IL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM
1. Il divieto di bis in idem: considerazioni introduttive
Alla luce di un attenta disamina del sistema processuale penale e delle considerazioni effettuate fino a questo momento, emerge chiaramente come, nella prospettiva della cosa giudicata formale, l’intera fisiologia del processo penale conduca gli atti che lo costituiscono verso la “sublimazione” di un provvedimento giudiziale definitivo ed irrefragabile, che rappresenta l’espressione massima e compiuta dell’attività giurisdizionale.
Nell’ordinamento processuale penale la cosa giudicata formale incarna la condizione fondamentale ed imprescindibile per salvaguardare l’incontrovertibilità dell’accertamento giudiziario. Tuttavia, per la sua piena ed effettiva esplicazione è necessario che tale autorità “endoprocessuale” venga corroborata e garantita da un istituto giuridico capace di assicurare e preservare, anche all’esterno del procedimento, la sostanziale intangibilità del risultato processuale definitivo. L’irrefragabilità del giudicato sarebbe, infatti, del tutto vanificata se, successivamente, lo stesso fatto, per cui l’imputato è stato condannato o assolto con sentenza irrevocabile, potesse essere oggetto di un ulteriore processo penale, e così sottoposto
nuovamente all’accertamento di un giudice diverso93
.
Al fine di salvaguardare compiutamente l’effettiva e concreta incontrovertibilità del dictum penale, non si rivela sufficiente, quindi, l’irrevocabilità della sentenza, perché occorre parimenti garantire l’intangibilità della stessa impedendo un nuovo giudizio de eadem re. A ciò provvede direttamente la cosa giudicata sostanziale nella sua efficacia tipica di vincolo “negativo”: essa, infatti, tende ad impedire una illimitata pluralità di processi sullo stesso oggetto, invocando l’antico principio del ne bis in idem.
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Le legislazioni “continentali” concepiscono infatti il ne bis in idem come conseguenza del carattere “definitivo” delle decisioni giudiziarie e di una nozione della “cosa giudicata” che si definiscono entrambi in funzione dell’esaurimento di un certo numero di impugnazioni potenzialmente esperibili, le quali, a loro volta, sono messe, di regola, a disposizione degli organi dell’accusa così come della difesa. Secondo la tradizione di
common law, viceversa, la garanzia contro il rischio del doppio processo comporta l’esclusione quasi assoluta
dell’appello del prosecutor contro le pronunce proscioglitive, che è ammesso solo in casi eccezionali. Sul tema M. Chiavario, La parte dei privati: alla radice e al di là di un sistema di garanzie, in Procedure penali
d’Europa. Belgio- Francia- Germania- Inghilterra- Italia. Sintesi nazionali ed analisi comparatistiche,
coordinate sotto la direzione di M. Delmas- Marty, seconda edizione italiana a cura di M. Chiavario, Padova, 2001.
69 Dunque, si può affermare che la generale incontrovertibilità del dictum penale poggia essenzialmente su due solidi pilastri: la cosa giudicata formale e il divieto di bis in idem, istituti che, insieme, concorrono a chiudere il cerchio delle garanzie idonee ad assicurare l’intangibilità del risultato del processo.
La cosa giudicata sostanziale, che si identifica nel ne bis in idem, trova espressione normativa nell’articolo 649 comma 1 c.p.p, il quale recita ‹‹ L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze››. La formulazione letterale di tale articolo ripete sostanzialmente il dato testuale dell’articolo 90 dell’abrogato codice di rito; tuttavia, sotto il profilo formale della dicitura della rubrica, l’inammissibilità del secondo giudizio, secondo la norma abrogata, è sostituita, oggi, dal divieto del secondo giudizio.
In ordine alla portata della norma giuridica appena richiamata, l’efficacia preclusiva riconosciuta alla cosa giudicata sostanziale si basa su due presupposti, che devono ricorrere entrambi per assicurare l’operatività del divieto: essi sono uno di natura soggettiva e l’altro di natura oggettiva, che esamineremo più dettagliatamente nei paragrafi successivi.
