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Il valore del giudicato penale nella Costituzione e nelle Carte internazional

10.L’autorità della cosa giudicata penale

11. Il valore del giudicato penale nella Costituzione e nelle Carte internazional

Al fine di cogliere compiutamente l’essenza ed il ruolo dell’istituto del giudicato nel nostro ordinamento giuridico, è necessario individuare ed approfondire il valore dell’istituto stesso all’interno della Costituzione, posto che la stessa Corte Costituzionale ha più volte richiamato ‹‹ l’interesse, fondamentale in ogni ordinamento, alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all’intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in

giudicato››64

.

64

51 Un consolidato orientamento dottrinale tende a rappresentare il giudicato penale come un principio costituzionalmente garantito, sia pure differenziandosi, poi, sull’entità della copertura costituzionale che viene ricollegata all’istituto processuale.

Una posizione speculativa ritiene che la Costituzione garantisca esclusivamente la formazione del giudicato e tuteli solo il divieto di bis in idem in malam partem, come espressione di un

interesse preminente alla sicurezza individuale65, mentre precisa che non è invece pacifico che

vi sia un interesse, costituzionalmente rilevante, alla stabilità dei giudicati. Si sostiene, infatti,

che l’impostazione “personalistica”66

, che informa la Costituzione e che è consacrata all’articolo 2 della stessa, postulerebbe necessariamente una tutela privilegiata della situazione soggettiva d’interesse individuale finalizzata ad ottenere una sentenza giusta; quindi, secondo questa tesi, la Costituzione tutelerebbe sempre e comunque l’interesse alla formazione del giudicato, mentre l’interesse alla stabilità dello stesso verrebbe ad essere garantito solo unilateralmente, ossia per scongiurare il rischio che il soggetto già giudicato irrevocabilmente possa vedere rimesso in discussione, a suo sfavore, l’esito del processo.

Una differente posizione della dottrina contesta la tesi della costituzionalizzazione del giudicato in chiave unilaterale, sostenendo che nel sistema costituzionale ‹‹ a dover essere riconosciuti e garantiti dalla Repubblica, con l’esercizio della potestà punitiva e con il giudicato, non sono solo i diritti del soggetto, prima imputato e poi prosciolto o condannato,

ma anche quelli della vittima e dei titolari dei beni protetti dalla norma penale››67

.

Questa posizione sostiene che la Costituzione tutela il giudicato come valore unitario, in cui i due diversi profili, quello dell’imperatività e quello dell’immutabilità, sono uniti nella normatività della sentenza irrevocabile.

Innanzitutto, si osserva come tale valore venga riconosciuto in modo esplicito da quelle disposizioni costituzionali che si riferiscono espressamente alla sentenza definitiva o irrevocabile: basti pensare all’articolo 27 comma 2 Cost., il quale fa divieto di ritenere colpevole l’imputato fino alla condanna definitiva, all’articolo 48 comma 4 Cost. che vieta di

65

G. De Luca, I limiti soggettivi della cosa giudicata penale, Milano, Giuffrè, 1963, cit., p.92; Id., ‹‹ Giudicato,

II) diritto processuale penale››, cit.,p.2. 66

G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, p.304.

67

M. Gialuz, Il ricorso straordinario per cassazione, cit., p.44. Lo stesso autore continua sostenendo che il giudicato è un valore cui la Costituzione assegna carattere fondamentale: non può, quindi, essere svuotato o sacrificato, col riconoscere la facoltà di rimettere in discussione all’infinito l’esito del processo, in presenza di un qualsiasi sintomo di ingiustizia.

52 ricollegare limitazioni del diritto di voto alla pronuncia di una sentenza penale che non sia irrevocabile oppure all’articolo 68 comma 2 Cost. che esclude l’inviolabilità del parlamentare solo ove si tratti di eseguire una sentenza irrevocabile di condanna.

Inoltre, per rafforzare la tesi dell’esplicito riferimento costituzionale al giudicato penale, si adduce il suo riconoscimento nei trattati internazionali dei diritti dell’uomo, i quali, oltre ad essere recepiti nel nostro ordinamento con legge ordinaria, ricevono, oggi, una valenza normativa rafforzata dal nuovo articolo 117 comma 1 Cost.

