Parte II. Oggetto del lavoro: titoli energetici e quote di emissione di gas serra
Capitolo 3. Quote di emissione di gas serra (emissions trading)
3.1. Normativa internazionale
3.1.2. Protocollo di Kyoto e meccanismi flessibili
Gli accordi di Kyoto hanno rappresentato un momento di svolta nell’attività della Comunità
internazionale in tema di lotta al cambiamento climatico (
332).
Concluso al seguito di lunghe e faticose negoziazioni (
333) nel 1997 ed entrato in vigore nel
2005 (
334), l’accordo impone in capo ai Paesi identificati come sviluppati di cui all’All. B al
medesimo targets vincolanti in termini di riduzione delle emissioni, con riferimento al livello
riscontrato nell’anno 1990, da raggiungere in diversi periodi d’obbligo (commitment periods) (
335);
sì da garantire in astratto – sebbene con notevole ritardo – il raggiungimento degli obiettivi
fondamentali incardinati nella Convenzione (
336).
Inoltre, elemento chiave del sistema enucleato dal Protocollo è il superamento della
tradizionale strategia command and control a favore di market based instruments (
337). In questo
senso, si è optato per l’adozione di strumenti quanto più flessibili, adattabili in termini spaziali e
temporali ai diversi contesti economici coinvolti e che garantiscano in astratto la massima
(332) Cfr. M. BOTHE, The Kyoto Protocol as a Pioneer Among the Multilateral Environmental Agreements, in W. DOUMA – L .MASSAI – M. MONTINI, op. cit., 241-246.
(333) L’accordo è stato raggiunto solamente il giorno dopo rispetto a quello prefissato per la conclusione dei negoziati in seno alla COP3 dopo due giorni consecutivi di discussioni. Ben nota è infatti la divergenza d’opinione tra i principali soggetti coinvolti nelle negoziazioni – l’Unione Europea, gli Stati Uniti (che poi, come noto, non ratificheranno il Protocollo) e il G77, l’importante organizzazione intergovernativa che incorpora per lo più Stati in via di sviluppo. I due principali punti di contrasto riguardavano la natura più o meno flessibile dei target quantitativi e temporali in termini riduzione delle emissioni, la mancata inclusione di Paesi come Cina, India e Brasile che, seppure in via di sviluppo, già rappresentavano una fonte cospicua di emissioni a livello globale, nonché la previsione della c.d. EU Kyoto bubble, ossia la possibilità – richiesta a gran voce dalla (all’epoca) Comunità Europea sulla base di quanto previsto dall’art. 4, par. 2, lett. b) dell’UNFCCC – di adempiere ai propri obiettivi complessivamente, derogando così ai limiti vincolanti imposti ai Paesi inclusi nell’Allegato B al Protocollo, purché appunto il quantitativo di emissioni complessivo non superi il totale dei singoli quantitativi assegnati a detti Stati. Tale meccanismo, che rappresenterà la base per la nascita di un sistema regionale di scambio di quote di emissione in seno alla UE, venne alla fine incluso nell’art. 4, par. 1 del Protocollo. Sul punto v. C. DAMRO – P. LUACES MENDEZ, Emissions Trading at Kyoto: From EU Resistance to
Union Innovation, in Environmental Politics, 2003, vol. 12, 71.
(334) Il Protocollo stesso – come l’Accordo di Parigi del 2015, su cui si tornerà infra, 3.1.3 – prevedeva la sua entrata in vigore al momento della ratifica da parte del 55 dei Paesi parti dello stesso, oppure di un numero di Stati che contasse, complessivamente, almeno per il 55% delle emissioni indicate nell’All. I. In questo senso, non pochi dubbi e preoccupazioni suscitò l’annuncio all’inizio del 2001 dell’allora neoeletto Presidente statunitense George W. Bush di non ratificare l’accordo; decisione poi, per così dire, “compensata” dalla ratifica da parte di Russia e Giappone. Sicché, almeno fino al citato Accordo di Parigi, il sistema Kyoto copriva meno di un quarto delle emissioni globali (come sottolinea opportunamente S. NESPOR, La lunga marcia per un accordo globale sul clima: dal Protocollo di Kyoto
all’Accordo di Parigi, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 2016, 1, 83).