Tuttavia, in funzione di preliminare anticipazione, possiamo osservare che il presupposto di natura soggettiva è costituito dall’identità tra la persona già sottoposta al processo conclusosi con una sentenza irrevocabile e quella che si vorrebbe sottoporre ad un nuovo procedimento penale ( eadem personam ); deve trattarsi, ovviamente, di identità anche di situazioni processuali, perché, ad esempio, chi abbia rivestito il ruolo di imputato in un processo può essere assoggettato ad un nuovo procedimento penale per lo stesso fatto in veste di civilmente obbligato per la pena pecuniaria o di responsabile civile. Parimenti, tale divieto non opera nei confronti dei concorrenti nello stesso reato che siano rimasti estranei al processo conclusosi
con la sentenza irrevocabile94.
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Cass., 3 maggio 2005, in CED Cass., n. 231924. A tale riguardo, in dottrina, si osserva che ‹‹ il divieto di bis
in idem esplica una funzione di garanzia per la persona imputata nel nuovo processo e ne postula l’identità con il soggetto irrevocabilmente condannato o prosciolto. Pertanto, il giudice del procedimento a carico del concorrente può liberamente rivalutare il comportamento del soggetto già giudicato, ma unicamente al fine di accertare la sussistenza ed il grado della responsabilità dell’imputato da giudicare››, P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 807, Milano, 2014.
70 Il presupposto di natura oggettiva del divieto di bis in idem è, invece, rappresentato dall’identità tra il fatto su cui ha già deciso una sentenza irrevocabile ed il fatto per il quale si pretenderebbe di instaurare un nuovo processo penale.
Attualmente, come nella vigenza del vecchio codice di rito, è proprio l’individuazione della nozione di “ fatto” ex art. 649 comma 1 c.p.p la questione che concentra l’interesse della dottrina e della giurisprudenza, le quali si confrontano e si scontrano in ordine alla compiuta ricostruzione concettuale di tale dato semantico, decisamente significativo ai fini
dell’operatività del divieto di bis in idem95
.
Innanzitutto, riguardo a tale concetto sorge il quesito se per rintracciare l’ “identità” del fatto debba considerarsi rilevante la configurazione naturalistica o se, invece, la sua qualificazione giuridica. In realtà, a ben vedere, la risposta si può ricavare direttamente dalla stessa formulazione dell’art. 649 comma 1 c.p.p, la quale prevede l’operatività del divieto di bis in idem in relazione al medesimo “fatto” anche se questo venga diversamente considerato per il titolo. Poiché il titolo costituisce la qualificazione giuridica del fatto naturale, il “nomen iuris”, risulta chiaramente l’irrilevanza di questo elemento allo scopo di determinare l’identità o la diversità del fatto su cui si è già deciso rispetto a quello su cui decidere.
Tale posizione trova fondamento e giustificazione anche nelle ragioni stesse del ne bis in idem che si identificano nell’esigenza di sottrarre la persona ad una teoricamente illimitata
possibilità di persecuzione penale, e quindi al mero arbitrio dell’organo punitivo96
. E, invero, ciò può essere impedito soltanto da una accezione naturalistica del “fatto”, che non si pieghi alle eventuali trasformazioni e modulazioni determinate da una mera diversa valutazione normativa, la quale condurrebbe inevitabilmente ad ammettere la rinnovazione dell’accusa per lo stesso nucleo comportamentale.