In secondo luogo, al fine di sostenere il valore costituzionale del giudicato, si mette in rilievo come alcuni specifici principi fondamentali, sanciti nella Carta, vengono a garantire che il processo penale sia diretto ad accertare, con una pronuncia definitiva ed incontrovertibile, la sussistenza o meno del dovere statuale di punire. Innanzitutto, si sostiene che il principio della generale ricorribilità delle sentenze, di cui all’articolo 111 comma 7 Cost., intenderebbe assicurare nella legislazione ordinaria la tutela giurisdizionale dei diritti con statuizioni dotate di autorità di giudicato; si osserva che, siccome nella tradizione del nostro ordinamento processuale, il giudizio di cassazione, eventualmente integrato da un ulteriore giudizio di rinvio, costituisce l’ultimo grado nelle serie delle impugnazioni ordinarie, la sua conclusione deve segnare anche quella del processo, con il costituirsi del “giudicato formale”.

Per sostenere la costituzionalizzazione del giudicato penale si fa riferimento, poi, al principio della ragionevole durata del processo sancito dall’articolo 111 comma 2 Cost., il quale, secondo tale tesi imporrebbe ‹‹ il giudicato, l’irrevocabilità della decisione quale barriera ad una pretesa ricerca della verità che, assunta come unico riferimento, porterebbe all’esperienza

del processo senza fine››68

.

Si osserva, infine, che il sistema costituzionale disegna un’armonica costruzione che va dal principio di legalità al principio di obbligatorietà dell’azione penale, in cui il giudicato rappresenta l’ultimo tassello e che, pertanto, non può non essere garantito dalla Costituzione questo istituto che svolge un’opera di autointegrazione dell’ordinamento che è indispensabile per tradurre la norma astratta in regola del caso concreto; si afferma, poi, che ‹‹ il giudicato penale, oggi, è oggetto di tutela costituzionale non solo in sé e per sé, come atto normativo autonomamente considerato, ma anche quale risultato di un processo giusto, cioè regolato da principi garantistici ed euristici, pur essi costituzionalizzati, nonché di un conseguente

68

53 giudizio, guidato dalle regole della logica, basato sulle risultanze istruttorie acquisite secondo

tali canoni e congruamente motivato››69

.

Alla luce delle argomentazioni esaminate, si può affermare che l’orientamento che configura il giudicato penale come principio costituzionalmente garantito, sebbene risulti sicuramente motivato in modo articolato, tuttavia, sotto il profilo logico giuridico, tradisce delle leggerezze e delle inesattezze che non lo rendono realmente condivisibile.

Innanzitutto, le norme della Costituzione che contengono un riferimento testuale esplicito alle sentenze definitive o irrevocabili, non esprimono alcuna sorta di riconoscimento generale del giudicato né del suo valore unitario, ma disciplinano solo aspetti specifici e parziali, pur se

rilevanti, o, addirittura, effetti secondari e mediati del fenomeno generale

dell’incontrovertibilità del dictum penale.

Per quanto riguarda, invece, le operazioni di interpretazione “costruttiva” della Costituzione che ricavano da alcuni principi, sanciti espressamente nella Carta, una copertura costituzionale al giudicato penale, pur in assenza di un riferimento esplicito all’imperatività o all’immutabilità dell’accertamento giudiziario, esse si rivelano senza dubbio suggestive, ma non concludenti e rigorose.

In primo luogo, l’art.111 comma 7 Cost., nello statuire il principio della generale ricorribilità delle sentenze per vizi di legittimità, non viene a porre un limite invalicabile al sistema dei rimedi giuridici avverso l’ingiustizia o l’invalidità di una decisione giudiziale, allo scopo così di sancire l’incontrovertibilità del giudicato, ma al contrario, stabilisce una garanzia minima, necessaria ed inderogabile di verifica dell’esito del processo. Del resto, da tale norma non discende nemmeno un’assoluta inoppugnabilità dei provvedimenti della Corte di Cassazione: lo dimostra chiaramente il fatto che sia stato introdotto nell’ordinamento processuale penale, ad opera del legislatore ordinario del 2001, il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, una deroga “autorizzata”previamente dalla stessa Consulta, la quale, pur ribadendo che l’irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della Corte di Cassazione risponde al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento giurisdizionale definitivo, ha ammesso espressamente che un tale intervento normativo rientra tra le scelte riservate al legislatore, nell’esercizio della sua sfera di discrezionalità nell’opera di conformazione del

processo.70

69 P. Moscarini, L’omessa valutazione della prova favorevole all’imputato,Padova, CEDAM, 2005. 70 Corte Cost., sent. 5 luglio 1995, n.294, in Giur. Cost., 1995, p.2293.