(335) L’obiettivo per il primo periodo d’obbligo (2008-2012) era fissato per il 5,2%. Esso è stato dunque aggiornato per il secondo periodo d’obbligo (2013-2020), con il Doha Amendment, al 18%. I “gas serra” a cui fa riferimento il Protocollo sono quelli indicati nell’All. A allo stesso, ossia: diossido di carbonio (CO2); metano (CH4); protossido di azoto (N2O); idrofluorocarburi (HFC); perfluorocarburi (PFC); esafluoruro di zolfo (SF6) e (dal 2013) trifluoruro di azoto (NF3).
(336) Art. 3, par. 1. Invero, l’art. 3, par. 5 del Protocollo prevede come alcuni Stati, inseriti tra quelli obbligati ex All. I alla Convenzione, che fossero caratterizzati da una fase di transizione verso un’economia di mercato (come Russia ed Ucraina), potessero prendere a riferimento come baseline un anno diverso dal 1990. Come vedremo, gli obiettivi verranno successivamente rivisti per il secondo periodo d’obbligo (2013-2020) l’8 dicembre 2012 in occasione della COP18 tenutasi a Doha, in Qatar (da qui il nominativo di Doha Amendment to the Kyoto Protocol).
(337) Sull’utilizzo di un approccio basato sull’uso di meccanismi e strumenti economici per la tutela dell’ambiente cfr. UNEP, The Use of Economic Instruments in Environmental Policy: Opportunities and Challenges, Parigi, United Nations Publications, 2004, 11 ss.
efficienza, permettendo agli operatori economici di compiere interventi nel momento in cui i costi
di abbattimento siano minimi (
338).
Di riflesso, dunque, sono stati istituiti i tre c.d. meccanismi flessibili (o meccanismi Kyoto)
(
339), rispettivamente denominati:
- Joint Implementation (JI, art. 6);
- Clean Development Mechanism (CDM, art. 12);
- International Emissions Trading (IET o ET, art. 17).
Preliminarmente all’analisi specifica dei singoli meccanismi, preme sottolineare come, oltre
all’introduzione di capitali e soggetti economici privati in un apparato regolatorio di natura
pubblicistica, il c.d. sistema Kyoto si distingua in via generale per altri tre elementi.
In primo luogo, l’applicazione dei meccanismi flessibili deve condurre a una riduzione di
emissioni che non sarebbe in ogni caso avvenuta in una situazione business as usual, in assenza di
determinati progetti o attività (c.d. addizionalità) (
340).
In secondo luogo, è previsto che i medesimi meccanismi debbano necessariamente
rappresentare, al fine del raggiungimento degli obiettivi fissati dal Protocollo, un quid pluris
rispetto alle azioni – per lo più di command and control come imposizioni o esenzioni fiscali –
intraprese a livello domestico (c.d. supplementarietà) (
341). Lo scopo perseguito da una previsione
di questo genere è chiara: si vuole impedire che Paesi sviluppati o industrie c.d. grandi emittenti
(338) Così denotano B. ANNICCHIARICO – A. COSTA, Protocollo di Kyoto e mercato europeo dei diritti di emissione
di gas ad effetto serra: avvio della prima borsa italiana delle emissioni, in Studi e note di economia, 2007, n. 2,
237-238. Secondo M. BOTHE, The United Nations Framework Convention on Climate Change – an Unprecedented
Multilevel Regulatory Challenge, cit., 245, lo scopo intrinseco dei flexible mechanisms sarebbe proprio quello di ridurre
il peso economico legato all’adempimento degli impegni sottoscritti con il Protocollo.
(339) Anche su questo tema si è sviluppata una fiorente letteratura. Oltre ai numerosi contributi specialistici relativi a peculiari aspetti di funzionamento dei meccanismi e alla loro applicazione in determinati contesti locali, si rimanda per tutti a D. FREESTONE – C. STRECK (a cura di), Legal Aspects of Implementing the Kyoto Protocol Mechanisms:
Making Kyoto Work, New York, Oxford University Press, 2005, in particolare 35-107 e ID., Legal Aspects of Carbon Trading: Kyoto, Copenhagen and beyond, cit., in particolare 157-337. A livello italiano, si rimanda alle elaborazioni di
M. MONTINI, Le politiche climatiche dopo Kyoto. Interventi a livello nazionale e ricorso ai meccanismi di flessibilità, in Riv. Giur. Amb., 1999, n. 1, 135 ss.; ID., Il cambiamento climatico e il Protocollo di Kyoto, in Quaderni della Riv.
