanti una duplice obiettivo: modificare le previsioni contenute nel Protocollo in vista

del secondo commitment period (2013-2020); concludere un nuovo accordo di lungo termine per

mantenere la temperatura globale media sotto la soglia dei 2° entro la fine del XXI secolo (

363

). In

questo senso, tre sono i passaggi chiave da menzionare: il Doha Amendment to the Kyoto Protocol

(360) Ciononostante, gli stessi fondamentali Accordi di Marrakech riaffermano perentoriamente il carattere della supplementarietà dei meccanismi flessibili, negando che si possa parlare, con riferimento alle c.d. quote Kyoto, di “diritti ad inquinare o ad emettere”. Sul punto, anche per un efficace sunto del sistema normativo composto dal Protocollo e dagli Accordi di Marrakech cfr. il report del Climate Change Secretariat, A guide to the Climate Change

Convention and its Kyoto Protocol, 2002, disponibile online all’indirizzo https://library.conservation.org/Published%20Documents/2002/Guide%20to%20Climate%20Change%20Convention.p df (disponibile il 4 agosto 2016). Come si vedrà meglio più avanti, l’Unione Europea ha posto in essere un vero e proprio collegamento diretto fra i tre mercati mediante la c.d. Linking Directive (dir. n. 2004/101/Ce), che ha per l’appunto “collegato” il mercato regionale di quote di emissione con quello globale di crediti di carbonio. Sulla questione si tornerà più approfonditamente infra, 3.2.2.

(361) Con il termine carbon contracts ci si riferisce in particolare a tutti quei rapporti giuridici di tipo patrimoniale conclusi al fine di sviluppare progetti e scambiare crediti nell’ambito dei meccanismi CDM e JI. Sul punto si rimanda all’esauriente trattazione di M. WILDER – M. WILLIS – M. GULI, Carbon Contracts, Structuring Transactions:

Practical Experiences, in D. FREESTONE – C. STRECK, Legal Aspects of Implementing the Kyoto Protocol Mechanisms: Making Kyoto Work, cit., 295-311 e alla successiva elaborazione di M. WILDER – L. FITZ-GERALD,

Carbon Contracting, in D. FREESTONE – C. STRECK, Legal Aspects of Carbon Trading: Kyoto, Copenhagen and

beyond, cit., 295-310. Quando si parla di climate finance, invece, si va a tangere il complesso fenomeno del finanziamento all’implementazione di progetti innovativi e di carbon markets, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo; tema, questo, che è decisamente ampio e impossibile da trattare in questa sede. Si rimanda pertanto in via introduttiva ai contributi di R.B. STEWART ed al., Climate Finance: Regulatory and Funding Strategies for Climate Change and

Global Development, New York University Press, 2009 e R.B. STEWART – B. KINGSBURY – B. RUDYK, Climate Finance: Key Concepts and Ways Forward, Harvard Project on International Climate Change Agreements,

Viewpoints, 2009.

(362) Il termine “architettura” richiama la definizione data da F. BIERMANN et al., The Fragmentation of Global

Governance Architectures: A Framework for Analysis, in Global Environmental Policy, 2009, n. 9, 14-15, ossia un

sistema di istituzioni pubbliche e private valido o attivo in una certa area delle politiche globali, comprensivo di organizzazioni, regimi e altre forme di principi, norme, regole e procedure decisionali.

(363) Agli obiettivi citati si ricollega la costituzione di due appositi gruppi di lavoro in sede di prima revisione del Protocollo alla COP 11 di Marrakech (2005). Da una parte, infatti, venne costituito un Working Group ad Hoc (AWG-KP) al fine di elaborare nuovi impegni per i Paesi sviluppati nell’ambito del secondo commitment period del Protocollo di Kyoto (v. Decision 1/CMP.1, Consideration of Commitments for Subsequent Periods for Parties Included in Annex I

to the Convention under Article 3, Paragraph 9 of the Kyoto Protocol, FCCC/KP/CMP/2005/8/Add. 1); dall’altra,

venne creato una sorta di think tank, denominato “Dialogue on long-term cooperative action”, nell’ottica di addivenire a un accordo di lungo periodo tra tutte le Parti della Convenzione (v. Decision 1/CP 11, Dialogue on Long-Term

Cooperative Action to Address Climate Change by Enhancing the Implementation of the Convention,

FCCC/CP/2005/Add. 1. Il “Dialogue” si riunì in quattro workshops e terminò il suo lavoro nel 2007 con l’elaborazione del Bali Action Plan (Decision 1/CP.13, FCCC/CP/2007/6/Add. 1), il quale gettò le basi per l’accordo di Copenhagen concluso due anni dopo.