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Il panorama della cultura giuridica, accademica e professionale, in ordine a tale tema è efficacemente delineato da E. Jannelli, La cosa giudicata, cit., p. 628 ‹‹ oggi, come ieri, è il problema dell’identificazione del fatto, oggetto del giudicato penale, in quanto tale preclusivo di nuovi procedimenti sull’idem factum, che impegna lo sforzo culturale dei processualisti. I quali, peraltro, si trovano di fronte a risoluzioni giurisprudenziali molto rigorose e ferme, ma insoddisfacenti nella misura in cui non offrono criteri di ragione sicuri ed uniformi per la disciplina dei casi pratici. Il fondo comune delle soluzioni giurisprudenziali è il criterio dell’equità, della ragionevolezza, funzionale ad evitare soluzioni inaccettabili dalla coscienza comune. Criterio di ragione, peraltro, tanto ovvio, quanto incerto ed indeterminato, per la verità. La dottrina d’altronde pur polemica con le scelte giurisprudenziali caso per caso, offre una gamma di soluzioni teoriche in punto di criteri di identificazione del medesimo fatto, anche se diversamente qualificato per grado, titolo e circostanze, tra le quali non è facile prendere sicura posizione››.
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M. D’Orazi, La revisione del giudicato penale. Percorsi costituzionali e requisiti di ammissibilità, Padova, 2003.
71 Dunque, si può affermare abbastanza agevolmente che nella nozione contenuta nell’art. 649 c.p.p il “fatto” prescinde da ogni definizione giuridica, emergendo esclusivamente nella sua realtà materiale ed indipendentemente dall’atteggiamento psichico del suo autore. Ma anche in relazione a tale profilo nasce un ulteriore problema interpretativo di maggior difficoltà: dal momento che il fatto naturale costituisce una entità composta di condotta ed evento, di conseguenza è necessario stabilire se entrambi questi elementi debbano concorrere o meno a determinare il significato di “fatto”, rilevante per l’operatività dell’efficacia preclusiva del giudicato. Si tratta di una questione di non facile soluzione su cui giurisprudenza e dottrina si sono confrontate da sempre, fin dalla vigenza dell’art. 90 del Codice Rocco, il cui dato letterale è stato, come anticipato, sostanzialmente ripetuto nella formulazione dell’art. 649 del codice di rito attualmente vigente.
Un orientamento giurisprudenziale assolutamente maggioritario sostiene e rivendica che il concetto di “fatto” coincide con quello che in teoria generale del reato viene definito come “elemento materiale” della fattispecie criminale, costituito a sua volta da “condotta”, “evento”
e “nesso di causalità”97
. A sostegno di tale posizione si suole affermare che proprio la presenza di differenti componenti fattuali nella realtà fenomenica induce a richiedere un’interpretazione rigorosa del dettato normativo nel senso di pretendere l’insieme di tali elementi e, quindi, di considerarne non uno solo, ai fini della individuazione del medesimo “fatto”, bensì tutti e tre nella loro inscindibile unità. Dunque, secondo la giurisprudenza, qualora almeno uno dei predetti profili risulti differente, il “fatto” può essere ulteriormente considerato in un diverso procedimento penale a carico del medesimo soggetto, con la conseguente possibilità di una nuova decisione giurisdizionale.
Oggi, come durante la vigenza del vecchio codice di rito, la dottrina maggioritaria98 ritiene,
invece, che il concetto di “fatto” rilevante ai fini dell’operatività del divieto di bis in idem
97 In giurisprudenza, si afferma che ‹‹ la lettera dell’art. 649 c.p.p, così come dell’art. 90 del codice previgente, è
chiarissima nel limitare l’effetto preclusivo del giudicato ai casi in cui il nuovo procedimento ha come oggetto il medesimo fatto su cui ha statuito la precedente sentenza irrevocabile. Tale espressione va riferita a tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, condotta-evnto e nesso di causalità, e alle situazioni in cui vi sia completa identità di condizioni di tempo, di luogo e di persona››, Cass., 18 maggio 1995, Lazzarini, in Cass. pen., 1997, p. 1338.