Giur. Amb., speciale 20 anni, 2006; M. LIPARI, Il commercio delle emissioni, in E. BRUTI LIBERATI – F. DONATI
(a cura di), Il nuovo diritto dell’energia tra regolazione e concorrenza, Quaderno CESIFIN n. 33, Giappichelli, Torino, 2007.
(340) Cfr. l’art. 6, par. 1, lett. b) del Protocollo, secondo il quale, al fine del raggiungimento degli obiettivi di cui all’art. 3 dello stesso Protocollo, il mercato di quote di emissione si applica a «Any such project [that] provides a reduction in
emissions by sources, or an enhancement of removals by sinks, that is additional to any that would otherwise occur». Il
concetto in discorso viene ulteriormente esplicato, con riferimento alla disciplina del CDM, nella Decisione della
Conference of the Parties serving as the Meeting of the Parties to the Kyoto Protocol n. 3/CMP.1
(FCCC/KP/2005/8/Add. 1), par. 43 ss.. Sulla nozione di addizionalità, applicata al mercato dei TEE, cfr. supra, 2.3. (341) Il criterio emerge al lume degli artt. 6, par. 1, lett. d) e 17 del Protocollo ove, rispettivamente per i meccanismi di JI e CDM e IET, si stabilisce che «The acquisition of emission reduction units shall be supplemental to domestic actions
for the purposes of meeting commitments under Article 3» e «Any such trading shall be supplemental to domestic actions for the purpose of meeting quantified emission limitation and reduction commitments under that Article». Il
contenuto di tale criterio è stato ulteriormente definito con la Decisione n. 2/CMP.1 (FCCC/KP/2005/8/Add. 1), al par. 4, secondo cui « […] the use of the mechanisms shall be supplemental to domestic action and that domestic action shall
thus constitute a significant element of the effort made by each Party included in Annex I to meet its quantified emission limitation and reduction commitments under Article 3, paragraph 1».
facciano ricorso esclusivamente a crediti di carbonio ottenuti mediante il finanziamento di progetti
in altri contesti geografici – in particolare, nelle developing countries – anziché puntare a ridurre i
livelli di emissione a livello interno.
In terzo e ultimo luogo, elemento comune è dato dalla riconduzione di tutti i benefici
climatico-ambientali generati dagli flexible mechanisms a unità negoziabili. Esse assumono una
diversa denominazione a seconda del meccanismo di origine, rispettivamente:
- Assigned Amount Units (AAUs), qualora provengano dall’IET;
- Emission Reduction Units (ERUs); qualora provengano da progetti relativi al JI;
- Certified Emission Reductions (CERs), qualora provengano da progetti inclusi nel
CDM (
342).
A questi sono stati peraltro aggiunti, all’esito della COP7 di Marrakech (2001), i crediti legati
all’implementazione dei c.d. carbon sinks – relativi all’utilizzo di risorse naturali (boschi, foreste,
superfici coltivate), che fungono da veri e propri “serbatoi” di gas serra – denominati Removal Units
(RMUs) (
343).
Ciò premesso, va rimarcato come ben diversa sia la logica sottostante al funzionamento dei tre
strumenti in esame.
Guardando alla struttura, anzitutto, il JI e il CDM rappresentano un sistema di baseline and
credit (o credit trading), mentre l’IET rappresenta uno di cap and trade (
344).
(342) Tutte le unità citate corrispondono a una tonnellata equivalente di CO2 emesso in atmosfera, per espressa previsione della Decisione 9/CMP.1 del 30 marzo 2006 (FCCC/KP/CMP/2005/8/Add.2).
