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Si definisce abituale il reato nel quale il comportamento criminoso viene prodotto dalla reiterazione da parte del reo di più condotte identiche ed omogenee; è, dunque, un reato a condotta necessariamente plurisussistente. Premesso questo, si può osservare che né il codice penale vigente né quello abrogato danno una definizione di reato abituale, né tantomeno si rinviene in essi alcun riferimento a tale figura. Nonostante quanto appena detto, sono molteplici le fattispecie penali caratterizzate dalla reiterazione di più fatti omogenei e perciò considerate, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, quali esempi tipici di reati abituali.

E’ ormai condivisa in dottrina l’opinione secondo la quale il reato abituale è caratterizzato dalla reiterazione abituale di più fatti omogenei; in ogni caso, ‹‹ il carattere unitario del reato abituale, malgrado esso consista in una serie discontinua di episodi, non può essere validamente contestato poiché unico è il fatto di reato sul piano normativo, anche se è necessario che sia costituito da più fatti materiali. Ciascuno di questi, rispetto alla fattispecie complessiva, è soltanto un “momento del fatto” e finisce per dissolversi nel reato complessivo. La rilevanza penale, insomma, è comunque attribuita a quel titolo, alla pluralità di fatti reiterati ed omogenei, sulla base di un legame oggettivo che li unisce, unità che, peraltro, non è meramente esteriore ma si basa su un dato intrinseco al fatto e precisamente sulla omogeneità degli episodi e sul legame di persistente frequenza che li unisce››.

115 Si è soliti, inoltre, distinguere tra reato abituale “proprio” e reato abituale “improprio”: alla prima categoria appartengono quei reati costituiti da una serie di determinate azioni le quali,

considerate autonomamente, sono di per sé irrilevanti. Manzini187 scriveva che ‹‹ reati abituali

sono quelli la cui nozione esige, come elemento costitutivo, la reiterazione abitudinaria o professionale di fatti che, presi singolarmente, non sarebbero reati››. Pensiamo, ad esmpio, al caso di delitto di sfruttamento della prostituzione (art.534 c.p): affinchè possa integrarsi il reato non basta un fatto isolato, non basta, cioè, che l’agente si faccia consegnare una sola volta del denaro da una prostituta, ma occorre, invece, una certa ripetizione di tali atti, una certa serie di consegne di denaro ricavato dalla prostituzione.

‹‹ Ad integrare questa figura occorre che l’agente ponga in essere una serie di determinate azioni che il legislatore ha indicato esplicitamente in modo che rientrino nella struttura

giuridica del reato››188.

Occorre, allora, precisare come deve essere inteso il concetto di “pluralità di eventi” utile ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in esame. L’evento che consegue alla singola azione non ha alcuna rilevanza dal punto di vista giuridico: la legge penale, infatti, non ricollega alcuna sanzione alla realizzazione di una singola azione, per quanto accompagnata dal suo elemento fattuale. Quanto appena detto significa che la legge richiede una pluralità di eventi collegati dall’elemento psicologico, i quali individualmente non hanno carattere criminoso; se ne deduce,. Pertanto, che nel reato abituale l’evento, inteso in senso meramente giuridico, interviene soltanto nel momento finale e conclusivo, quando, cioè, si sarà costituita l’intera serie di azioni che il legislatore richiede per il perfezionamento del reato.

Nel reato abituale improprio, invece, le singole condotte integrano di per sé reato e la reiterazione della condotta dà luogo o a una figura di reato più grave o ad una circostanza

aggravante189.

Possiamo capire da questi brevi cenni alla struttura del reato abituale, che esso ha una struttura complessa che richiede la compresenza di alcuni elementi, quali la reiterazione di più

fatti, l’identità o l’omogeneità di tali fatti190

e il nesso di abitualità tra i fatti stessi191.

187

V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano secondo il nuovo codice penale del 1930, Torino, UTET, 1933.

188 G. Leone, Del reato abituale, permanente e continuato, Napoli, Jovene, 1933.

189 F. Grispigni, Diritto penale italiano, Milano, Giuffrè, 1952; G. Leone, Del reato abituale, permanente e continuato, Napoli, Jovene, 1933.

116 Il problema che si pone in tema di reato abituale è se il giudicato emesso su alcuni fatti che costituiscono tale reato possa precludere o meno l’instaurazione di un successivo giudizio sugli altri fatti, eventualmente scoperti successivamente al giudicato stesso ma sempre rientranti nel medesimo reato abituale.

Esaminiamo, innanzitutto, l’ipotesi del giudicato di condanna: questo, ovviamente, consuma l’azione e, quindi, la pretesa punitiva, relativamente al fatto deciso. Si tratta di determinare cosa debba intendersi per “medesimo fatto”, data la complessità del fatto nel reato abituale.

Secondo Leone192 deve escludersi la possibilità di rinnovare l’azione penale per tutta quella

serie di azioni poste dal precedente giudice a fondamento della sentenza di condanna; ciò vale anche per un frammento di tale fatto così composto, ossia per una singola azione o per un ridotto gruppo di azioni ed anche, infine, per quella azione che, pur non essendo stata esplicitamente contemplata nel giudicato o perché trascurata o perché ignorata dal giudice, si riannoda alla serie che costituisce l’elemento materiale del reato abituale già giudicato e punito. Si diceva al riguardo che ‹‹ se per esempio taluno sia stato condannato per il delitto di sfruttamento della prostituzione, compiuto in un determinato periodo di tempo, le altre azioni di simil genere, successivamente scoperte, compiute però nello stesso periodo di tempo da parte dello stesso soggetto, si rifiuteranno di essere nuovamente giudicate; se, invece, le azioni, conosciute dopo il giudicato, sono svincolate da qualsiasi nesso col fatto giudicato e sono relative ad un diverso fatto di sfruttamento, non vi è ragione per precludere l’esercizio di una nuova azione penale (come nel caso in cui vengano scoperte altre azioni di sfruttamento commesse in tempo più lontano e separate da un lungo distacco cronologico dal fatto

giudicato››193

.

190

I fatti che compongono il fatto tipico devono essere identici o, quanto meno, omogenei: ciò significa che essi devono possedere la stessa carica offensiva, ossia devono concorrere alla lesione o alla messa in pericolo dello stesso interesse che è, appunto, quello protetto dalla norma che prevede il reato di cui si tratta. L’offesa, peraltro, non è soltanto il risultato della omogeneità dei fatti componenti il reato abituale, ma anche della loro persistente frequenza: così, ad esempio, nel delitto di maltrattamenti di famiglia, la sofferenza della vittima, proprio a causa della reiterazione, è ben diversa rispetto a quella conseguente ad un episodio isolato, anche se esso costituisce di per sé reato (ingiurie,percosse).

191

L’ultimo elemento caratteristico del reato abituale è l’esistenza di un particolare legame che unisce i vari episodi della stessa serie, in quanto la semplice e meccanica ripetizione di più fatti omogenei non è sufficiente ad integrare la figura del reato abituale, anzi, è proprio su questo requisito che si sorregge la qualificazione di tale reato.

192 G. Leone, Del reato abituale, permanente e continuato, Napoli, Jovene, 1933. 193 G. Leone, Del reato abituale, permanente e continuato, Napoli, Jovene, 1933.

117 Guardiamo ora all’ipotesi di giudicato di assoluzione, in particolare riferendoci al reato abituale proprio. E’ possibile che il giudice assolva perché la serie di azioni presentate in giudizio è, a suo avviso, incompleta e tale da non riuscire ad integrare il reato imputato. Pensiamo all’ipotesi in cui si denunzi all’autorità giudiziaria uno sfruttamento di prostitute ed il giudice assolve perché le poche azioni portate a sua conoscenza sono ritenute insufficienti ad integrare il reato denunciato: quanto appena detto risulta esatto in quanto, in materia di reato abituale proprio, la condotta incompleta costituisce una situazione giuridica che, come tale, non è suscettibile di punizione perché penalmente irrilevante. Se, però, accade che, successivamente alla sentenza di assoluzione, vengano commesse altre azioni collegabili, specie per quanto attiene all’elemento psicologico, alle precedenti, bisogna domandarsi se sia possibile opporre l’exeptio rei iudicatae, al fine di evitare che si riportino all’attenzione del giudice le precedenti azioni, sulle quali il giudice emise sentenza di assoluzione.

La risposta è semplice: la sentenza con la quale si assolve l’imputato sul presupposto che le azioni dedotte in giudizio siano insufficienti a costituire la particolare figura del reato abituale non può impedire che, intervenute altre azioni, il secondo giudice le esamini, insieme a quelle su cui era caduto il precedente giudicato, per vedere se ora è integrato il reato stesso. Questa specie di azione, secondo l’Autore, non può, infatti, riportarsi sotto lo schema dell’art.649 c.p.p perché presupposto dello stesso è l’identità del fatto ma, in questo caso, nessuno dubiterebbe che il fatto, per l’intervento delle successive azioni, sia sostanzialmente mutato. La questione, secondo Leone, va, piuttosto, portata sotto il profilo della particolare struttura del reato abituale: nel reato abituale, infatti, l’elemento materiale, come abbiamo appena visto, è costituito da una serie di azioni le quali stanno tra loro in un certo rapporto e, nel momento in cui interverrà l’ultima azione che completerà l’azione, acquisteranno, per effetto di una sorta di efficacia retroattiva dell’ultima azione stessa, rilevanza giuridica che, evidentemente, non avevano nel momento in cui comparvero. Dunque, non può che aversi sentenza di assoluzione laddove le azioni portate in giudizio non siano sufficienti ad integrare il reato abituale, in quanto quelle azioni su cui è intervenuta la decisione del giudice non erano, in quel momento, penalmente rilevanti. Però il problema che poneva Leone è il seguente: se, dopo il giudizio di assoluzione, dovessero comparire altre azioni, riconducibili a quelle già giudicate ed integranti la fattispecie di cui si tratta, è evidente che nessuno potrà impedire al secondo giudice di prenderle in esame al fine di emettere, eventualmente, una

118 sentenza di condanna. La particolarità di questa ipotesi, aggiungeva l’Autore, sta nel fatto che ‹‹ mentre l’esame delle nuove azioni mai dedotte in giudizio è libero da qualsiasi vincolo con il precedente giudicato, trattandosi di elementi di fatto nuovi, il giudizio sulle azioni già giudicate può apparire una violazione della res iudicata. Può apparire ma non lo è, perché, a parte che il nuovo giudizio cade su un più vasto complesso di azioni, parte delle quali è già stata giudicata, basta rilevare che il precedente giudicato poggia su di una situazione giuridica incerta che se non giungerà a maturazione resterà come è ma che, in caso opposto, acquisterà quella rilevanza che, nel momento originario, non possedeva. Se, infatti, i successivi elementi, perfezionando la situazione giuridica originaria, danno rilevanza a quegli elementi precedenti, crolla il fondamento su cui poggiava quella sentenza assolutoria. Sarebbe strano ammettere che quella stessa sentenza, che pronuncia l’assoluzione sul presupposto che il materiale dedotto in giudizio sia insufficiente ad abbia bisogno di essere integrato da nuovi elementi, debba precludere il giudizio su questo materiale, qualora i nuovi elementi richiesti dovessero

comparire››194

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