54 In secondo luogo, il principio della ragionevole durata del processo, di cui all’articolo 111 comma 2 Cost., mira ad evitare che le garanzie non si dilatino fino al punto di rendere irragionevoli i tempi processuali e, soprattutto, ad assicurare l’efficienza della giurisdizione penale, ma ciò non implica necessariamente che il processo debba giungere ad un dictum che resti irrefragabile, pur in presenza di fondate ragioni di giustizia che legittimano la sua riapertura. La ragionevole durata del processo non è né può essere, nemmeno a livello costituzionale, un valore assoluto e, piuttosto, la ragionevole durata del processo va intesa nei termini di relazione adeguata tra lo scopo e i mezzi, dove lo scopo è, ovviamente, lo scopo del

processo, inteso come itinerario di produzione giuridica in termini di verità e giustizia.71

Infine, si deve rigettare l’idea che il sistema costituzionale sia univocamente diretto a sancire come necessariamente dovuto ed indefettibile il giudicato penale, perché non è in dubbio che nella Costituzione esistono e sono riconosciuti anche i valori fondamentali della verità e della giustizia, che si rivelano antinomici rispetto all’assoluta incontrovertibilità della decisione; è proprio la Corte Costituzionale ad ammonire che il principio dell’intangibilità del giudicato deve essere rettamente inteso, in quanto è l’ordinamento stesso che è interamente orientato a non tenere conto del giudicato, e quindi a non mitizzarne l’intangibilità, ogniqualvolta dal

giudicato resterebbero sacrificati i diritti dei cittadini.72

Recentemente, la Corte Costituzionale ha espressamente asserito che il giudicato penale

svolge una funzione costituzionale73: si tratta di un esplicito riconoscimento del fatto che tale

istituto fondamentale non costituisce un principio costituzionale, bensì rappresenta un mezzo giuridico preordinato a garantire ed assicurare un valore di rango costituzionale, ovvero la certezza del diritto. Il principio dell’intangibilità del giudicato penale, come più volte affermato dai giudici della Consulta, trova fondamento nell’insopprimibile esigenza di certezza e di stabilità dei rapporti giuridici definiti da una sentenza irrevocabile: non è, infatti, da porre in dubbio che ovvie esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, presenti in tutti gli ordinamenti, richiedono che, per quanto efficaci siano i controlli ed i mezzi di gravame attribuiti alle parti, ad un certo momento il processo si concluda irretrattabilemente. In altri

71

M. Pisani, Durata ragionevole in sede di appello. L’appellabilità, in Per una giustizia penale più sollecita:

ostacoli e rimedi ragionevoli. Convegni di studio “Enrico De Nicola”. Problemi attuali di diritto e procedura penale, Milano, 2006.

72

Corte Cost., sent. 9 aprile 1987, n. 115, in Giur. Cost., 1987, p. 386.

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55 termini, è insito nella nozione stessa di procedimento che il complesso di operazioni in cui si articola sia preordinato al fine di conseguire un accertamento definitivo che costituisce lo scopo medesimo dell’attività giurisdizionale.

Dunque, il giudicato penale, precludendo la perpetuazione dei giudizi e garantendo la definizione del procedimento, rappresenta uno strumento giuridico che realizza un interesse fondamentale dell’ordinamento, l’interesse fondamentale alla certezza delle situazioni giuridiche.

Pertanto, l’intangibilità del giudicato penale non rappresenta un principio di rango costituzionale, bensì un principio del sistema processuale, volto ad assicurare un valore costituzionalmente protetto, ossia l’esigenza di certezza giuridica: è la stessa Consulta ad affermare che è connaturale al sistema delle impugnazioni ordinarie che vi sia una pronuncia terminale che definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta e deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di un

ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso74. Con specifico riferimento agli effetti

“negativi” del giudicato penale che impediscono di sottoporre a nuovo procedimento per il medesimo fatto chiunque sia stato condannato o prosciolto con sentenza divenuta irrevocabile, i giudici della Consulta hanno espressamente ribadito che il giudicato rappresenta uno dei principi fondamentali nel nostro ordinamento ma, al contempo, hanno avuto cura di precisare che esso non può subire deroghe se non nei casi espressamente previsti dalla legge, riconoscendo in tal modo che non costituisce affatto un principio di rango costituzionale, sovraordinato alla legge ordinaria. Invero, ‹‹ assolve un’esigenza logica prima che giuridica la legge che traccia le linee del procedimento in modo che esso abbia a progredire verso la soluzione finale attraverso la concatenazione di atti di valore definitivo, così da impedire la perpetuazione dei giudizi; e la scelta che all’uopo fa la legge, quando chiude una fase processuale e ne fa proseguire un’altra che poggia sui risultati della prima, attiene a criteri di politica giudiziaria, di per sé soli insindacabili nella sede di legittimità

costituzionale››75

.