(343) Essi sono dunque legati alle attività di Land Use, Land Use Change and Forestry (LULUCF), e trovano riscontro principalmente nell’art. 3 del Protocollo. Va peraltro puntualizzato che le attività LULUCF si distinguono sostanzialmente in due categorie: quelle di deforestazione (deforestation), rimboschimento (reforestation) e
imboschimento (afforestation), che attengono alla copertura boschiva di porzioni di territorio (art. 3, par. 3); altre
attività antropiche caratterizzate da addizionalità (art. 3, par. 4). Quest’ultime sono state a loro volta definite - nella COP7 prima e nella COP17 di Durban (2011) poi - in sei categorie specifiche:
1. gestione forestale (forest managment);
2. gestione di prati e pascoli (grazing land managment); 3. gestione agricola (cropland managment);
4. rivegetazione (revegetation);
5. restaurazione delle zone umide (rewetting);
6. bonifica o drenaggio delle zone umide (wetland drainage).
Le suddette attività, per poter ottenere la certificazione di RMUs, devono essere appositamente monitorate da parte dello Stato. Il monitoraggio è obbligatorio per le attività di cui al par. 3, mentre rimane facoltativo per quelle di cui al par. 4, e va comunque operato sulla base delle Guidelines for National Greenhouse Gas Inventories, predisposte dall’IPCC nel 2006 e modificate nel 2013 per le attività legate alle zone umide (al link http://www.ipcc-nggip.iges.or.jp/public/2006gl/vol4.html, disponibile il 30 luglio 2016). L’Italia in particolare ha elaborato (con il d.m. MATTM 1 aprile 2008) un proprio Registro nazionale dei serbatoi di carbonio agroforestali, poi esteso anche alle attività agricole da parte del d. m. 22 gennaio 2013 (in G.U. del 30 gennaio 2013, serie generale, n. 25). Va infine tenuto conto che le medesime attività ricomprese nel settore LULUCF sono suscettibili, se inserite in progetti afferenti ai meccanismi di JI o di CDM (in questo caso, limitatamente a quelli di afforestation e reforestation), di generare invece ERUs o CERs. Sul punto cfr. la disamina operata da V. JACOMETTI, op. cit., 155-158.
(344) Così denota puntualmente R. DE WITT WIJNEN, Emissions Trading under Article 17 of the Kyoto Protocol, in D. FREESTONE – C. STRECK (a cura di), Legal Aspects of Implementing the Kyoto Protocol Mechanisms: Making
Kyoto Work, cit., 408 ss.. Sul punto cfr. anche R. BIANCHI, La dimensione globale delle emission di gas serra e il sistema Joint Implementation, in Amb. & Svil., 2007, n. 2., 113 ss.. Sulla distinzione tra i sistemi di baseline and credit e
Inoltre, gli stessi JI e CDM fanno riferimento all’ideazione e implementazione di progetti
specifici volti a ridurre le emissioni di gas serra, valutati secondo il già citato criterio
dell’addizionalità.
Nello specifico, il JI si riferisce a progetti realizzati singolarmente o congiuntamente da Paesi
ex All. I alla Convenzione, tanto relativi alla riduzione di emissioni da fonti antropiche già
identificate, quanto all’utilizzo di carbon sinks (
345). Il suo funzionamento, come stabilito nelle COP
successive al Protocollo, si basa su un elaborato procedimento di approvazione ed accreditamento,
legato alla verifica circa la sussistenza in capo allo Stato (o gli Stati) richiedente di determinati
requisiti e le caratteristiche intrinseche del progetto presentato (
346).
Il CDM – definito da molti il vero grande risultato delle negoziazioni di Kyoto (
347) – a sua
volta si riferisce a quelle attività di collaborazione tra Stati e/o imprese volti a sviluppare progetti in
Paesi in via di sviluppo non inclusi nell’All. I alla Convezione; con l’ulteriore scopo fondamentale
inerente l’acquisizione di know-how da parte delle stesse developing countries (
348). In questo caso,
pertanto, l’addizionalità oggetto di valutazione non si riferisce soltanto alla riduzione di emissioni,
ma anche al grado di avanzamento della tecnologia adottata in territori particolarmente sensibili agli
effetti del cambiamento climatico (
349).
di cap and trade si tornerà più approfonditamente, con specifico riferimento al mercato europeo di quote di emissione (EU ETS) infra, 3.2.