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Così V. Perchinunno, L’esecuzione penale, cit., p. 621, il quale afferma: ‹‹ il primo problema che si pone è quello di circoscrivere il concetto di identità del fatto, che esige anzitutto la comparazione tra il fatto posto a base dell’imputazione del primo e quello del secondo procedimento penale, avendo riguardo alla condotta sulla quale si è formato il giudicato e che, di conseguenza, non può essere oggetto di una seconda indagine››. In tal senso anche E. Annunziata, I limiti della cosa giudicata, in Giust. Pen., 1968; G. Bellavista, Lezioni di diritto
72 comprenda solamente la condotta dell’agente, attiva od omissiva, con esclusione di ogni altra componente materiale della fattispecie legale. Si osserva, a sostegno di tale tesi, che anche in questo caso la soluzione sia ricavabile dal tenore letterale dell’art. 649 c.p.p, dal quale emerge che l’identità del “fatto” sussiste anche se esso venga ‹‹ diversamente considerato per … il grado››. Di conseguenza, poiché il grado, individuando la maggiore o minore gravità del reato, si risolve obiettivamente nell’evento del reato stesso, appare in pieno risalto la completa irrilevanza dell’evento ai fini della determinazione dell’identità del “fatto”; a tal proposito, si rileva, inoltre, come la garanzia di certezza “soggettiva”, che dottrina e giurisprudenza pongono a fondamento del divieto di bis in idem, debba essere correlata alla condotta esteriore del soggetto, in quanto proprio sul nucleo comportamentale dell’individuo viene centrato il giudizio di rimproverabilità e, quindi, di disvalore del fatto commesso.
Tale posizione dogmatica necessita, però, di un precisazione. Si è, infatti, osservato che l’astratta scomposizione della fattispecie di reato in “condotta” ed “evento”, nonché la rigida identificazione del “fatto” ex art. 649 c.p.p con la prima, possono condurre, in certe ipotesi, a conseguenze aberranti dal punto di vista dell’attuazione della giustizia sostanziale: basti pensare al caso, per esempio, di chi sia stato condannato per getto pericoloso di cose ex art. 674 c.p. Secondo una rigorosa ed astratta applicazione della teoria che identifica il “fatto” ex art. 649 c.p.p nella condotta, il giudicato che interviene in relazione a quella condanna dovrebbe precludere tout court, in base al divieto di bis in idem, un eventuale successivo processo per omicidio, qualora si accerti che l’autore ha colpito la testa di una persona, essendo la condotta assassina manifestatasi materialmente nel suddetto lancio pericoloso dell’oggetto.
A fronte di simili obiezioni, è venuta a consolidarsi una posizione ermeneutica migliorativa, la quale, osservando che tutte le azioni umane di carattere transitivo sono necessariamente individuate dall’oggetto materiale su cui vertono, viene ad identificare il “fatto” ex art. 649
c.p.p nella “condotta”, ma in relazione al suo oggetto fisico di incidenza99 .
processuale penale, Milano, 1956; G. Leone, Manuale di diritto processuale penale, Napoli, 1982; A. Pagliaro,
‹‹Fatto››, in Enc. Dir, Milano, 1967.
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Sul punto, F. Cordero, Procedura penale, cit., 2006, p.1224, il quale osserva che ‹‹ nell’art. 649 comma 1 c.p.p “fatto” significa condotta e questa struttura nucleare include l’oggetto fisico, dove ne esista uno ( reati cosiddetti “materiali”); le condotte transitive sono individuate da ciò su cui cadono››. In tal senso, anche F. Corbi, L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, p.93.
73 Per concludere, si può affermare che, ai fini del divieto di instaurazione di un nuovo processo penale de eadem re, “fatto” è da ritenersi soltanto la condotta umana esteriore, che fu presa in considerazione nella precedente sentenza penale irrevocabile, individuata, però, dal suo eventuale oggetto materiale. Appaiono, invece, irrilevanti anche gli eventuali elementi che accompagnano il manifestarsi della condotta, come può ricavarsi sempre dal tenore letterale dell’art.649 c.p.p, dal quale risulta che l’identità del “fatto” sussiste anche se esso venga ‹‹ diversamente considerato per … le circostanze››.