Per quanto riguarda, invece, i trattati internazionali di tutela dei diritti dell’uomo, si può constatare che disposizioni come l’articolo 14 paragrafo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e, soprattutto, l’articolo 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei

74

Corte Cost., ord. 17 novembre 2000, n. 501, in Giur. Cost.,2000, p.3870.

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56 diritti dell’uomo ( ‹‹ Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato››) contengono un ampio riconoscimento del valore del giudicato penale. A questo punto diventa, quindi, fondamentale individuare il rango di tali norme del diritto internazionale pattizio nell’ordinamento giuridico italiano, che inevitabilmente viene a condizionare in modo diretto il valore del giudicato nel sistema costituzionale.

In passato, parte della dottrina aveva ricollegato una copertura costituzionale a tali Carte internazionali dei diritti in forza degli articoli 2, 10 e 11 Cost.; in relazione all’articolo 2 Cost., si è sostenuto il valore costituzionale delle disposizioni dirette a salvaguardare i diritti umani fondamentali, contenute in trattati internazionali, richiamandosi, appunto, all’articolo 2 della Carta, il quale, nel dichiarare di “riconoscere” e di “garantire” i “diritti inviolabili dell’uomo”, è parso costituire una sorta di “clausola aperta” all’ingresso di meccanismi per tutelare posizioni giuridiche soggettive ulteriori rispetto a quelle espressamente considerate dalla Costituzione stessa, e quindi anche per poter ricomprendere i diritti e le libertà che l’Italia si era impegnata a riconoscere e garantire, mediante la firma e la ratifica di un trattato internazionale.

Per quanto riguarda l’articolo 10 Cost., una posizione dottrinale singolare ha rintracciato la forza costituzionale dei trattati internazionali di tutela dei diritti dell’uomo nel disposto dell’articolo 10 comma 1 della Carta Costituzionale, attraverso il quale, stabilendo il cd. “adattamento automatico” dell’ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, è sembrato poter elevare al massimo rango nella gerarchia delle fonti del diritto, mediante la ricezione della norma consuetudinaria pacta sunt servanda, anche il diritto internazionale di matrice pattizia. Infine, relativamente all’articolo 11 Cost., una tesi della dottrina ha ricavato il valore costituzionale delle disposizioni contenute nei trattati internazionali di tutela dei diritti umani fondamentali, facendo leva sul dato positivo dell’articolo 11 della Carta, il quale, consentendo all’Italia di porre le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni, avrebbe determinato inevitabilmente la “costituzionalizzazione” di tali norme pattizie volte a garantire il riconoscimento e la salvaguardia delle libertà e della dignità dell’uomo.

Tuttavia, queste raffinate ed articolate proposizioni ricostruttive non ebbero mai una effettiva accoglienza nella giurisprudenza costituzionale, a causa della loro ambientazione su un piano assiologico-sostanziale e dell’assoluta mancanza di un esplicito e formale richiamo nella

57

Costituzione italiana76. Difatti, la Corte Costituzionale inizialmente si è espressa nel senso

che, in mancanza di specifica previsione costituzionale, le norme pattizie, rese esecutive

nell’ordinamento della Repubblica, hanno valore di legge ordinaria77

; i giudici della Consulta, più recentemente, in una diversa prospettiva, hanno precisato che ‹‹ indipendentemente dal valore da attribuire alle norme pattizie, che non si collocano di per sé stesse a livello costituzionale mentre spetta al legislatore dare ad esse attuazione, è da rilevare che i diritti umani, garantiti anche da Convenzioni universali o regionali, trovano espressione, e non meno

intensa garanzia, nella Costituzione››78

.