(345) Il meccanismo fa dunque riferimento tanto ai Paesi sviluppati, quanto alle economie in transizione, ideali, nell’ottica della cooperazione e trasferimento di conoscenze e finanze a cui si informa la Convenzione, per l’implementazione di progetti e tecnologie innovative. Sulle origini del JI cfr. per tutti F. YAMIN, The Kyoto Protocol.
Origins, assessment and future challenges, in RECIEL, 1998, vol. 7, 115 ss.; R. LOSKE - S. OBERTHUER, Joint Implementation under the Climate Change Convention, in Int. Env. Aff., 1994, 46 ss.; F. YAMIN, The use of joint implementation to increase compliance with the climate change convention. International legal and institutional questions, in RECIEL, 1993, 350 ss.
(346) Per l’elenco dei requisiti di eligibilità al mercato si rimanda alla Decisione 9/CMP.1 (FCCC/KP/CMP/2005/8/Add.2), art. 21, lett. a-f. Quanto invece al meccanismo di approvazione, esso si struttura in due categorie principali, a seconda che lo Stato richiedente possieda o no i suddetti requisiti di eligibilità. Nel primo caso, all’esito positivo della verifica da parte del Compliance Commitee del Protocollo di Kyoto, i soggetti interessati inviano al Segretariato UNFCCC la documentazione che illustri le procedure e le linee guida nazionali per lo sviluppo di progetti JI. Se l’esito della verifica è positivo, il progetto può essere attivato, ed il Paese ospitante può legittimamente registrare e accreditare i relativi ERUs (Track 1). Nel secondo caso – più complesso – si procede a sua volta in due fasi principali: quella di determinazione del progetto e quella di verifica effettiva delle sue caratteristiche (Track 2). Le attività sono svolte sotto il controllo del Joint Implementation Supervisory Committee (JISC), che si avvale del lavoro di enti indipendenti. Per un’analisi delle procedure cfr. J. VÄYRYNEN – F. LECOQ, Track One JI and “Greening of
AAUs”: Houw Could It Work?, in D. FREESTONE – C. STRECK, op. ult. cit., 156-163 e
(347) V. J. WERKSMAN, The Clean Development Mechanism: Unwrapping the Kyoto Surprise, in RECIEL, 1998, vol. 17, n. 2, 147-158.
(348) Lo scopo manifesto del meccanismo è quello dunque – in linea con i macro obiettivi indicati dall’art. 4 della Convenzione - di favorire il finanziamento di progetti finalizzati alla mitigazione dei cambiamenti climatici nei Paesi che, in quanto in via di sviluppo, non sono soggetti agli obblighi di Kyoto. Ciò peraltro emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 12, par. 2 del Protocollo, ove si afferma che «The purpose of the clean development mechanism shall be to
assist Parties not included in Annex I in achieving sustainable development and in contributing to the ultimate objective of the Convention».
(349) Il CDM è divenuto operativo già nel 2001, in seguito all’approvazione della relativa regolamentazione da parte degli Accordi di Marrakech; le linee guida definitive in termini di approvazione dei progetti e di accreditamento sono state approvate in seguito dalla prima COP/MOP del 30 marzo 2006 (FCCC/KP/CMP/2005/8/Add.1). Per una panoramica esaustiva sul meccanismo di valutazione e certificazione dei progetti cfr. M. NETTO – K. BARANI
L’IET prevede invece la possibilità, per gli Stati obbligati inclusi nell’All. B al Protocollo, di
“commercializzare” crediti di carbonio con tutti gli Stati ex All. B, anche se derivanti
dall’implementazione degli altri meccanismi flessibili (
350), laddove questo risulti più
economicamente vantaggioso rispetto alla riduzione di emissioni a livello domestico (
351). Tuttavia,
ciò non deve pregiudicare il sopra citato principio di supplementarietà: sicché il meccanismo non
può, di fatto, sostituirsi ad altri tipi di soluzioni adottate a livello interno dagli Stati al fine di ridurre
il quantitativo di emissioni (
352).