(2012); l’Accordo di Copenhagen (2009) e il successivo percorso di definizione circa un nuovo

strumento di diritto internazionale sul tema; il fondamentale Accordo di Parigi (2015), che ha

completamente rivisto le aspettative per la politica climatica globale, superando l’approccio adottato

con il sistema Kyoto (

364

).

Una volta constatata l’inefficacia del Protocollo di Kyoto con riguardo alla copertura delle

emissioni – neanche un quarto di quelle globali, vista l’esclusione di Paesi come Cina e India e la

mancata ratifica da parte degli Stati Uniti – e agli obiettivi previsti, si diede luogo a un percorso di

rivisitazione degli impegni previsti per i Paesi sviluppati, i cui risultati culminarono nella COP 18

tenutasi a Doha nel 2012 (

365

). Riassumendo per sommi capi le modifiche apportate al Protocollo,

esse si sostanziano in:

- nuovi targets per i Paesi ex All. 1 al Protocollo in termini di riduzione delle

emissioni, equivalenti al 18% in meno rispetto ai livelli registrati nel 1990 (

366

);

- estensione della lista di gas serra oggetto di monitoraggio da parte dei Paesi

contraenti e dei meccanismi flessibili (

367

);

Le novità introdotte, tuttavia, godettero di scarsissimo consenso: la decisione da parte di

Giappone e Canada di non ratificare gli accordi di Doha minarono fin dall’origine la nuova

impostazione, tradendo l’ormai diffusa volontà fra gli Stati contraenti di superare il sistema Kyoto,

affidandosi a un meccanismo di tutt’altra natura (

368

).

Parallelamente, infatti, era in atto un sofisticato procedimento di cooperazione per addivenire

a un nuovo patto vincolante sul clima. Le basi politiche furono gettate all’esito della COP 15 di

Copenhagen (2009), foriera bensì di un accordo meramente politico, importante poiché finì per

coinvolgere tutti i Paesi membri dell’UNFCCC, in particolare gli Stati Uniti, la Cina e l’India e

andò a riflettere la comune volontà di seguire un approccio più flessibile e informato alle risultanze

scientifiche raggiunte dall’IPCC (

369

).

(364) Cfr. supra, in premessa, 40-41.

(365) Decisione 1/ CMP.8 (FCCC/KP/CMP/2012/13/Add.1). (366) Cfr. supra, par. prec.

(367) Per l’elenco completo dei gas oggetto di regolazione v. supra, par. prec.

(368) Ad oggi, infatti, solo 66 Paesi hanno depositato il proprio strumento formale di accettazione del Doha Amendment; tra di esse, spicca la mancanza della Russia, oltre a quella già citata di Giappone e Canada.

(369) L’accordo di Copenhagen origina, come di consueto, da un percorso di negoziazioni iniziato con il c.d. Bali Action Plan, istituito in occasione della COP 13 DEL 2007. L’accordo, frutto del lavoro dell’Ad Hoc Working Group on

Long-Term Cooperative Action Under the Convention (AWG-LCA), è stato all’inizio fortemente criticato per il suo carattere

meramente politico e non vincolante (v. per tutti M. DOELLE, The Legacy of Climate Talks in Copenhagen:

Hopenhagen or Brokenhagen?, in CCLR, 2010, n. 1, 86 ss.). Tuttavia, come poi notato da diversi commentatori, a

posteriori le negoziazioni della COP 15 hanno senza dubbio gettato le basi per il raggiungimento dell’accordo vincolante a Parigi nel 2015 (cfr. in questo senso D. BODANSKY, The Copenhagen Climate Change Conference: a

Postmortem, in AJIL, 2010, vol. 104 n. 2, 230-240 e per un commento italiano S. NESPOR, La conferenza di Copenhagen: un accordo fallimentare o la base di un nuovo ordine internazionale per il contenimento del cambiamento climatico?, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2010, 467 ss.).Il testo dell’accordo di Copenhagen, incorporato nella Decisione 2/CP.15 è consultabile al linkhttp://unfccc.int/resource/docs/2009/cop15/eng/11a01.pdf(disponibile il 4 ottobre 2016).

Sulla base dell’Accordo di Copenhagen si è così giunti, dopo sei anni di intense negoziazioni

(

370

), all’Accordo di Parigi sul clima, concluso in extremis nell’ambito della COP 21 (

371

).

Volgendo lo sguardo al contenuto del documento, di per sé particolarmente innovativo e che

necessita ulteriori chiarificazioni da parte delle successive Conferenze delle Parti (

372

), merita

sottolinearne due aspetti, di particolare rilievo per il presente lavoro:

1. il carattere globale, dato dal superamento circa la distinzione fra Paesi sviluppati (ex

All. 1 alla UNFCCC) e non sviluppati;

2. il superamento circa l’imposizione di obblighi e obiettivi in capo ai Paesi, a favore di

contributi unilateralmente predisposti dalle Parti stesse, non necessariamente

vincolanti, ma che devono essere perseguiti mediante politiche nazionali e

internazionali (

373

).

(370) Fra gli accordi conclusi in questo periodo va senza dubbio menzionata la Durban Platform, adottata all’esito della COP 17 (2011), la quale segnò il definitivo superamento del Protocollo di Kyoto e, soprattutto, del principio di responsabilità comune ma differenziata come enucleato nel Berlin Mandate del 1995. Tutti i Paesi aderenti alla Convenzione, pertanto, sono stati invitati a procedere verso la conclusione di un patto vincolante sul clima; patto la cui fisionomia è stata poi delineata nella COP 20 di Lima (2014), ove gli Stati hanno concordato di inviare entro la COP successiva un piano indicativo di riduzione delle emissioni post 2020 (Intended Nationally Determined Contribution- INDC), il quale diverrà a sua volta definitivo con l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi (Decisione 1/CP.20, Lima

Call for Climate Action, al link http://unfccc.int/resource/docs/2014/cop20/eng/10a01.pdf#page=2 (disponibile il 4 ottobre 2016).

(371) Decisione 1/CP.21 (FCCC/CP/2015/10/Add.1). In particolare, il documento si compone di due elementi, che come nota S. NESPOR, La lunga marcia per un accordo globale sul clima: dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi,

cit., 103-104, divergono per obiettivi ed efficacia giuridica: la Decisione della COP di adottare l’Accordo di Parigi

(Decisione); l’Accordo di Parigi (Accordo) - allegato alla Decisione. Solo il secondo infatti detiene efficacia vincolante per le Parti, mentre il primo, pur rappresentando uno strumento giuridico adottato sulla base della Convenzione, non necessita di un procedimento di ratifica. Sul punto v. la chiara distinzione tracciata da J. BRUNEE, COPing with Consent: Law-Making under Multilateral Environmental Agreements, in LJIL, 2002, n. 15, 1. Ad ogni modo, va

sottolineato come molti elementi significativi della Decisione vengono in seguito richiamati nel Preambolo

all’Accordo, che funge quindi da anello di congiunzione tra i due documenti. Per una compiuta analisi circa la struttura

dell’accordo v. M. DOELLE, The Paris Agreement: Historic Breakthrough or High Stakes Experiment?, in Climate

Law, 2016, vol. 6, 1 ss. e A. SAVARESI, The Paris Agreement – A Rejoinder, al link http://www.ejiltalk.org/the-paris-agreement-a-rejoinder/ (disponibile il 30 agosto 2016).

(372) Al riguardo è stato appositamente creato un Ad Hoc Working Group on the Paris Agreement (APA), il quale provvederà a tutti gli adempimenti necessari in vista dell’entrata in vigore dell’Accordo e della prima Conference of the

Parties serving as the meeting of the Parties to the Paris Agreement (CMA). Inoltre, come nota D. BODANSKY, The Legal Character of the Paris Agreement, in RECIEL, 2016, vol. 25, n. 2, 147, diverse previsioni dell’Accordo

conferiscono alla stessa CMA poteri decisionali ad es. in merito alle informazioni da fornire in relazione agli NDC (art. 4, par. 8), sulle modifiche agli stessi NDC (art. 4, par. 11), ecc.

(373) Nonostante il Paris Agreement possa ritenersi tout court un accordo di natura vincolante per gli Stati contraenti dell’UNFCCC, non altrettanto si può dire di numerose singole previsioni in esso racchiuse. In particolare, il tema concernente la vincolatività degli NDC è stato uno dei più dibattuti in sede di negoziazione, con l’Unione Europea schierata per un’enucleazione in termini di obblighi da una parte e gli Stati Uniti a favore di meri contributi (contributions) non vincolanti, affiancati da un’efficace sistema di monitoraggio e trasparenza dall’altra. La scelta operata dall’art. 4, par. 2 dell’Accordo, frutto di una mediazione tra le due posizioni, prevede quindi obblighi di natura procedurale in termini di redazione, comunicazione e aggiornamento periodico degli NDC, ma non vincola le Parti al raggiungimento degli obiettivi ivi indicati. In questo senso dunque, per dirla con le parole di R. BAILEY e S. TOMLINSON, l’Accordo combina una «hard legal shell» con un «soft enforcement mechanism» (R. BAILEY – S. TOMLINSON, Post-Paris: Taking Forward the Global Climate Change Deal, Chatham House Briefing Paper, Londra, The Royal Institute of International Affairs, 2016, 2). Sulla questione si rimanda inoltre all’opera di D. BODANSKY,

Atteso dunque il completo ribaltamento di prospettiva, sorge l’interrogativo sul destino

riservato agli strumenti di mercato, pilastri del precedente sistema delineato dal Protocollo di

Kyoto.