Oggi, però, la questione interpretativa in ordine al rango dei trattati internazionali di tutela dei diritti dell’uomo è rinnovata per effetto della modifica dell’articolo 117 Cost. ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha introdotto un nuovo primo comma, col quale si stabilisce che l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata ‹‹ nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali››.

Mentre per quanto riguarda i vincoli comunitari, per ciò che concerne gli obblighi internazionali, è sorta immediatamente la questione se il nuovo articolo 117 comma 1 Cost. debba configurarsi quale norma sulla produzione giuridica “interna”, ossia diretta a fissare i limiti all’esercizio della potestà normativa dello Stato e delle Regioni, ovvero se sia da intendere quale norma di adattamento di portata generale, al pari dell’articolo 10 Cost. per il diritto internazionale consuetudinario, che attribuisce alle disposizioni di origine pattizia la funzione di norme interposte nel giudizio di costituzionalità.

Autorevoli giuristi 79 hanno accolto quest’ultima interpretazione normativa dagli indubbi

effetti dirompenti nel sistema giuridico italiano; un diverso orientamento dottrinale80 l’ha

76 A. Ruggeri- A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2004, p.77; M. Chiavario, La convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano, 1969, p.

48 ss.; A. La Pergola, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1961, p. 318 ss.

77

Corte Cost., sent. 22 dicembre 1980, n. 188, in Giur. Cost., 1980, p. 1612.

78

Corte Cost., sent. 22 ottobre 1999, n. 388, in Foro it., 2000.

79

In tal senso P. Caretti, Il limite degli obblighi internazionali per la legge dello Stato e delle Regioni, in Stato,

Regioni ed Enti locali tra innovazione e continuità, Torino, 2003, p.61 ss; A. Cassese, Il diritto internazionale,

Bologna, 2003, p. 278; G. Catelani, I trattati internazionali, in R. Romboli, L’accesso alla giustizia

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respinta decisamente, sostenendo, sulla base di argomenti differenti81, che l’articolo 117

comma 1 Cost. non viene a “costituzionalizzare” tali fonti internazionali. In altri termini, secondo tale tesi, la disposizione in esame esprimerebbe solo un obbligo di “esecuzione

interna” delle norme pattizie per il legislatore ordinario82: esecuzione “negativa”, nel divieto

di adottare disposizioni ad esse contrastanti, ed esecuzione “positiva”, nell’impegnarlo ad emanare le norme necessarie per il loro adempimento.

Recentemente, con due decisioni83, la Corte Costituzionale, per la prima volta, ha affrontato

espressamente la delicata questione dei rapporti tra le fonti del diritto interno e gli obblighi internazionali alla luce delle modifiche apportate all’articolo 117 comma 1 Cost. dalla legge costituzionale n. 3 del 2001: in particolare, la Corte si è pronunciata, in relazione alla CEDU, sul suo valore e sulla sua collocazione nel nostro sistema delle fonti, ma ha adoperato espressioni ed argomenti che sembrano poter essere estese a tutto il diritto internazionale pattizio.

La Consulta ha preso in considerazione tutte le principali ipotesi ricostruttive avanzate dalla dottrina in merito alle conseguenze riconducibili alla modifica dell’articolo 117 comma 1 Cost. e, preliminarmente, ha escluso la possibilità di valutare i rapporti tra diritto interno e diritto internazionale pattizio in modo analogo a quanto attualmente contemplato nell’ambito delle relazioni tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, ossia prevedendo nel caso specifico la disapplicazione delle norme nazionali da parte dei giudici comuni in caso di contrasto con le disposizioni della CEDU. La Corte afferma in modo netto che l’ambito comunitario e l’ambito CEDU sono strutturalmente diversi, non essendo rinvenibile nel secondo alcuna forma di limitazione della sovranità come quelle riconducibili all’articolo 11 Cost., in relazione al diritto comunitario: ‹‹ la distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie deve essere ribadita nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, sono sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti

80

Così C. Pinelli, I limiti generali della potestà legislativa statale e i rapporti con l’ordinamento internazionale

e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001; in tal senso anche E. Cannizzaro, La riforma ‹‹federalista›› della Costituzione e gli obblighi internazionali, in Riv. Dir. int. , 2001.

81

Anzitutto, si osserva che se solo si confronta l’art. 117 comma 1 Cost. con le disposizioni analoghe presenti in altri ordinamenti, emerge come il suo dato testuale non sia idoneo a giustificare la qualificazione di tale articolo