Per accedere al mercato è necessario soddisfare alcuni requisiti di eligibilità. In particolare, è
necessario (
353):
- essere Parti del Protocollo;
- essere titolari di un quantitativo assegnato ai sensi del medesimo Protocollo;
- avere a disposizione un sistema di raccolta dati precisi sulle emissioni interne e
costantemente aggiornato;
- avere a disposizione un registro nazionale delle emissioni;
- adempiere agli obblighi di inventariazione delle emissioni previsti dalla normativa
internazionale.
SCHIMDT, CDM Project Cycle and the Role of the UNFCCC Secretariat, in D. FREESTONE – C. STRECK, Legal
Aspects of Carbon Trading: Kyoto, Copenhagen and Beyond, cit., 175 ss. e, per una valutazione complessiva del
meccanismo anche dal punto di vista economico il rapporto WORLD BANK, 10 Years of Experience in Carbon
Finance: Insights from Working with the Kyoto Mechanisms, Washington DC, 2010. Basta in questa sede sottolineare
come in sede di valutazione molta importanza venga data, oltre all’addizionalità, alla predisposizione di un puntuale meccanismo di monitoraggio e controllo delle emissioni.
(350) L’art. 17 del Protocollo non indica espressamente l’oggetto della negoziazione in sede di Emissions Trading, al più invece riconducendo tale meccanismo allo scopo più generale circa il raggiungimento degli obblighi di riduzione delle emissioni previsti dall’art. 3 del Protocollo stesso. Alla COP7 di Marrakech vennero quindi definiti i criteri di eleggibilità e le modalità per accedere ai meccanismi di cui agli artt. 6, 12 e 17 del Protocollo, subordinando l’acquisizione e il riconoscimento degli ulteriori crediti ottenuti al rispetto degli obblighi di istituzione di un sistema nazionale di monitoraggio delle emissioni di gas ad effetto serra, nonché alla redazione e alla presentazione dell’inventario annuale sulle emissioni e sui bacini di assorbimento (Decisioni 15/CP.7, 18/CP.7 e 19/CP.7). Di seguito, in occasione della prima COP serving as the Meeting of The Parties to the Kyoto Protocol (COP/MOP), furono implementate le linee guida per la sua applicazione, sì da estendere il meccanismo anche alle ERU, CER e RMU, poi tutte indistintamente chiamate nella prassi Quote Kyoto (Kyoto Units). Sul punto s.v. la citata Decisione 18/CP.7 (FCCC/CP/2001/13/Add.2), la quale ha dapprima indicato la necessità per il MOP di adottare le linee guida, ma soprattutto la Decisione 11/CMP1 (FCCC/KP/CMP/2005/8/Add.2) del 30 marzo 2006, par. 2. Sugli accordi di Marrakech cfr. per tutti C. CLINI, Da Marrakech nuove sfide per l’Europa, in Amb. & Svil., 2001, 1, 17 ss.; A. MARRONI, Sette anni dopo Kyoto. I risultati della nona Conferenza delle parti (COP 9) della Convenzione quadro sui
cambiamenti climatici (UNFCCC), in Riv. Giur. Amb., 2004, n. 2, 323-336 e, sebbene in maniera sintetica, E. BERNINI
– F. RANGHIERI, Dal protocollo di Kyoto alla direttiva europea: il nuovo panorama per l’ordinamento italiano, in B. POZZO (a cura di), La nuova direttiva sullo scambio di quote di emissione, in Diritto ed Economia dell’Ambiente, Milano, Giuffrè, 2003, 63-65.
(351) Invero, come nota correttamente R. DE WITT WIJNEN, op. cit., 403-404, ciò che viene commercializzato non è propriamente l’emissione in quanto tale, ma una peculiare situazione giuridica soggettiva, composta da quattro elementi: a) il diritto ad emettere; b) una specifica sostanza; c) per una certa quantità; d) per un determinato periodo di tempo. In particolare, il totale delle AAUs assegnate corrisponde (a seguito dell’introduzione dell’art. 3, par. 7 bis con il
Doha Amendment) al quantitativo previsto per il secondo periodo d’obbligo – indicato nella terza colonna dell’All. B al
Protocollo – moltiplicato per otto. (352) Così l’art. 17 del Protocollo.