Sotto questo profilo, si può notare come il Paris Agreement si ponga in continuità temporale

rispetto al Protocollo medesimo: gli obblighi ivi previsti cominceranno ad operare infatti solo dal

2020, indipendentemente dal momento di entrata in vigore. Lo stesso accordo, peraltro, invita gli

Stati a ratificare quanto prima il Doha Amendment (

374

): ciò significa quindi che i flexible

mechanisms continueranno a operare fino alla conclusione del secondo commitment period di

Kyoto.

Allo stesso tempo, l’art. 6 dell’Accordo introduce due nuovi meccanismi legati al commercio

di emissioni. In primo luogo, pur non facendo espresso riferimento a market-based instruments, si

prevede l’utilizzo – sebbene su base volontaria – di Internationally Transferred Mitigation

Outcomes (ITMOs), allo scopo di collegare tanto i sistemi di emissions trading nazionali e/o

regionali, quanto le diverse policies climatiche implementate a livello domestico (

375

). In secondo

luogo, entrerà in funzione il Sustainable Development Mechanism (SDM), volto a «contribuire alla

mitigazione delle emissioni di gas ad effetto serra e al contempo promuovere lo sviluppo

sostenibile» (

376

). Esso, come notato dai primi commentatori, unisce in sostanza le funzioni svolte

dal CDM e dal JI, costituendo dunque uno strumento basato non solo sull’elaborazione di specifici

progetti, ma anche di politiche o iniziative – anche congiunte – volte in senso lato alla riduzione

delle emissioni (

377

).

In chiave prospettica si profila quindi il superamento dell’International Emissions Trading,

coordinato e gestito a livello UNFCCC, a favore di un sistema composto da singoli mercati

autonomi, il cui collegamento genererà ad ogni modo unità di scambio utili all’adempimento degli

obiettivi nazionali indicati nell’Accordo di Parigi. Il che, d’altra parte, pone in maggior risalto il

(374) Punto 105, lett. a) della Decisione.

(375) Art. 6, par. 2 dell’Accordo. Cfr. sul punto D. BODANSKY, The Paris Climate Change Agreement: A New Hope?,

cit., 29, in cui gli ITMOs vengono identificati come «il nuovo gergo tecnico per definire l’emissions trading» («the new jargon for emissions trading»); D. BODANSKY – S.A. HOEDL – G.E. METCALF – R.N. STAVINS, Facilitating Linkage of Climate Policies Trough the Paris Outcome, in Climate Policy, 2015, n. 1, 1-17 e ID., Facilitating Linkage of Heterogeneous Regional, National, and Sub-National Climate Policies Through a Future International Agreement, Harvard Project on Climate Agreements, 2014, al link http://belfercenter.ksg.harvard.edu/files/harvard-ieta-linkage-paper-nov-2014.pdf (disponibile il 30 agosto 2016).

(376) Art. 6, par. 4 dell’Accordo.

(377) V. D. BODANSKY, op. loc. ult. cit. e S. NESPOR, op. cit., 113-114.Ad un’analisi delle disposizioni contenute nella Decisione e nell’Accordo in senso stretto, emerge chiaramente come il punto di riferimento adottato per il meccanismo in esame sia l’emissions trading di cui all’art. 17 del Protocollo. Il par. 37 della Decisione infatti, nel demandare alla prima CMA successiva il compito di definire la disciplina del meccanismo, indica tra i parametri a cui ispirarsi «experience gained with and lessons learned from existing mechanisms and approaches adopted under the

Convention and its related legal instruments», inoltre, come nota D. BODANSKY, op. loc. ult. cit., la maggior parte dei

contributi nazionali indicativi (INDC) comunicati dalle Parti fanno espressa menzione circa l’uso di mercati per raggiungere gli obiettivi stabiliti.

problema legato all’eterogeneità degli istituti giuridici adottati nei diversi sistemi presenti sul

mercato e il potenziale ruolo uniformatore giocato dall’EU ETS.

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