Sotto il profilo della portata operativa del divieto di bis in idem, il dato letterale dell’art. 649 c.p.p pone espressamente due eccezioni. La prima riguarda le sentenze di proscioglimento per difetto di condizione di procedibilità, stabilendo che una nuova azione penale per il medesimo fatto e contro la stessa persona non può essere preclusa allorchè sopravvenga quella condizione di procedibilità in precedenza accertata come mancata dalla sentenza di proscioglimento. La seconde eccezione, invece, riguarda la sentenza che dichiari l’estinzione del reato per morte dell’imputato, ed anche in tale ipotesi, l’esercizio di una nuova azione penale e nei confronti della medesima persona non è impedito qualora si accerti che la morte dell’imputato era stata erroneamente dichiarata.
Nonostante le situazioni che nascono dalle disposizioni citate sembrino in apparenza prospettare delle deroghe al divieto di bis in idem, in realtà esse costituiscono soltanto delle pseudo-eccezioni a tale principio. La declaratoria di estinzione del reato pronunziata sul presupposto, rivelatosi successivamente erroneo, che l’imputato sia deceduto, va considerata una “pseudo-sentenza” e, in quanto tale, inidonea a formare il giudicato; basti ricordare, in questo senso, che l’art. 89 del codice di procedura abrogato affermava espressamente che qualora fosse stato accertato che la morte dell’imputato era stata erroneamente dichiarata, la relativa sentenza di proscioglimento doveva considerarsi come “non pronunciata” e che l’art. 69 comma 2 del codice vigente recita esplicitamente che tale decisione ‹‹ non impedisce l’esercizio dell’azione penale››. Dunque, sarebbe illogico pensare ad una deroga all’efficacia preclusiva esplicata dal giudicato, laddove un giudicato, in realtà, non esiste.
Per quanto concerne, poi, la sentenza di proscioglimento per difetto di una condizione di procedibilità, si può affermare che tale decisione non è una “pseudo-sentenza”inidonea, in quanto tale, a formare il giudicato, bensì essa ha semplicemente il valore di un accertamento sulla mancanza della condizione e sulla conseguente impossibilità di procedere.
Un breve cenno deve essere operato all’ipotesi di improcedibilità per particolare tenuità del fatto ex art.131-bis c.p.p. Il 2 aprile 2015 è entrato in vigore, infatti, il dlgs. 16 marzo 2015
74 n.28, il quale introduce nel nostro ordinamento un nuovo istituto giuridico, ovvero la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa. La disciplina appena richiamata deve essere applicata a tutti quei reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria o la pena detentiva non superiore a 5 anni, sia nelle ipotesi in cui le due tipologie di pena siano congiunte sia nell’ipotesi in cui siano previste in modo distinto. La tenuità deve ritenersi esclusa e non applicabile quando la condotta è caratterizzata da crudeltà, motivi abietti o futili, in danno di animali, con sevizie o nei confronti di persona con minorate possibilità di difesa o quando le conseguenze procurate dall’offensore siano di particolare gravità. I maggiori ambiti applicativi della nuova disciplina investono soprattutto il procedimento di competenza del giudice di pace (dlgs.274/2000), posto che i reati di sua competenza sono tutti punibili con pena pecuniaria. In queste ipotesi, in sintesi, si tratta di un vero e proprio accertamento di merito operato da parte del giudice di pace in ordine ai presupposti necessari per l’emanazione della sentenza di non doversi procedere per particolare tenuità dell’offesa (tenuità del fatto, riconducibilità della condotta all’imputato), non trattandosi dell’ipotesi di mancanza di condizione di procedibilità, eventualmente sanabile dal successivo sopraggiungere della stessa.
Infine l’art. 649 comma 2 c.p.p disciplina il rimedio ai casi in cui si realizza una violazione del principio del ne bis in idem stabilendo che il giudice, in ogni stato e grado del processo, debba pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.
In conclusione, l’istituto del giudicato penale, attraverso le sue articolazioni normative, consegue un accertamento definitivo, il quale rappresenta lo scopo stesso della funzione giurisdizionale e realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche.